Archivio degli articoli con tag: amori

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Alcuni nomi e fatti sono stati alterati per questioni di privacy, ma le cose sono andate più o meno così.

Sparire

Un’alternativa in 3D a YouPorn.

Per coniare la definizione ci metto diverse notti appannate, sospese sull’amaca tra le stelle e la gatta. Forse per Bruno sono stata soltanto l’unico corpo a portata di mano: roba da poco, ma questo passava il convento. Con un involucro del genere, era inutile perdere tempo a scoprire il contenuto.  

E invece “il contenuto” è difficile da rassemblare: devo rimettermi insieme pezzo per pezzo, e ne perdo tanti mentre l’estate inizia piano. Il paradosso è che il mio corpo inizia a somigliare a quelli amati da Bruno almeno in questo: nell’ostinazione a occupare il minor spazio possibile.

Chi mi incrocia per strada dice: “Stai sparendo”. Quel pensiero mi piace, e ormai mi nutro soprattutto di pensieri. I miei amici del Sud usano la parola “sciupata”, che mi riporta a una prozia con la fame di guerra che mi tampinava alle feste di famiglia, per vedere se mangiavo abbastanza (e intanto si nascondeva un dolcetto nella manica).

Non voglio nutrire la mia carne profanata, oltraggiata dal suo donarsi a qualcuno che ha risposto soprattutto con indifferenza e paragoni continui (e che amo ancora, nonostante tutto questo). Fasciata in vestiti sempre più piccoli, presi d’occasione, sono una Partenope di seconda mano, senza acque oscure ad avvolgermi. Per quello ci sono le stelle e i lamenti della gatta, che ha sempre fame. Io invece ingurgito quello che posso quando mi sento troppo debole.

Di conseguenza, visito sempre meno il panettiere sotto casa: un diciottenne magrebino che mi corteggia per ammazzare le lunghe ore davanti al bancone. Un giorno, insieme al cartoccio con la baguette precotta mi offre ridendo la sua compagnia. Posso addirittura scegliere tra lui e il suo collega, un coetaneo molto meno audace che lo osserva perplesso. Magari li preferisco entrambi, insinua il dongiovanni in erba.

Gli rispondo con un sorriso di plastica. Il cartoccio caldo resterà intatto, e il pane si trasformerà in un blocco di pietra. Come il mio corpo.

L’Amico di sempre mi segue da lontano, incapace di offrirmi altro che le sue interpretazioni: Bruno si è scelto per sé un copione che sfuma del tutto, con una donna vicino. Assento, ma non ci casco: la spiegazione più semplice è che in quel momento della sua vita non aveva di meglio.

Ma non riesco a essere cinica fino in fondo. Quel posto che conoscevamo solo noi, fatto di litigi e risate, lenzuola spiegazzate e carezze al mattino, quel posto io l’ho visto. L’ho abitato. Se Bruno si racconta che non è mai esistito, non sono io a perderci.

Lo rivedo alle feste di un quartiere che io detesto e lui ama: ormai fa caldo, e sono strizzata in un vestito taglia S, che comincia pure ad andarmi un po’ largo. Lui è con gente che non frequenta lo Spazio da un po’. Mentre chiacchiero a mezza voce con gli altri mi sento i suoi occhi addosso, e mi viene quasi da ridere: è dall’inizio della serata che non smetto di confrontarmi alle passanti. Questa gli piacerebbe più di me, quest’altra no...

Di lì a qualche giorno “passa” da me per questioni relative allo Spazio: mancano pochi mesi all’evento di beneficenza che dovrei coordinare. A un certo punto il discorso tra noi si fa teso, scivoloso. Sul letto ci finiamo soprattutto a parlare, finché non riassumo la situazione.

“Il problema è che io ti amo, e tu invece…”.

Non gli ho mai detto “ti amo”. La frase lo colpisce come un’accusa, come una faccenda domestica che non ha sbrigato come si deve. Mi spiega che un amico che era con lui alla festa di quartiere ha capito cosa c’era stato tra noi due. L’ha capito dal nostro… linguaggio del corpo.

“L’unico che sappiamo parlare” sorrido. “Perché mi guardavi in quel modo?”.

Ci pensa un momento, poi confessa:

“Stavo cercando di capire se eri molto carina oppure no”.

Un altro esame. Non mi dice se l’ho passato, forse per farlo dovrei sparire sul serio.

Per quanto ci provi, però, proprio non riesco.

A mercoledì per il seguito!

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La gatta e la luna

Non ci riesce.

Per lasciarmi si ingarbuglia in un’ora inutile di discussioni, che ci vede finire sul letto solo per parlare.

Sono io a gettare la spugna.

“Vuoi chiuderla qui?”.

“Sì!” grida lui.

Lo grida come quella donnina in camicia da notte gridava di essere prigioniera, la sera che doveva sancire l’inizio del mio grande amore. Il mio soltanto, a quanto pare, perché per Bruno è durato una settimana scarsa: proprio non riusciva a sopportarmi un giorno di più.

Come una malata, mi sottraggo alla luce. All’inizio, a farmi uscire di casa ci sono gli impegni allo Spazio. Riesco perfino a collaborare con Bruno a una rassegna cinematografica, omaggio improvvisato a un regista italiano appena morto. La prospettiva di vederlo comunque riesce a calmarmi un po’ l’ansia, ma a rassegna finita mi sento riavvolgere dal buio. Fortuna che, con quello, torna la gatta.

Aveva iniziato a intrufolarsi in casa mia passando per il terrazzo condominiale, che ora l’uomo col mastino ha chiuso agli umani. Di solito lei si piazzava su un lettino che mantenevo nel ripostiglio, per poterci dormire se avevo ospiti. L’unica volta che si era acciambellata addosso a Bruno, lui l’aveva accarezzata con un certo imbarazzo, poi aveva dichiarato che puzzava. Mi aveva incuriosito la combinazione tra le sue carezze impacciate e gli improperi che le dirigeva.

Subito dopo la rottura, me la sono presa con la gatta e col suo sguardo curioso: come si permetteva di intrufolarsi nel mio dolore? Un giorno ho provato a farla scendere dal lettino, e le è bastato allungare un artiglio per regalarmi un fiorellino di sangue. Alla fine mi è sembrato che scappasse via per pietà, quasi intenerita dalla mia impotenza. Da allora, mentre affondavo la testa nel cuscino per smorzare le urla, sentivo le sue zampine pestare forte il terrazzo condominiale, riportandomi a un mondo di suoni. Quella presenza lì, potevo accettarla.

La gatta ritorna una notte che sto piangendo.

Sono distesa sull’amaca che mi sono fatta montare in terrazzo, e non so con chi parlo: ti manifesteresti un momento, chiedo al buio, o ti devi sempre far pregare per tutto?

È proprio a quel punto che sento un richiamo acuto: quasi un grido alla luna, che la gatta osserva dal davanzale di mattonelle. Poi c’è un tonfo di zampette, e uno strusciare ovattato che si interrompe solo quando sento un fagotto sotto la mia schiena, nel punto in cui la stoffa azzurra dell’amaca sfiora il suolo in pendenza. Da lì la mia ospite non può certo guardare la luna, ma la cosa non sembra importarle. È come se non avessimo mai litigato, come se in tutto questo tempo mi fosse rimasta accanto.

Decido che è un segno, perché mi serve crederlo. Ecco che mi sono ridotta ad aver bisogno di un segno. Ma ne ho abbastanza dei pasti che sto saltando, delle notti che passo sull’amaca a piangere e parlare in diretta con Dio.

La gatta sarà il mio nume tutelare, uno scudo felino contro il mio primo mito di fondazione: Partenope che non riesce a sedurre Ulisse, e per questo si lascia morire. Ho abbandonato quella storia sull’altra sponda del Mediterraneo, ma non è servito. Sei tua, mi dice il mito, finché non incroci il desiderio di un uomo. In quante ci abbiamo creduto, e per quanto tempo?

Eppure sulle spoglie di Partenope sorge una città.

A lunedì per il seguito!

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Non convinco

Si addormenta dopo cena.

Dopo la sua breve performance da fidanzato si è incupito: è stanco, dice, il giorno dopo deve tornare a casa presto. Mi appare davanti un’immagine che mi perseguita da un po’: un gatto a cui provo invano ad abbassare la testa. La bestiola gira il collo, mi schiva la mano. Ogni volta l’immagine svanisce prima che io sappia se ci sono riuscita, se il gatto è domato.

Perché Bruno è rimasto a dormire, visto che deve fare una levataccia? Ma quando si alza è giorno fatto, e io sono al computer.

Mi è arrivata la risposta della casa editrice appena fondata, che mi aveva richiesto la scheda di un libro. La mia intermediaria è dispiaciuta: le editrici non sono convinte. Manca il confronto tra il libro che mi hanno incaricato di leggere (un romanzo di cinquecento pagine sui lupi mannari) e altri volumi del genere. Sono livida: per cinquanta euro a scheda volevano pure un trattato di letteratura comparata sulla licantropia?

Eravamo rimaste che mi pagavano, chiede l’intermediaria, o la prova era gratuita? Nel primo caso, mandassi pure il mio conto corrente.

Segnalo a Bruno di farsi il caffè, poi inizio a martellare la tastiera: quelle pezzenti delle “editrici” si tenessero pure i loro quattro soldi! Pretendevano di sfruttarmi a cinque euro l’ora e si chiedono pure se mi devono pagare… Sono già alla frutta prima ancora di iniziare, e in ogni caso si meritano la rovina.

Mentre serve il caffè nelle tazze, Bruno si unisce alla mia indignazione: le delusioni lavorative sono un argomento che riesce a unirci. Ma lui è svogliato nel consolarmi, e io sono furibonda. Non è solo per la mail, o per le ore perse a leggere un libro di cui non mi fregava niente. Lui siede davanti a me, finisce la colazione e poi annuncia: “Rimango un altro po’”. Come se il tempo che si è prefissato di dedicarmi non fosse ancora scaduto. Ma ha lo zaino già in grembo, gli auricolari pronti.

Esito a lungo. Se sto zitta andrò a cena da lui, conoscerò quell’amica che a quanto ne so è dalla mia parte. Dimostrerò a Bruno che è il caso di ammettermi ufficialmente nel suo mondo, visto che lo abito già da un pezzo.

Invece non riesco a tacere. Sento qualcosa bloccarmi il respiro, come il residuo vischioso di un raffreddore. Se non lo sputo via resterà lì anche dopo la benedetta cena con l’amica di Bruno. Resterà sempre, non potrò più respirare.

Punto gli occhi su di lui e sparo. Non sono arrabbiata solo per il lavoro perso: c’è qualcosa di strano nel modo in cui lui mi ha trattata l’altra notte, e mi sta trattando adesso. Sta recitando un copione che non sembra neanche aver letto. È evidente che non crede a una parola di ciò che dice.

Non dimenticherò mai lo sguardo che mi rivolge. I suoi occhi si spalancano un istante, poi si fanno tristi, rassegnati. L’ho colto sul fatto.

Per quanto si sforzi, in fondo di me non gliene frega niente.   

A venerdì per il seguito!

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Totò ha gli occhi azzurri

Perché ti ostini a trattarmi come spazzatura?

Manca mezz’ora all’apertura dell’esposizione, e io me ne sto lì a scrivergli. Le dita mi scivolano da sole sulla tastiera del computer, di questo passo smetterò di contenermi. È quello che voglio? È quello che voglio. Esito solo un momento, poi lo scrivo.

Ha presente la sua ex, la Bella Stronza? Quella che era alta, portava la quarta “anche se non si vedeva”, e tutte le informazioni che Bruno mi ha dato mentre distesa accanto a lui c’ero io? Ebbene, la Bella Stronza è uguale a Totò, a parte gli occhi. Mi umilia il fatto che lui mi consideri appena passabile, dunque indegna delle sue attenzioni, e poi mi ponga come modello di estrema bellezza una che è Totò con gli occhi azzurri.

Scrivo proprio così. Fanculo ai miei anni di femminismo attivo, al master in Studi di Genere, al dottorato analogo che mi ha portato fino a Barcellona. Quando premo Invio, sono messa davanti al fatto compiuto: ho risposto alle bassezze di Bruno prendendomela con un’altra donna. Una che non conosco nemmeno, che non mi ha mai fatto niente.

Riesco solo a pensare: mai più, cazzo. Non devo farlo più. E devo anche smetterla di circondarmi di gente che tiri fuori il peggio di me.

Il fatto è che l’ho incrociata davvero, la Bella Stronza, mentre girovagava tra i baretti del Gotico insieme a certi amici suoi… E niente, mi sono messa a piangere con discrezione mentre andavo avanti per la mia strada: non avrei mai voluto essere lei. Eppure per mesi la mia identità è stata ridotta proprio al fatto di non esserlo.

Bruno si collega quasi subito: è vero che non sta facendo tutto come dovrebbe, ma io gli metto troppa fretta! Non ci credo, che mi parli di fretta dopo che ho passato sei mesi a fargli da donna invisibile. Poi capisco: per lui non sono mai stati “sei mesi”. Quello che vede è una serie di episodi in cui si trovava a “passare”, poi si infilava gli auricolari e annegava nella musica ogni traccia di me.

Però mi giura che la sera prima, mentre discuteva di luci con la coppia di Napoli, si chiedeva anche lui perché mi stesse ignorando. Era pure rimasto deluso, al ritrovarsi i due artisti alla porta senza me ad accompagnarli: si era chiesto sul serio dove mi fossi cacciata, pensando a me in virtù di quella assenza. Dunque è la mia presenza che proprio non tollera, parafraso. Il suo mea culpa si sta trasformando in autocommiserazione, ma all’ultimo momento lui devia verso il dettaglio che vorrei dimenticare: la mia definizione della Bella Stronza. Il paragone con Totò ha intrigato Bruno come qualcosa di assurdo da decifrare, e a me viene quasi da ridere: eccola che ritorna, la sua ex, che si vendica di quella mia critica stupida rubandomi la scena una volta di più.

“Raggiungimi più tardi all’esposizione” gli ordino, ma si ribella subito: si è già sbattuto abbastanza, ci arrangiassimo da soli! Sì, capisce che glielo chiedo per noi due, ma stasera non può farci niente. Stasera ha altro da fare.

Ho una foto della cena organizzata dopo l’esposizione.

Sono a un tavolo con due coppie: quella di Napoli che esponeva i quadri, e un’altra che mi ha appena consegnato l’invito per il suo matrimonio. Il pittore di Napoli ha appena fatto una gaffe, dando per scontato che avrei partecipato alle nozze con un compagno. “Invitalo pure” si è affrettato a concedere il futuro sposo. “Non sapevamo ci fosse un fortunato…”.

Per un lungo istante ho perso le parole. Al matrimonio ci sarei andata da sola, ho precisato poi, e intanto pensavo: cazzo, quelle lì sono coppie vere, mentre io sto con uno che si vergogna di me e si autocommisera per la sua vergogna, sentendosi un eroe per il solo fatto di “provarci” comunque.

Eppure nella foto sorrido. Sono di nuovo in tiro, ho un bel foulard. Sembro stonare nella mia eleganza inutile, contrapposta alla tenuta sfiziosa delle altre due commensali: nella nostra ultima, brevissima interazione allo Spazio, Bruno aveva già fatto apprezzamenti con me sulla pittrice napoletana.

Torno a casa stremata. Ho fatto il mio lavoro di coordinatrice: a quanto pare sono tutti contenti, e io non ho più energie. Anche Bruno ha fatto il suo lavoro: la serata di raccoglimento gli ha fatto recuperare la sua etica integerrima. Mi ha dato la sua parola che ci avremmo provato, e non la sta mantenendo. Però quando “passa” di nuovo gli do addosso in un modo che non si aspettava, e all’improvviso mi interrompe per chiedere a sproposito:

“Sabato verresti a cena da me? Ho un’ospite”.

Non è un’ospite: è l’amica per eccellenza, che non vive a Barcellona e, benché a distanza, gli fa da consigliera su tutto. Forse Bruno vuole sottopormi al suo autorevole giudizio, oppure quello è il suo modo di “costringersi” a fare cose da fidanzato, come invitarmi se ha ospiti in casa.

Nella mia mente già inizio a selezionare l’abito che indosserò. Devo essere perfetta. Perfetta.

Dopo l’invito a cena è più disposto a trattenersi, come se a quel punto non gli restasse altra scelta che prestarmi attenzione. Sta interpretando il copione di fidanzato, ce la sta mettendo tutta, e io gli faccio da spalla, incrociando le dita.

In quel momento non so che altro fare.

A mercoledì per il seguito!

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Paesaggi

Adesso abbiamo un nome.

“Fidanzati” non lo dice mai, ma dice tutto il resto. Tutt’a un tratto aumenta il tempo che passiamo a parlare in terrazzo, godendoci la primavera tra le antenne del Raval. L’uomo col mastino spiasse pure: sono contenta lo stesso, avevo ragione ad aspettare. Bruno ce la sta mettendo tutta, prima aveva solo un po’ di paura.

Continua a farne una questione “etica”: ho ragione io, non va bene che si passi la notte insieme e al mattino ci si tratti da sconosciuti. È uno che prova sempre a fare la cosa giusta, non vuole sbagliare proprio con me.

Ora che l’amore sembra filare, mi apro al resto. Mi lascio invitare al bar dalla mia ex insegnante di scrittura creativa: forse c’è un lavoretto per me, in una casa editrice appena nata. Pagano una miseria, ma si tratta di leggere un libro in inglese e compilarci una scheda. Accetto senza pensarci, mentre il barista fa una battuta discreta sul colore dei miei occhi. La vita è bella.

Bruno mi incoraggia, anche lui è tornato a cercare lavoro. Ancora non usciamo “insieme”, intuisco che davanti agli altri gli ci vuole tempo, anche se insisto perché lui smetta di evitarmi, o trattarmi come un’amica quando va bene. E allora si impegna: quando partecipiamo a un evento in rappresentanza dello Spazio mi abbraccia una volta o due, mi resta vicino. È un inizio, mi dico. La prova del nove sarà allo Spazio, nel territorio che io gli avrei usurpato.

Presto inaugureremo una mostra di paesaggi.

La coppia che espone è di Napoli: con loro sono io a prendere accordi, mentre Bruno si incarica di appendere i dipinti alle pareti dello Spazio. Ho evitato di andare di persona a sovrintendere, a lui non piacerebbe. La profezia sulla mia inesperienza col “progetto” non si sta realizzando: il calo di entusiasmo si è verificato prima che subentrassi io, e a detta di tutti (escluso Bruno, che non si pronuncia), mi sto rivelando un buon acquisto.

Incontro la coppia di Napoli dopo la seduta dalla Petulante. Ho un tubino bordeaux con foulard abbinato, e una linea scura sugli occhi. Quando mi ha vista così in tiro, la Petulante mi ha assecondata con un sorriso di circostanza: aspetta, sembrava dirmi, e vedrai se conciarti così serve a qualcosa. La Petulante è una stronza.

Sotto al portone dello Spazio sono trattenuta da una telefonata, e segnalo alla coppia di salire: ad accoglierli ci penserà “il nostro incaricato”.

Quando Bruno apre la porta anche a me, l’istante di gioia che gli leggo negli occhi cede il posto a una specie di sorpresa. È come se non mi associasse a quel luogo, e al tempo che ha appena trascorso a lavorare lì dentro. Ancora una volta non sono che un’estranea, una che ha invaso il suo Spazio.

La coppia ha qualcosa da ridire sulla posizione delle luci, e lui assecondando le richieste diventa quasi professionale: è il padrone di casa, io sono un’intrusa. Mentre riposiziona i quadri devo osservarlo in disparte, come una potenziale acquirente che è arrivata troppo presto.

In fondo è un’opera d’arte anche il suo talento nell’ignorarmi.

Stavolta rimando le spiegazioni a un momento più tranquillo. Gli accenno soltanto, via messaggio, che dopo la mostra vorrei un chiarimento importante. Ma in fondo non sono preoccupata: è questione di tempo, benedetto tempo. Il mattino dopo, con la coppia di Napoli montiamo un video divertente sulla Rambla per promuovere l’esposizione, e finisco per cantare ‘Na sera ‘e maggio con un gruppo di argentini. Quando mi lascio trasportare, ricordo che c’è vita al di là di Bruno.

Solo a casa mi rendo conto del messaggio, ricevuto ore prima: non viene alla mostra. Gli dispiace informarmi adesso, ma non gli è riuscito di mandarlo più presto. Non accenna nemmeno al fatto che gli voglia parlare, che gli abbia detto che è urgente. Ha delle cose da fare, e gli sembra di essersi sbattuto fin troppo negli ultimi tempi.

Forse, se lo chiamassi un momento, sentirei in sottofondo il rumore della lavatrice.

A lunedì per il seguito!

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Ricordati di preparare la salsa

Da buonissimo.it

Dico di sì, e vado a stanare Bruno.

È collassato sul divano all’ingresso dello Spazio, per la mangiata che si è fatto mentre cucinavo.

“Comportati bene” scherzo, “da oggi in poi coordino io gli eventi qua dentro, e ti comanderò a bacchetta!”.

Non fa nulla per nascondere la sorpresa: sarò anche brava, dice, ma è troppo presto. Sono coinvolta da poco tempo in quel progetto che lui ha visto crescere, mi mancano ancora gli strumenti per capirlo fino in fondo. È molto pacato mentre mi spiega tutto questo, tanto che a un certo punto gli credo: non sono capace. Poi mi dico che non mi ci vorrà certo un altro dottorato, per organizzare qualche evento! Ma lui ha l’arte di ridimensionare con gentilezza ciò che dico, che faccio. Leggo libri “pesi”, vivo nell’odiato centro storico, e ascolto cantautori noiosi, che in realtà non ascolto affatto. Quello che scrivo sul blog è simpatico, ne capisce il successo, ma “non lo attira particolarmente”. A quanto pare a non convincerlo è il tono spensierato, la voglia di ridere che sembro avere sempre. Sarà per questo, sospetto a volte, che lui si impegna a fondo per farmela passare.

È come se nella sua testa venissi con tutto un pacchetto di caratteristiche fisse, definitive, che spesso non hanno niente a che vedere con me.

Dopo la mia “elezione”, ogni volta che mi toccherà fare un discorsetto nello Spazio, perfino i Morti di Figo si schiereranno in prima fila a farmi da claque, e un istante prima di cominciare, dal palco o dall’angolo in cui avranno piazzato il mio microfono, vedrò con la coda dell’occhio Bruno che si dilegua, magari a caccia di qualcosa da mangiare. Oppure diserterà l’evento, perché tanto non si sarebbe perso niente. Mi lascia volentieri il “successo di pubblico”, come se fossi un cinepanettone.

Con quelle che vincono il suo premio alla critica, la fascinazione va al di là del desiderio: mentre si riveste mi spiega tranquillo che con questa o quest’altra ci prenderebbe un caffè, ci farebbe una passeggiata… È tutto quello che vuole, e tutto quello che non fa con me. Se io sapessi quanto si sentono insicure, proprio le più belle! A modo suo è sensibile, trovo il coraggio di pensare. Ha un’idea tutta sua dell’amore e delle priorità, ma si aggiusterà anche questo, se ho pazienza. Ne sono proprio convinta, fino a un mercoledì sera.

La festa allo Spazio è stata affollata, tra discussioni politiche e bicchieri di vino. A un certo punto Barcellona si è fatta sonnacchiosa, come accade a volte nei giorni feriali: ci è venuto a noia discutere o brindare, ma neanche accenniamo ad andarcene. Bruno e io restiamo un po’ isolati, e sono io ad aprire le danze: si è fatto tardi, perché non resta da me? Così evita di farsi una corsa per prendere l’ultima metropolitana. Lui nicchia, come sempre: con tutto quello che ha da fare in casa… Mi accorgo che non sono le solite schermaglie, stavolta sembra deciso. Forse lo aspetta il bucato, o una traduzione in nero. Come una scema inizio a prevenire le esigenze che potrebbero sorgergli a casa mia: ho uno spazzolino in più, può lavorare dal mio pc, c’è abbastanza latte per la colazione… Se qualcuno tendesse l’orecchio, forse proverebbe pietà.

Con gli occhi socchiusi e la fronte tesa, lui sembra passare in rassegna tutte le cose che in quel momento sono più importanti di me. Siamo ormai sulla Rambla, quando pronuncia il verdetto. Il suo coinquilino gli ha passato la ricetta di un sugo piccante, specialità della madre, e a Bruno è venuta voglia di cimentarsi proprio adesso in una sua versione. E no, per questi esperimenti preferisce la cucina sua.

Ci metto un po’ a processare l’informazione: per Bruno la salsa piccante è una priorità, io no. Io sono buona solo a tamponare l’appetito.

La sua fame, quella vera, non passa mai per me.

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Alla più bella

Arriviamo insieme.

Arriviamo trafelati e in disordine, ma davanti agli altri dello Spazio lui si comporta come se ci fossimo appena incontrati sul portone.

Decido di ignorarlo. Vivo a Barcellona, ci sono cause migliori da perdere. E lo Spazio ha il problema di tutti gli spazi: prima era meglio. A sentire gli habitué se n’è andata troppa gente, lasciando le redini al Figo e alla sua claque di Morti. È una situazione che all’improvviso voglio cambiare, che so cambiare. Voglio implicarmi in qualcosa, e questo desiderio si traduce sia in spagnolo che in catalano con “voglio bagnarmi”. A Bruno lo scrivo in catalano, per non dare adito a equivoci imbarazzanti: sto per occupare uno Spazio che lui considera più suo che mio, memore com’è di una presunta epoca d’oro che io mi sarei persa.

Comunque sia, mi pare, lì dentro c’è posto per entrambi.

Come risultato lui torna a “passare” da me proprio il giorno della mia prima riunione, “così ci andiamo insieme”. Dice che si ripromette sempre di non tornare, ma poi lo fa, e io non riesco più a mandarlo via.

La riunione è partecipata, c’è addirittura qualche donna. Progettiamo esposizioni, feste per raccogliere fondi, e una serata di beneficenza che si terrà a novembre: con l’entusiasmo della neofita avanzo proposte anche a verbale concluso. Quando restiamo in quattro gatti, e pure Bruno si è eclissato, uno dei Morti di Figo propone di reclutare una bella frequentatrice dello Spazio come cassiera alla prossima festa, a patto che sfoggi una scollatura da antologia. La trovata crea imbarazzo perfino tra gli uomini presenti. Lo racconto poi a Bruno mentre restiamo a chiacchierare sul letto: mi diventa femminista.

“Facciamo tanto i compagni” commenta “e poi, come strategia di marketing, mettiamo alla cassa la più bella!”.

Ancora classifiche. Ancora il promemoria che la più bella è un’altra, è sempre un’altra. Quando è arrabbiato con qualche Morto di Figo, Bruno ne critica prima i difetti, poi i successi, come se fossero stati usurpati a lui. La fidanzata “gnocca” rimane in fondo all’elenco, una postilla alle attestazioni di status, ma intanto sta con uno stronzo, mentre lui prova a fare sempre la cosa giusta… E si deve accontentare di me. Quest’ultima parte non ha bisogno di dirla. Quando glielo farò presente mi risponderà che “ci siamo accontentati a vicenda”, senza rendersi conto che intendiamo cose diverse: io mi sono accontentata delle sue attenzioni a metà, e lui di me, di me e basta.

A volte lo guardo con una pena che non so più provare per me stessa, e per la mia ostinazione a resistere, aspettare. Cosa direbbero allo Spazio, se sapessero di noi due? Chi di noi due si starebbe “accontentando”?

“So che hai un buon successo di pubblico” commenta lui quando, come una bambina, gli riferisco i complimenti di qualcun altro. È lui a consegnare il premio della critica, e io non sono neanche nella rosa finale, altrimenti mi tratterebbe meglio, questo mi è chiaro. Allora continuo a sforzarmi per vincere questo cazzo di premio.

Ma nessuno allo Spazio si fa domande: da me vogliono altro.

Alla fine di un pranzo collettivo in cui ho cucinato per quaranta persone (scuocendo la pasta perché Bruno non si decideva ad assaggiarla), mi chiamano da parte in due o tre. Voglio essere la coordinatrice dello Spazio? Solo per qualche mese. È vero che sono iscritta da poco, ma lavoro duro, e poi mi aiuteranno. Ci penso solo un momento.

A quanto pare non bisogna essere la più bella, per diventare quella che si sbatte di più.

A venerdì per il seguito!

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Gol!

Mi spiega che io sono un traguardo.

Sono la prima ragazza normale con cui riesce a stare! Un tempo le voleva troppo fighe, anche i suoi amici gli dicevano che doveva abbassare gli standard. Lo dice tranquillo mentre quasi sonnecchia, perché a me può dire tutto.

Non mi nasconde di mandare foto mie ai suoi amici, come mandava a me quelle della Bella Stronza (come se ci fosse paragone!). I commenti che mi riporta sono l’ovvia risposta alla domanda “che ne pensi?”. Di solito dicono che posso andare. Uno aveva fatto un’osservazione sulle mie origini napoletane. Solo una sua amica latina era entusiasta, ma aveva sbagliato a scrivere il mio nome in chat, e adesso lei e Bruno mi chiamano tra loro con quel nome storpiato. Sono stata ribattezzata a mia insaputa.

Ormai ho imparato a contare fino a dieci, quando mi dice queste cose. Cerco sempre una risposta che sia ragionevole e non polemica. Se lo critico per questioni del genere, si scalda molto: è solo uno sincero.

Il bello è che anche lui ha segnato un cambiamento, per me: da quando ero a Barcellona badavo di più all’attrazione fisica, perché se mi piaceva qualcuno mi scoprivo più spesso ricambiata. Con Bruno hanno prevalso altri fattori, però di lui non pensavo che fosse bello o brutto: non pensavo niente. Adesso so che sotto i vestiti che lo infagottano ha un bel corpo, e che non ci crederà mai.

Lui, invece, è felice di farcela “anche” con me. Mi fa strano sentirmi spiegare questo nella mia lingua, subito dopo una siesta. Nella penombra delle imposte chiuse ho come un’allucinazione: attraverso Bruno mi sta parlando l’Italia intera. Te l’ho detto che non valevi granché. Era inutile partire per averne la conferma.

Fin da quando l’ho richiamato, le settimane sono state tutte così: felici o tristi, senza vie di mezzo.

Quando va bene ridiamo, c’è il sole in terrazzo, a volte parliamo pure.

Quando va male non succede all’improvviso, mai. Un giorno ti dici che di ritardi ne ha sempre fatti, che se non ti scrive da due giorni sarà impegnato, che se ti parla delle altre è normale, no? Anche tu puoi parlargli degli altri.

L’unica volta che l’ho fatto pranzare da solo, perché intanto che arrivava avevo già digerito, l’ho lasciato davanti alla tavola apparecchiata, dichiarando che avrei schiacciato un pisolino. Gli sembrava strano, più delle due ore di ritardo con cui si era presentato. Io invece ero fiera di me. Poi mi sono pentita e sono tornata nella stanza a fargli compagnia.

Una notte, pur di addormentarsi nel suo letto lascia casa mia alle quattro. Mi richiama mezz’ora dopo: gli hanno scassinato casa. Gli inquilini erano ancora immersi nel sonno, se lui non fosse tornato a quell’ora avrebbero fatto la scoperta col sole già alto. Mi chiama per sfogarsi e per rassicurarmi di una cosa: non dirà a nessuno dov’era prima di rincasare. Si sente molto nobile per questo, il proverbiale gentiluomo che gode e tace. Io non mi sento così lusingata: cosa staremmo facendo di male? A meno che lui non si vergogni di me. La sua omertà è la soluzione a un problema che si è creato da solo. 

No, non succede all’improvviso. È come la storia della rana nell’acqua fredda, che non è neanche vera. Ma le frasi di Bruno lo sono, e io sono un traguardo, dunque, un “goal” che ha infilato alla vita. Abbiamo litigato pure su come si scriva goal: per lui esiste la versione italianizzata e si deve usare quella.

Io sono stanca di dover italianizzare tutto.

Ciò che non mi stanca ancora è sentirmi dire che non valgo niente.

A lunedì per il seguito!

Se vi piace ciò che scrivo, date un’occhiata al mio Sam: non glielo ricordate, ma ha vinto un premio proprio figo.

Ecco qui (scorrendo dal basso) le puntate precedenti.

Alcuni nomi e fatti sono stati alterati per questioni di privacy, ma le cose sono andate più o meno così.

Ogni altra burrasca

Per quel tuo cuore che io largamente preferisco ad ogni altra burrasca (Amelia Rosselli).

Al risveglio percepisco la sua assenza.

Prima ancora di aprire gli occhi avverto il lenzuolo senza pieghe, e il piumone che scende piatto accanto a me. Il freddo mi invade da qualsiasi lato mi giri. Dal terrazzo condominiale non sento fruscii, né latrati soppressi, ma oggi la cosa non mi conforta. Tendo l’orecchio in cerca di passettini: d’estate la gatta dei vicini mi entra addirittura in casa, e me la ritrovo all’improvviso sotto al letto. Adesso, anche se facesse caldo, avrei paura a lasciare le imposte aperte. Non so perché la gatta mi abbia adottata, perché venga anche quando non ho cibo per lei.

Il buco che avverto allo stomaco non verrà colmato dal poco latte rimasto, anche se è tutto per me, e nessuno mi divorerà il pane cafone portato in valigia, che tanto si è fatto già gommoso.

Non ho tempo per le traduzioni in nero: ho un appuntamento tra un’oretta, con un gruppo di compaesani in vacanza. Mentre mi insapono davanti allo specchio mi chiedo: perché sono tornata a frequentare italiani? Troppi di loro pretendono ancora la trafila di farsi desiderare, cedere al momento giusto, adattarsi al ruolo dell’animale braccato che, però, si lascia catturare “solo quando vuole”… Questo balletto non mi interessa, non lo inizierò ora. Ma all’improvviso so perché, per qualcuna, è un’arma di difesa.

A pranzo coi compaesani mi scopro a scimmiottare gesti che un tempo mi sorgevano spontanei. L’arte di sfottersi a vicenda, così tipica delle mie parti, è diventata per me un gioco noioso. Che bisogno abbiamo di saltarci sempre alla gola?

Gli altri perseverano: in un dialetto che non so imitare fanno la gara a “chi è più fallito”, ma poi serrano i ranghi, con la familiarità degli amici cresciuti nello stesso palazzo. Io sono cresciuta in un villone anni ’70, con la proibizione di giocare in strada coi figli dei vicini: passavano le macchine. E la lingua di quei bambini era il codice di una tribù a cui non dovevo appartenere.

Quando mi arriva davanti il dolce, che non voglio nemmeno assaggiare, penso che non appartengo più a nessuna terra, a nessuna lingua, a niente. Appartengo solo alla pelle di Bruno. E a modo mio la possiedo.

Al ritorno, sulle scale c’è troppo silenzio. L’odore si fa insostenibile man mano che salgo: i bisogni di un cane. Sulla parete dell’ammezzato, una scritta dal colore sospetto avverte che lì dentro ci sono topi. Accanto alla scritta c’è la porta dei filippini, colpevoli di aver invaso di antenne il terrazzo condominiale. Il figlio più giovane non può più giocare in terrazzo, così lo fa in strada, col piccolo tunisino del quarto piano. Se mi vede passare, mi saluta con un “Buongiorno” perfetto. Sua madre è quella che ha “risposto male” all’uomo col mastino, che l’ha punita tagliando i fili delle antenne. È stata questa madre filippina a chiamare per prima l’agenzia immobiliare, perché ripristinasse la serratura del terrazzo. Ma l’uomo col mastino l’ha cambiata ancora una volta, poi due. Tanto quella “è casa sua”.

La polizia dice che per intervenire le servono prove.

Turandomi il naso raggiungo il mio piano e mando un messaggio a Bruno. Quando lui “riesce a passare”, gli dico: va bene, si fa come vuoi tu.

È l’ultima volta che sono io a tornare.

A venerdì per il seguito!

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Alcuni nomi e fatti sono stati alterati per questioni di privacy, ma le cose sono andate più o meno così.

Il linguaggio del corpo e della fame

da granconsigliodellaforchetta.it

Torno a Barcellona con una valigia piena di cose da mangiare.

Mentre gli scrivo mi accorgo che la mia camera è gelida: sarà un problema. L’unico linguaggio che condividiamo al momento è quello del corpo, e della fame.

Ci mette un po’ a rispondere: è tornato da poco anche lui, ha delle cose da fare. La pulizia della casa, il bucato… Non mi aspettavo certo si precipitasse! Magari il giorno dopo, o l’altro ancora…

No. Per vedermi gli servono quattro giorni. Aspetterò?

Chiudo gli occhi. Non ci vediamo da quindici giorni. Insieme ne abbiamo trascorsi solo due. Anche così, la sua lavatrice viene prima di me. Visto che avevo ragione? Era meglio chiuderla prima di Natale.

L’ho spiazzato ancora una volta: che problema c’è? Lui funziona così. Deve togliersi le preoccupazioni dalla testa, per potersi godere qualcosa.

Io non sono “qualcosa”, ricordo a me stessa chiudendo la conversazione. Non tornerò a ricordarmelo per un po’.

Il giorno dopo, la Petulante mi annuncia che Bruno e io abbiamo lo stesso disturbo. È un colpo basso: lei è la mia psicologa, e Bruno non l’ha mai visto. Le diagnosi non si fanno così. Ma ne è sicura, ci siamo trovati. Io da piccola ero di una religiosità ossessiva, dovevo recitare ogni Ave Maria senza distrarmi un attimo, o c’era da ricominciare. A volte guardavo sfinita giù dal balcone e pensavo: è solo un salto, tanto i bambini vanno in paradiso lo stesso. Secondo la Petulante, queste cose non passano mai per davvero. Bruno non mi ha mai parlato di epoche così, ma i suoi impegni quotidiani sembrano una tela di Penelope da disfare ogni minuto, e adesso io sono un impiccio, un difetto nella trama.

“Sei a casa?”.

Il messaggio mi arriva alla fine di una giornata piena d’ansia.

Bruno scrive come se non fosse successo niente. Sta uscendo ora dallo Spazio, se voglio può “passare”. Questo uso del verbo mi colpisce sempre: per me vuol dire al massimo “fare una capatina”, per lui significa restare a cena, o anche a dormire.

Anticipo l’irritazione per il tempo che ci metterà a salutare tutti, e percorrere settecento metri. Mezz’ora, stavolta: sta ancora imprecando contro la folla in strada mentre si getta sul divano. Ha un atteggiamento remissivo, e un po’ compiaciuto: è passato perché gli dispiaceva che “me la fossi presa”, ma lui è fatto così, mi assicura, prima il dovere e poi il piacere. E, a proposito di piacere…

Ritiro la mano che mi ha afferrato e scatto in piedi. È l’unica cosa che è venuto a fare? Allora è solo per questo che ha sottratto tempo alle pulizie generali! O magari vuole un premio per la sola generosità di “passare”…

L’ho spiazzato un’altra volta.

“Forse avevi ragione” borbotta. “Dovremmo smetterla con questa storia”.

Solo perché avrei voluto spiccicarci due parole, prima di ritrovarmi con la mano su una zip?

“Purtroppo so quello che voglio” dichiaro allora. “E so che tu non me lo puoi dare”.

Mentre lo vedo andarsene, ci credo pure.

A mercoledì per il seguito!

Se vi piace ciò che scrivo, date un’occhiata al mio Sam: non glielo ricordate, ma ha vinto un premio proprio figo.