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No, no, è cava!

In tutto questo, ho rinunciato.

Non vado più all’associazione che mi era sembrata una via d’uscita per il mio notorio problema di rapporti umani: ho la socialità di un orso in letargo. Non tutti se ne accorgono, ma è così. E, quel che è peggio, non credo neanche sia un problema!

Però ci ho provato, eh. Ho frequentato tutta l’estate, e quasi ogni giorno, le attività di questo covo di agenti immobiliari, counsellor di ogni tipo e creatori di startup, che cercavano soprattutto di procacciarsi clienti e cava in omaggio – disponibili entrambi al buffet di benvenuto.

“Mucho postureo”, sarebbe la definizione in spagnolo, simile allo “spararsi le pose” napoletano. È l’arte di darsi delle arie in nome del falso postulato: “Più sembro vincente, più lo sarò davvero”.

E sì, anche io ho creduto per un po’ al pensiero positivo, alla legge dell’attrazione ecc. Sono ancora convinta che, a cercare soluzioni invece di disperarci, nove su dieci le troveremo (“grazie arcazzo”, anyone?). E ci sembreranno provvidenziali, come ieri che uscivo da un noto magazzino con un mobile che pesava un quintale in più del previsto, e un “angelo” si è offerto di accompagnarmi al prezzo di un taxi normale. Miracolo! Che ci faceva un colombiano dotato di furgoncino, proprio all’uscita dell’IKEA di Barcellona?

Il bello è che nell’associazione che abbandonerò ho incrociato persone conosciute molti anni fa, quando ci consigliavamo libri di self-help. Ho dunque contravvenuto al dogma di farmi un quintale di cazzi miei, per amore del mio esperimento preferito: vedere che effetto hanno le scelte della gente nel corso del tempo! Infatti non ho potuto fare a meno di notare le posizioni dei conoscenti di cui sopra su queste parole chiave:

  • vittime & vittimismo: a me sembra che siamo spesso vittime di qualcosa, fosse anche di un malinteso! Riconoscere quando succede non equivale a gridare “al lupo al lupo”, ma è `piuttosto la chiave per risolvere il problema. E invece, stando a sentire questi ottimisti, le donne “fanno le vittime” quando denunciano, appunto, di essere afflitte da una differenza salariale documentabile, che non saprebbero colmare contando solo sulle loro capacità. Va da sé che le ultrà del pensiero positivo sono precarie quanto le più pessimiste, solo che non se lo dicono. I catalani, poi, “sono vittimisti a prescindere”: anche quelli che, invece dell’ormai proverbiale “Madrid ladrona”, si limitano a denunciare la scarsa separazione dei tre poteri, che confonde pure le presunte sinistre spagnole;
  • la paura: sentimento proibito. O diventa un’arma per “contrattaccare” (la vita, a sentire queste persone, sarebbe un’eterna guerra), o è una debolezza che non deve esistere. Non è mai una sensazione “amica” che è lì per avvertirci del pericolo, e che dovremmo ascoltare, assimilare, e magari tener presente, intanto che agiamo nonostante quella;
  • “Smarmella, smarmella tutto”: questa è la parte che mi dispiace di più. La rimozione dei problemi evidenti nella vita: ripeterti che sei superiore al collega promosso al posto tuo, o alla nuova fiamma dell’ex, senza chiederti perché senti tanto il bisogno di fare questo confronto. E sì, sono ruoli e problemi stereotipati perché, come intuirete, gli stereotipi sono pane quotidiano per chi deve fare l’enorme sforzo di rimuovere la tristezza dalla vita.

In effetti, nonostante la gioia rampante e l’entusiasmo d’assalto, quando si parla di politica i compagni d’associazione che mi lascio dietro sono i paladini del buonsenso, del “meno peggio, contro i barbari“: questione che non ha facili soluzioni, ma quello che mi colpisce è la rabbia. C’è una presunta ineluttabilità delle scelte, difesa con tenacia per apparire progressisti sì, ma non rivoluzionari. Il rischio è che la massima per cui il cambiamento più importante è quello interiore diventi un’ottima scusa per non cambiare nient’altro che se stessi (e a volte neanche quello).

Non fraintendetemi: i miei conoscenti ne hanno fatti, di progressi, in questi anni. La loro determinazione ha mietuto riconoscimenti e titoli di studio, e pagine in più di curriculum. Il fatto che questo non li abbia fatti uscire dalla precarietà non è colpa loro, ma è un sintomo dei tempi. Però, sospetto, è come se avessero passato il tempo a girare in circolo, senza mai allontanarsi troppo dal punto di partenza.

Che so, hanno aggiunto altri timbri sul passaporto, ma non mi parlano tanto dei bei paesi visitati, quanto della loro “intrepidità” nell’attraversarli. Ai figli che hanno o non hanno avuto accennano con convinzione arrabbiata, difendendo la loro scelta come se fosse l’unica sensata: allora, “legge della natura” e “condizionamento sociale” diventano termini assoluti e inappellabili. Ma quello che più colpisce è la totale rimozione dell’insuccesso. Magari, tra i presenti alla festa di turno, ero l’unica testimone di diplomi mai presi, o di relazioni sfumate, così sono loro i primi a mettere in mezzo l’argomento: solo per dirmi che “se lo sentivano fin dall’inizio”, che “investire” in quel progetto non li avrebbe portati da nessuna parte.

Dove li hanno portati, invece, i progetti nuovi?

Non troppo lontano, temo: però sono riusciti a convincersi che fosse la migliore delle mete possibili.

Hanno ragione! E secondo me lo resterà finché lasceranno il dolore fuori alla porta.

Quando gli permetteranno di entrare, forse sì che potranno andare dovunque.

O almeno, dove gli farà bene.

 

 (Scusate, non potevo esimermi!)

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Abstract earth hoovering over an open hand with sky backgroundA un corso di narrativa, un tizio che passava per bravo scrittore espresse la seguente metafora sulla letteratura: “Una birra con due patatine è sfiziosa, ma la gastronomia è un’altra cosa”. Poi, come esempio di “gastronomia letteraria”, segnalò Baricco. Immaginai l’orrore dei colleghi saccenti italiani. Che magari, con raccapriccio del mio compagno di corso, leggono Zafón.

Ma non era di romanzi, che volevo parlare.

Una volta il tizio di cui sopra se l’è presa anche con Jorge Bucay, terapeuta e scrittore argentino che si occupa molto di spiritualità. Gli contestava il fatto di infondere falso ottimismo nei suoi lettori, per illuderli che la vita fosse tutta rose e fiori. A giudicare dall’aspetto e dalle critiche (infondate, ho letto Bucay), costui doveva pensare che la vita fosse pulp, molto pulp, pure troppo.

In ogni caso, a domanda “Hai mai letto Bucay?”, lui ovviamente rispose di no.

Una caratteristica di chi critica i libri di self-help, o autoayuda, come si dice qua in Spagna, è che non ne ha mai letto uno. La sua intelligenza si rifiuta, il titolo stesso gli fa schifo. Ricordo una videoblogger che sbraitava indignata “Leggete filosofia”. Il rischio, a mio avviso, è che lo snobismo renda meno credibili tutte le comprensibili perplessità del caso.

Io non ritengo in tutti i casi che non si debba mai criticare un film senza prima, prima vederlo, ma sospetto che la visione aiuti.

Proprio Bucay, comunque, può essere considerato un esponente di quel tipo di self-help che alla lunga trovo addirittura pericoloso.

Manuali che ci insegnino a campare sono stati scritti fin dagli albori della civiltà, fin dalla Bibbia. Oddio, non tutti sono artistici come l’Ars amandi di Ovidio, ma insomma, se trovo sullo scaffale della Fnac Come si seducono le donne, non penso subito che l’autore sia Filippo Tommaso Marinetti.

D’altronde i libri di oggi sono anche una raccolta spesso esibita trionfalmente di massime ispiratrici dei vecchi filosofi. Marco Aurelio, raccomandato anche, ricorderete, dal Dr Hannibal Lecter, sembra spopolare sul fronte americano, per esempio. E gli esperti di filosofie orientali buttano da sempre acqua al proprio mulino, denunciando il saccheggio di complesse teorie filosofiche asiatiche, frullate in un Bignami occidentale di comodo.

Ma il vittimismo è la migliore delle argomentazioni degli autori di ogni genere accusati di produrre materiale scadente, compreso Gigi D’Alessio.

Quando però il materiale diventa divulgativo, secondo me, è tutt’altro che un male, a seconda di cosa si divulghi e come.

A me del self-help piacciono quei manuali che fanno da ponte tra “la torre d’avorio dell’accademia” (nella definizione di Wikipedia) e le persone che non hanno studiato molto. In questo senso, opere diversissime come Donne che amano troppo e Donne che corrono coi lupi hanno già aiutato un paio di generazioni di donne a riflettere su se stesse. Alcune, prendendo alla lettera i passi del primo libro (i famosi step cari agli autori americani) per la guarigione. Altre ricavandone riflessioni utili senza lasciarsi eccessivamente condizionare.

La diffidenza nei confronti di queste pubblicazioni mi sembra affliggere questo prodotto della letteratura pop come altri prodotti, vedi generi letterari considerati minori e le serie tv che sono le discendenti del romanzo d’appendice.

Ma so che il discorso è delicato. Le speranze della gente sono materiale pericoloso da maneggiare e il tipo di letteratura basata sulla crescita spirituale potrebbe sfruttarlo senza gli accorgimenti del caso. Si sprecano le battute tipo “le uniche persone aiutate da questi libri sono gli autori, che si fanno miliardari”.

Sarà anche per questo che alcuni autori, infatti, mi diventano i talebani dell’ottimismo. Opere come The Secret e la loro legge di attrazione (se pensi a cose positive, ti succederanno cose positive) diffondono idee che trovo corrette, come per esempio che un atteggiamento ottimista aiuti. Nei miei periodi di tranquillità e sicurezza personale sono ancora propensa a vedere una sorta di “magia” intorno a me, che in molti casi fa succedere le cose esattamente come le volevo, quando le volevo. Ma non è magia, sono io. Che in quel momento ho le energie giuste per cambiare le cose che posso (per citare la famosa preghiera della serenità), per accettare serenamente quelle che non posso cambiare, e per cogliere al volo le opportunità che mi si presentano.
Fin qui, tutto ok. Il pericolo è quando la felicità viene venduta come un atto della volontà, come se l’Universo (quest’entità benefica cui rivolgersi) ti procurasse tutto ciò che ti serve solo se lo desideri ardentemente, e se non te lo procura è perché non l’hai desiderato abbastanza.

Hai voglia di scrivere che l’ottimismo non è rimozione delle cose negative, come si affrettano a precisare vari autori. Ma in fin dei conti rischia di diventarlo. Quando ti viene consigliato di eliminare tutte le canzoni piene di “energie negative” e di non guardare troppo il telegiornale, la soluzione proposta sembra quella di alimentare l’autoinganno nella sua forma peggiore (l’ignoranza volontaria dei fatti) e vivere in una sorta di bolla di sapone, che non so se sperare o meno che scoppi.

Sospetto che qui ci sia lo zampino di quell’ottimismo a oltranza che sembra caratterizzare la società americana. Sulla quale mi professo ignorante, motivo per cui mi astengo dal linciarla come si credono in dovere di fare altri sinistrorsi più antiisraeliani e antiamericani che filopalestinesi, filodemocratici (a proposito, Madre Teresa di Calcutta che non andava alle manifestazioni “contro” e attendeva con ansia quelle a favore di qualcosa, si può considerare autrice mancata di self-help?).

Ma dal bombardamento mediatico e non di prodotti americani (se mio nonno non avesse ricordato chi la vinse, poi, quella guerra enorme che scoppiò quando era giovane, gli sarebbe bastato accendere la radio) mi sembra d’individuare quest’ottimismo a oltranza che a lungo andare, temo, può diventare davvero una piaga.

Devo dire che, proveniendo da una terra che trovo tendere a un pessimismo cosmico spacciato per realismo, a un cupio dissolvi dal quale cercano di salvarla pazientemente gli amici rimasti là, quest’ottimismo, nella sua forma non estremista, mi sembra cosa buona e giusta.

Della mia terra, però, conservo volentieri un sacro rispetto per l’amore. Sono d’accordo coi manuali che stigmatizzano il masochismo che lo accompagna, al giorno d’oggi, la profusione di messaggi terribili, specie per le giovani donne, per cui amare e soffrire sono sinonimi. Ma alcuni manuali presentano l’amore come una specie di elettrodomestico da comprare, una relazione “sana” (aridaje con la medicalizzazione del linguaggio come parvenza di scientificità) è tale se ti permette di crescere, se ti dà serenità, ecc. Tutto giusto, ma tra amore tossico e amore IKEA, da “comprare” se ti conviene e comporre a tuo piacimento, spero proprio esista una via di mezzo. Poco tempo fa confidavo dei problemi sentimentali a un amico che a un certo punto della sua vita ha compiuto un percorso spirituale importante. “Questa relazione ti permetterebbe di crescere?”, mi ha chiesto lui. Gli ho risposto che se c’è una cosa che per me manca al cosiddetto crecimiento espiritual, come si chiama qui, è la libertà di dire “No, però non me ne frega niente”. E, a prescindere da se fosse o no la risposta giusta alla sua domanda (non lo era) la libertà, almeno per me, è tutto.

Ma una parte dell’America stessa prende più o meno bonariamente in giro questa tendenza.

Nel film The Company Men Ben Affleck, licenziato da una florida impresa insieme a molti suoi colleghi, va in un centro preposto ad aiutarlo a trovare lavoro. Al momento di assistere alla prima sessione del programma di assistenza, il centralinista gli dice, scherzando: “Fammi la Tigre”.

La Tigre, si scopre poi, è un’affermazione positiva con cui i neolicenziati cominciano la loro lunga e infruttuosa ricerca di un lavoro: “Vincerò, perché ho fiducia, coraggio ed entusiasmo”.

Alla fine, Affleck e il compagno di sventura che l’aveva preso in giro trovano lavoro come muratori presso il cognato del primo, quadretto familiare al mio background nepotista ma solidale. E allora sì, scherzando ma credendoci, i pantaloni sporchi di malta e polvere, possono recitare la Tigre. Finiranno per ripartire da 0, fondando un’impresa di difficile gestione.

Insomma, rifuggendo dalle facili formule magiche per risolverci la vita, per me certi libri di self-help più connessi alla psicologia divulgativa possono essere una risorsa. Non mi sono mai laureata in psicologia, anche se mi sarebbe piaciuto, e sono contenta se qualcuno mi dà qualche trucco per combattere l’ansia, o mi ricorda che molte convinzioni sulla vita e sul mondo le ha sviluppate la me stessa di 5-6 anni con cui ora non sarei più tanto d’accordo.

Sono banalità? Vengo da un contesto in cui forse, a furia di “leggere Marco Aurelio”, o meglio di citarlo male senza averlo mai letto, le banalità si scordano. Ed è un peccato.