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A volte mi sento assediata dal tempo.

Mi sento come se, delle mille cose che potevo fare e dei mille luoghi in cui potevo essere, delle tante persone che volevo conoscere, mi rimanesse un fazzoletto di vita che sembra ancora spazioso solo perché non se ne vede la fine, tanto è stretto e lungo: ma, se ti ci incammini, scopri che porta a un solo posto.

Questo pensiero è l’unica concessione “angosciata” che ho fatto alla quarantena, che altrimenti mi è parsa tranquilla e in fondo generosa: un’alternativa che avevo alla prospettiva di cadere malata, io che avevo pure la fortuna di non patirci la fame.

Ne parlavo ieri in spiaggia con un’amica: del privilegio di aver usato la quarantena per stabilire le mie priorità, di aver accettato quello che forse non farò mai, di aver accolto con gioia quello che posso fare ancora.

Vivo in un’epoca che è triste per molti e nera per tanti, ed empatizzo coi miei simili, io che a starvi a sentire sembro sempre starmene in disparte o prendervi in giro: osservo con curiosità le piccole cose che mi richiamano l’attenzione anche quando mi spaventano.

Venerdì scorso, per esempio, osservavo una camionetta della polizia in fiamme giusto al centro di Via Laietana, tra scoppi che avevo interpretato subito, forse a torto, come di proiettili ad aria compressa. Davanti a quel fuoco ho avuto paura come mai in dodici anni di vita a Barcellona, a parte quella volta in cui, in una piazza avvolta nel fumo, una ragazza dai capelli neri raccolti sulla nuca aveva provato a fermare i gruppetti di manifestanti in fuga, che rischiavano di scontrarsi tra loro come in uno sketch di Benny Hill. “Inutile correre” la ragazza quasi rideva, tra gli spari e le sirene. “Verranno da tutte le parti. Tanto vale che restiamo qua ad aspettarli.”

Venerdì, invece, io non volevo aspettare proprio nessuno.

Filavo a casa tra i bengala e quegli altri scoppi che non sapevo identificare. Correvo e scattavo le foto sfocate che fanno parte del mio compromesso con la terra in cui sto ora: non ti capisco, ma provo a raccontarti.

Poi avrei postato quelle foto, qualcuno avrebbe commentato che “amo il pericolo”. No, amo le storie. Raccontate con ogni mezzo di comunicazione. Non devono essere originali, anzi: niente mi affascina quanto una storia raccontata da più voci, scritta o diretta da più mani. Mi ricorda quanto sia tutto sfumato, passeggero. Quanto sia meglio così.

Per esempio, c’è una strada, ai confini della città. Da un lato è Barcellona, dall’altro lato non si può, non si deve andare, non nei festivi. È questione di attraversare, di spostarsi qualche numero civico più in là. Il mio coinquilino doveva andare sabato pomeriggio dalla parte sbagliata della strada, da una ragazza, a fare i dolcetti dei morti.

Però venerdì sera, quando era tornato puntuale con l’inizio del coprifuoco, il coinquilino sbraitava con quelli che avevano acceso i fuochi in strada: non erano i suoi, erano soprattutto negazionisti e ultrà del Barça. Non chiedevano sussidi e leggi perché la guerra al virus non diventasse una guerra ai poveri: facevano casino e basta, e mettevano nei guai anche les companyes del coinquilino (qui è diffuso il femminile come plurale generico). In seguito allo sgombero di un centro sociale era stata convocata una manifestazione proprio questo sabato in cui lui, che in fondo aveva già dato partecipando al corteo di lunedì, doveva andare a fare i dolci dei morti. Ma dopo quel venerdì di tafferugli ultrà, la polizia sarebbe andata agguerritissima alla manifestazione dei suoi: il coinquilino doveva sostenerli, e almeno quel sabato doveva rinunciare alla ragazza che viveva dall’altra parte della città, e ai suoi dolcetti.

Il giorno dopo, invece, lui era già con la mascherina poco dopo mangiato: andasse per i dolcetti, che di questi tempi è meglio prendersi tutte le gioie disponibili. Ottima scelta, perché almeno stavolta la potenziale guerriglia era stata una tempesta in un bicchiere. Alla manifestazione ci sarei finita io, solo per constatare che già un’ora prima dell’inizio c’erano quindici camionette e due ambulanze.

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Un’ora dopo l’inizio, quando ripassavo di lì al ritorno dalla mia solita dose di vitamina D, al massimo si accendeva qualche fiaccola dopo la consueta lettura dei comunicati, con tanto di invito alla folla a scansarsi durante l’operazione. La guerriglia sarebbe avvenuta più tardi, lontano da me, e non l’avrebbero condotta quei quattromila presenti in piazza (millecinquecento “per la questura”), ma una ventina di facinorosi, che ovviamente sarebbero finiti sui giornali come principale evento della serata.

C’è gente a cui piace raccontare sempre la stessa storia.

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Lo so, che i dilettanti hanno fatto l’arca e gli esperti il Titanic. Ricordate? Era tra le prime mail di aneddoti che circolavano nell’Italia fresca di Internet.

Però Abdul mi ha fatto pensare. Sì, sempre lui. Prima di privarmi della coinquilina più perspicace del mondo, mi aveva mostrato la mia nuova porta, e poi quella del vicino.

“Guarda la differenza” aveva ordinato.

Ora, io ho il privilegio di chi può dedicare la propria vita a non concentrarsi su questi particolari, ma in effetti quella del vicino era una signora porta, di un color marroncino che conferiva perfino qualche pretesa al legno utilizzato. La mia, invece, sembrava leccata da un cane che avesse mangiato della Nutella.

“Questo succede quando lasci fare ai non professionisti” aveva sentenziato Abdul, riferendosi senza saperlo a quel paraculo dell’antico proprietario.

Mi aveva distrutto così diversi anni di devozione ai lavori manuali, di saponi troppo morbidi e cappelli regalati a gente restia a indossarli. Per non parlare delle patatine di verdure che escono dal mio essiccatore!

Però avevo già “tradito” un po’ queste cose per le diverse pubblicazioni con cui chiudo l’anno. Quando il lavoro (retribuito) mi ha gettata fuori casa dalle 7 alle 23, almeno due giorni a settimana, non ho avuto un istante di dubbio su come dedicare il mio tempo libero: allora mi avreste vista col pc in bilico sullo step (visione celestiale!) a correggere racconti mai neanche selezionati dagli editori, ma utili a me per imparare.

Quindi, più che riuscire bene o male in qualcosa, d’ora in poi lascerò più spesso ai professionisti l’incarico di farmi sciarpe e saponi (e porte!), non tanto perché faccio schifo a incaricarmene io, ma per una cosa che ho letto su Facebook: “Provate a sostituire ‘non ho tempo’ con ‘ho altre priorità’. Cambia tutto”.

E mi sa che Noè, con l’impermeabile ancora addosso e gli stivaloni da pioggia, mi darebbe ragione.

Anche se sono convinta che Abdul, al posto suo, sarebbe riuscito a imbarcare anche i leocorni.

Foto di Stefano Buonamici http://buonamici.photoshelter.com/

– Scusa…

Alzo gli occhi dal libro.

Un tizio occhialuto e magro mi copre le onde della Barceloneta.

– No, è che eri così immersa nella lettura che dovevo disturbarti!

Un’esperienza quasi ventennale in posteggia (da me gli idioti so’ precoci) e so solo sorridere a denti stretti:

– Ah, be’, grazie del pensiero!

Non se ne va.

– Sembra che ti piaccia il viola

Mi passo una mano tra il vestito viola e la borsa in tinta, sbattendo gli occhi bistrati di viola.

– Pare di sì.

Allora la butta sul sociale:

– Passeggiavo e mi chiedevo cosa fosse successo, alla spiaggia. Sembra il festival dell’immondizia!

L’argomento giusto con una di Napoli. Alla fine riesco a dire:

– Buona passeggiata, allora!

Perfino il mio alunno di posteggia è meglio. Quando sono entrata nel panificio dopo 12 giorni di assenza ha detto:

– Italiana bellisima, come stai?
– Male, fa caldo!
– Se lo dici tu…
– E tu come stai?
– Fa caldo!
– Ah, adesso lo senti?
– Sì, perché sei entrata tu!

Si vede che non si allena da un po’. È pure smunto, sarà stato il Ramadan. Meno male che adesso è finito e il venerdì si mangia di nuovo cous cous. Giovedì, invece, paella.

Insomma, rieccomi a Barcellona.

L’amaca era ancora lì, sembrava rinchiusa su se stessa per sfidare il vento.

Ho guardato il clásico (Barça-Real) a la Xaica, adesso Bastió Blaugrana, e vi sconsiglio il nuovo piano per le partite: razioni piccole, poca scelta (fatevi portare il menù del piano di sopra) e uno schermo per tavolo è un po’ alienante. Meno male che abbiamo “portato a casa il risultato” , coi giocatori che si sono risvegliati come marionette al primo goal di Ronaldo.

Poi la coppia napolucana mi ha aggiornato sulle novità.

Una collega francese di lei è stata sospesa al lavoro insieme a un tecnico della manutenzione. Sesso orale in bagno a porta aperta.

Un’altra che vive nel Raval, come me, si è ritrovata un incendio al piano di sotto, dove vivevano 18 pakistani. Intossicati ma salvi.

18. E noi ci lamentiamo…

No, scusate, discussioni oziose da Barcellona senza.

L’amica comune parla spesso di lui, ma soprattutto della ragazza. Quando sentiamo una canzone unz tunz dice “oh, questa a lei piacerebbe tantissimo!”. Pure ieri, alla festa di Sants, tra le decorazioni ispirate a Hello Kitty: “Oh, vorrei che fosse qui con noi, lei adora Hello Kitty!”.

Sono cose che fanno bene al cuore.

Ma la festa di Sants è carina. Stanotte torniamo per i correfocs, che l’amica catalana, come tutte qua, li adora. Le ricordano l’infanzia. Noi che abbiamo avuto un’infanzia altrove non siamo altrettanto entusiasti, ma mi piacerà giocare tra le scintille.

Un’ultima considerazione oziosa: qui, l’ho già detto, si va per feste. C’è la disoccupazione, l’alienazione, l’amicizia usa e getta che dura un’estate. Ma poi ci sono le feste di quartiere, i concerti gratis, i cinema all’aperto.

Le feste mettono gioia e tristezza insieme.

Per adesso ci prendiamo la gioia.

(il momento più alto della festa di Sants. Passata subito dopo l’originale)



Quest’uomo ci piace ricordarlo così, sottotitolato (in inglese e in spagnolo se premete su CC sotto al video). È il suo discorso davanti al Parlamento catalano e al padre muratore in lacrime. La frase che dice a 11:50 è ormai più famosa di quelle di Jim Morrison.

Se avete ancora dei dubbi, da me commenti tecnici meglio non aspettarsene. Il calcio lo guardo per altre cose. Nemmeno per il fisico dei giocatori, come l’amica che mentre soffro appresso al Napoli aspetta che il bomber avversario si tolga la maglietta.

No, io il calcio lo guardo per mangiare e fare bordello.

Ieri ho approfittato della letargia ormai conclamata per saltarmi pilates, svegliarmi giusto un’oretta prima di Barça – Chelsea, e fare il mio ingresso trionfale in un Folgoso semivuoto.

Adoro gli ex vicini di Riera Alta, dei bengalesi che hanno rilevato un bar galiziano. Pure l’eterna tavolata di catalani è identica a due anni fa, quando scoprii che lì si guardava il Barça e si mangiavano buone tapas.

C’è anche lui, il ragazzo con la barbetta che mi abbagliò al primo sguardo, più per la t-shirt giallo canarino che per l’avvenenza. Chissà se intanto si è fatto la ragazza, mi chiedo sedendomi al tavolo accanto al bancone.
Che bello, 6 posti tutti per noi, Isabel può piazzarsi dove vuole nonostante il ritardo. Come un altro habitué, un sessantenne con riporto, orecchino d’oro, pantaloncini jeans e t-shirt rosa fluo, che muovendosi come una baiadera annuncia di essersi portato un panino da casa per non mangiarsi le unghie.

Ispirate dallo stratagemma ordiniamo bravas e tapa de jamón, mentre Messi a sua volta si mangia goal su goal e un suo compaesano strafatto mi si siede accanto con una busta della spesa. Quando arrivano i suoi amici si trasferisce sotto lo schermo, davanti a Piqué che muore in diretta per un colpo di fianco di Valdés.

Il tizio con l’orecchino d’oro commenta: – Se gliel’ha rovinato, Shakira gliela insegna lei, la danza del ventre!
E si alza per una dimostrazione omaggio.

Il goal di Busquets viene festeggiato con boato di rito e improvvisa smania gastronomica dei tavoli al centro, che senza consultarsi cominciano a ordinare montagne di biryani. Non sapevo che il cuoco offrisse anche specialità del suo paese! La paella asiatica alletta anche me, ma ormai sono immersa nelle bravas, per consolarmi della rimonta del Chelsea e soprattutto della scoperta che il biondo con la zazzera accanto al mio amato è in realtà la sua ragazza.

Al secondo goal del Barça alzo la forchetta con aria trionfante, schizzando di all i oli il braccio d’Isabel.

L’argentino strafatto si consola del rigore sbagliato chiedendo gli avanzi del biryani. Ovviamente il cameriere stranito gli porta un piatto normale, che ritorna in cucina.

Mentre medito di donare 5 centesimi al derelitto, Torres (!) segna praticamente a porta vuota.

La partita è finita, i compagni di sventura digeriscono il biryani bestemmiando sul rigore mancato e sulla fase nera di Messi.

Col consueto egocentrismo gli attribuisco le mie disgrazie e dico a Isabel:
– Secondo me è innamorato di Shakira.
Lei mi guarda incuriosita, la clara lasciata a metà. La mia anima “letterina” ha il sopravvento e le parlo del castello di un mago, tale Atlante, in cui tutti si perdono inseguendo l’ombra di ciò che più vogliono, amori compresi. E ciascuno insegue qualcun altro, a ripetizione.

Isabel chiosa:

– Allora Messi è innamorato di Shakira, Piqué di Sara Carbonero e Guardiola de su puta madre.

Io la farei telecronista ufficiale del Barça.