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Questo meme (che poi è falso) purtroppo rende l’arietta che tira

Ricordate il tipo di Marsiglia che mi voleva sposare? Ebbene, ha trovato il mio numero.

Gli avevo dato il mio Instagram come male minore, per evitare che mi seguisse come aveva cominciato a fare. E poi boh, sarà che lì figuro col nome del blog, e che WordPress mi chiedeva un telefono…

Insomma, mi sono ritrovata i suoi WhatsApp, il primo un po’ delirante (“Vedo che stai sprecando i tuoi soldi, Maria”) mentre ero a pranzo con gente che conoscevo poco, con cui, pertanto, non potevo confidarmi granché.

Non riuscivo a mandare l’importuno a spasso senza prima un messaggio gentile, tipo: “Ciao, ti ho già detto che i rapporti a distanza non m’interessano, in bocca al lupo a te e alle tue sorelle”. Lui, però, ci teneva a farmi sapere che avessi torto, e, quando mi sono decisa a bloccarlo, era passato direttamente alle chiacchiere stile: “Cosa fai di bello la domenica pomeriggio?”.

“Me la faccio rovinare da te”, mi sono detta. Perché il pranzo era finito ed ero rimasta distratta e pensierosa: non ci avevo mai pensato in questi termini, ma ‘sta stronzata dell’ “uomo cacciatore“, quando non sfocia in tragedia, si rivela un’enorme, incredibile perdita di tempo.

Non va sempre bene come la volta che sono uscita con un ragazzo perché… beh, perché ero convinta fosse gay. Lui, manco a dirlo, era convinto che avessimo un appuntamento.

A mia difesa posso dire che l’avevo incontrato in un locale del Gaixample, e non ero stata l’unica della truppa ad avere questa impressione. Tanto più che il metodo tutto suo di toccarmi i fianchi non mi faceva pensare ai suoi compatrioti ubriachi di Manchester (tipo l’amico sbronzo che mi accarezzava il culo, col mio ragazzo a due passi), ma piuttosto a quei tipi che pensano di poterti mettere le mani dappertutto, solo perché non gli piacciono le donne.

Comunque niente, equivoco chiarito nella prima mezz’ora, quando lui ha menzionato la sua ex, e risolto due ore dopo: in preda a un sonno improvviso, lasciavo da sola il locale in cui l’avevo dirottato con la scusa di “raggiungere gli altri”. L’aneddoto diventò una sorta di leggenda metropolitana quando la notizia del mio errore arrivò al diretto interessato.

Insomma, ci rimisi “solo” la prima parte di una serata.

E lo so: nello stesso sistema malato, alcune donne ritengono che gli uomini che non ricambiano il loro interesse siano o “ricchioni”, o “fridde ‘e chiammata” (sic), o direttamente impotenti.

Ma la bilancia pende sempre da un lato in particolare: è lei a diventare una “grassona inguardabile” appena rifiuta un blando corteggiamento online, oppure un “cesso ambulante“, come me secondo un tizio che mi aveva aggiunto a Facebook senza conoscermi, per scoprire ben presto cosa pensassi dei suoi post razzisti. Ovvio che il complimento veniva con l’augurio che venissi stuprata da “un esercito di negri” (a ben vedere, questo tizio color Vallelata era piuttosto ossessionato dallo stupro…).

Fin lì, almeno, è facile fermare sul nascere una situazione indesiderabile, o mandare affanculo uno sconosciuto da evitare.

Non ci va così bene se si crea un equivoco con persone che conosciamo. Un po’ perché, nostro malgrado, empatizziamo: pensare di piacere a qualcuno, e scoprire che non è così, è gradevole come un raffreddore il secondo giorno di ciclo. E poi per egoismo: i conflitti non ci piacciono. Specie con gente che non possiamo permetterci d’ignorare, e che niente niente si sente giustificata a reagire con rabbia alla nostra legittima, e involontaria, indifferenza.

Dunque sono guai, quando siamo le uniche nell’universo a ignorare che l’ex compagno di classe – quello che insisteva tanto per rivederci – si è lasciato con la tizia con cui stava più o meno dall’asilo. O quando un collega ci chiede di andare insieme al parco, e scopriamo che il neonato che portava in giro l’altro giorno era suo nipote: ma si sa, i bambini sono una grande strategia per rimorchiare, vero baby?

Insomma, è troppo tardi: quando ci accorgiamo che la disponibilità all’incontro è stata mal interpretata, viene il momento degli ulteriori inviti. Magari non sappiamo se “dribblarli”, sperando che al terzo rifiuto si rendano conto (solo io mi fermo al secondo, nei miei due di picche?!), oppure accettarli, per parlare chiaro una volta per tutte. Il che, ahimè, può condurre a spettacoli indecorosi, come quello di chi, da più giovani, ci accusava di “averlo illuso”, dopo che si era offerto come confidente in seguito a una rottura. La questione è: che parte di “rivoglio il mio ex” non era chiara?

Perché il problema è sempre quello. L’idea, inculcata e ripetuta nella nostra cultura, che un uomo:

  • prima o poi otterrà il nostro amore, basta insistere;
  • in ogni caso, lo “merita”, visto che si prende la briga di “trattarci bene”.

Quante volte ho sentito amici dire: “Ecco, se l’avessi trattata male come fanno tutti mi avrebbe voluto!”. Michela Murgia che fa slut shaming all’amica svampitella (vi prego, ritrovatemi il testo!) non raggiungerà mai il patos da: “Ingrata, cos’altro vuoi dalla vita? Mica ti ho stesa con una clava, come avrebbero fatto gli altri!”.  

Insomma, nella più incruenta delle ipotesi, è tutto un’immensa, esecrabile perdita di tempo.

E non c’è un manuale per uscirne, si va a braccio: se l’equivoco si presenta involontariamente, meglio risolvere la cosa nel minor tempo possibile. Sconosciuti insistenti: bloccare. Amici e affini: conviene vedersi solo un’altra volta, se teniamo a conservare il rapporto, e lasciare chiaro, meglio se a parole, che non è il caso.

Soprattutto, dobbiamo convincerci un po’ in paranza che la gente non sceglie chi le piace e chi no, quindi insistere, nella stragrande maggioranza dei casi, non solo non serve, ma è pure controproducente.

Infine, ripetiamo inseme come un mantra: nessuno-ci-deve-niente.

Venite già “mantrati”, che risparmiamo tempo.

 

 

 

 

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Risultati immagini per the wind È come mi ricordavo: ci prendiamo per il culo da soli.

Non è una cosa delle parti nostre, o gli autori di libri in spagnolo su “come non prendersi per il culo da soli” farebbero la fame (il che non sarebbe sempre un male, ma tant’è).

Ma la zia che vuole per forza offrirmi una pizza a Napoli, in realtà cerca una scusa altruista per uscire dalla routine di paese.

L’amico che non vuole figli “perché poi si ritroverebbero un padre come lui”, più che altro non li vuole e basta.

Il vicino di aperitivo che non vuole migranti “perché poi vivrebbero in condizioni disumane”, non vuole i neri per strada.

Non dico che non ci sia, quest’ambiguo fondo di altruismo (almeno nelle intenzioni dell’interessato) che porta a fare queste affermazioni. Dico solo che dovremmo allenarci a capire quale sia il motivo principale delle nostre azioni. Che vantaggio ci ricaviamo, a fare o non fare certe cose?

Perché non c’è scusa migliore del “lo faccio per te”. Tinge di nobiltà e sacrificio un desiderio personale, o nasconde una paura.

 Paura di essere una cattiva persona, se per una volta ti magni una pizza invece di “sacrificarti per gli altri”.

Paura di essere emarginato come egoista se manifesti il tuo legittimo diritto a non riprodurti.

Paura dei neri, e basta.

Prima veniamo a contatto con queste paure e meglio è.

Io d’estate vivevo per “il soffio di vento” che mi svoltava la giornata. Vivevo nell’afa tutto il giorno, schifando ventilatori e condizionatori. Lo facevo “per l’ambiente”.

In realtà mi ero creata un mondo in cui il mio massimo piacere era il sollievo, perché avevo paura che alla gioia non potessi arrivarci.

Lo facevo nelle relazioni: quando vivi delle briciole dell’attenzione altrui, ti sembrano sempre deliziose.

Lo facevo all’università: quando veniva fuori un lavoro che non fosse “per la gloria”, non credevo a tanta generosità.

E lo facevo, appunto, col vento: mi condannavo a un’afa perenne, e poi la brezza improvvisa mi dava una felicità speciale.

Perché il sollievo, come accade con gli amori tossici, ha un suo sapore unico e irripetibile.

Ma quando ti abitui a quell’altro sapore, quello della gioia costante, non cambi più.

Ora rifuggo ancora dai condizionatori, che trovo inutili e dannosi, e anche un po’ sessisti, in ufficio. Non disdegno il ventilatore ogni tanto, e ho fatto pace col mare. Ma, soprattutto, cerco il vento. Lo inseguo negli angoli della casa, non aspetto che sia lui a venire da me.

E se voglio una pizza a Napoli, dico: “Voglio una pizza a Napoli”.

Se non voglio figli, dico: “Non voglio figli”.

Se qualcuno mi dice che non vuole neri per strada, provo a chiedergli: “Perché?”.

Questa domanda è l’unica, vaga possibilità di convincere l’altra persona che il problema non sono i neri.

Quindi facciamola più spesso.

Facciamolo per noi.

 

Risultati immagini per votantonio votantonio Fino all’ultimo volevo chiamare questo post “Autoinganni”, in riferimento alle maniere molto sottili che abbiamo di “girare la frittata”, di convincerci che il mondo va come diciamo noi, solo che non se n’è ancora accorto.

Faccio spesso l’esempio dell’Orlando friendzonato (girato quando Ariosto ha venduto i diritti a Netflix), che capita in un boschetto di alberi vandalizzati da Angelica e Medoro. Leggendo le iscrizioni lasciate dai due innamorati (e meno male che non c’erano ancora i lucchetti!) il Nostro decide che in realtà la ragazza volesse dichiarare il suo amore a LUI, ma che per dissimulare gli avesse dato un soprannome. Come direbbe Veronika, la televenditrice interpretata da Lucia Ocone: “Seh, e allora io so’ vergine e incensurata!”.

Ma siamo tutti un po’ Orlando, quando ci mettiamo. Riporto qui alcuni casi che trovo emblematici, aspettando i vostri.

  1. Il personaggio skomodo. C’è in tutti i gruppi Facebook d’italiani a Barcellona, e in tutti i gruppi e basta (di amici, colleghi…). Alcuni collettivi di espatriati sono proprio dedicati alla skomodità, come se non bastassero le nostre stanze 1 metro x 1 metro a soli 350 euro al mese (quando ci va bene)! Lo skomodo non rompe mai le gonadi, fa sempre e solo satira (specie quando non la fa). Al massimo dice, appunto, le verità skomode. Sua specialità è langiare una provogazzzione: che so, postare su Facebook un link che annunci la scoperta di un truffatore. Cliccandoci sopra approdi sul tuo profilo, scherzone stratosferico, e se ti lamenti con lui ti dà anche dell’imbecille, uno senza senso dell’umorismo. Perché lui è scomodo. Non gli frulla neanche per un attimo l’idea che, magari, potrebbe star dicendo davvero delle cagate pazzesche, o facendo scherzi idioti. Certa gente nasce con la camicia.
  2. La sottovalutata. O sottovalutato. Metto prima il caso femminile per fare autocritica: ha fatto comodo anche a me partire da un problema sociale reale (l’educazione femminile alla sottomissione),  per argomentare che “se gli uomini non sono interessati a me, è perché hanno paura di una donna che non sia sottomessa”. Ok, adesso lo ammetto: a volte non era nessuna paura, non mi si filavano e basta. Mi consolo pensando al mio equivalente maschile: quello che sostiene che “le donne vogliono uno coi soldi che le riempia di smancerie”, mentre lui è “orgogliosamente povero” e “purtroppo sincero”. Caro il mio zio Tom, se vinci al Superenalotto allora li dai a me? Già ti vedo lì a rispondermi: “se mi regali dei soldi non mi offendo, ma non mi ci vendo mica l’anima!”. Allora concludiamo insieme che la nostra società ha imposto per secoli certe regole di comportamento, difficili da eludere. Ciò non toglie che potremmo ritentare entrambi: scommetto che, cambiando un po’ le frequentazioni, saremo più fortunati.
  3. Incompreso. Non a caso è anche il titolo di un film strappalacrime  (tratto da un libro) su un bambino che deve lasciare questo mondo crudele, per farsi capire! Col protagonista il soggetto in questione ha in comune che non fa mai nulla di sbagliato: sono sempre gli altri. Che si offendono se fa domande troppo personali, o mette in dubbio la loro buona fede. È che il mondo è infame e lui ha il problema di essere “troppo buono”. Oppure, come il sottovalutato di cui sopra, è “troppo sincero”. Consigliamo la lettura di un fantastico articolo del Daily Mash che ‘ad sensum’ potremmo tradurre con: “Donna ‘troppo sincera’ si rivela essere semplicemente insopportabile”.
  4. L’esploratrice. Esiste anche al maschile, ma mi fischiano troppo le orecchie per non parlare innanzitutto di voi, eroine 2.0 che vi scegliete solo psicopatici e accettate che vadano e vengano dalla vostra vita, senza che si risolvano a fare né una cosa né l’altra. Siete davvero convinte che sotto sotto vi ami, ma non abbia gli strumenti o la serenità per capirlo. A questo punto devo confessare che il capolavoro me l’ha fatto un amico: gli avevo parlato del due di picche più celebre della mia onorata carriera. Il suo commento è stato: “Vabbe’, se uno dice che ‘ti vuole bene ma non ti ama’ devi saper leggere tra le righe”. Magari proviamo a considerare questa possibilità: se uno afferma ‘non ti amo’, vuole dire proprio quello. Saremo tristi per un po’, e poi potremo passare oltre.

Di recente vedo due categorie particolarmente afflitte dall’autoinganno: i politici trombati e i candidati respinti a un colloquio di lavoro. Ovvio che le idee esposte al comizio o al colloquio erano troppo “avanzate” per il pubblico, impreparato di fronte a tanta caparbietà e voglia di fare.

Nel caso dei candidati respinti, spero di cuore che valga il “ritenta, sarai più fortunato” del punto 2.

Quanto ai politici trombati, già sapete: votantonio votantonio votantonio…

Anche se è un tweet, scrivo dove l’ho trovato: http://www.giornalettismo.com/archives/2642237/tutti-meme-della-pubblicita-pandora

Ho visto cose che voi umani… Ho visto un tizio alto un metro e una vigorsol, con quello che Alessandro Siani definirebbe senza indugio ” ‘o fisico d’ ‘a tracchiulella“, che faceva notare alla sua ragazza di essere “piuttosto ingrassata” o “forte di fianchi”.

Ricordo inoltre un tizio a una serata che, mentre sedevo al tavolo dopo una visitina in bagno, mi ha guardato con aria allarmata e chiesto: “E le tette?!”, con la voce di chi stesse segnalando un furto. Dovevano essermi cadute dove lui aveva perso l’umorismo.

Per non parlare delle situazioni in cui la più brillante, e magari la più giovane, è lei: mettiamoci anche un po’ di “differenza sociale”, ancora così importante per qualcuno, e davvero, armatevi di cuffiette o mettetevi a giocare al cellulare, perché uscire con una coppia così significa assistere a un costante dispiegamento di sarcasmo distruttivo, con lei che si limita a sorridere. Perché si sa, se ti permetti di dire “a” arriva subito l’esortazione: “E fatti una risata!”.

Momenti di grande simpatia, lo so, ma è questo lo sfottò selvaggio che scandisce la mia forma primitiva di relazionarmi (e gli amici di altre provenienze, o anche del paesello limitrofo, si offendevano pure, quando lo facevo con loro). Non m’illudo affatto che sia una caratteristica delle parti mie, ma diciamo che lo zelo che dedichiamo noialtri all’impresa facilita lo studio del fenomeno. Trovo che questo continuo denigrare “per scherzo” riveli una costante, e a tutte le latitudini: l’idea di dover sempre “dimostrare” all’altro che è stato fortunato a incontrarci.

Dovrebbe anzi ringraziarci, per due motivi principali:

  1. non avrebbe trovato nessun altro “tanto generoso” da accettarne i difetti (e so che non è l’intenzione iniziale, ma tanti scherzi sembrano andare a parare lì);
  2. siamo delle perle rare: il “bravo ragazzo” che pensa di meritarsi amore eterno solo perché non ti ha chiamato “befana” al primo appuntamento; la “ragazza seria” che al contrario delle altre che “si truccano e siliconano” crede ancora nei vecchi valori. Peccato che gli uomini siano “intimiditi” da ragazze così, e si cerchino sempre le “gattemorte”, come sosteneva anche una nota scrittrice con tante belle parole. Poi si lamentano perché l’inglese è una lingua concisa: in effetti, “slut shaming” si dice in un attimo.

Ma la denigrazione costante verso le donne è un fenomeno particolarmente curioso, che  in spagnolo rientrerebbe in parte nel concetto di “presión estética“: ma come, hai i peli sulle gambe? Ma come, non ti trucchi? Passa l’idea per cui, così come siamo, non saremmo degne neanche di uscire di casa. Da qui i push-up, e il tacco 12 (o giù di lì) per cui vanno pazze le ventenni di Casa Surace, mentre le trentenni si comprano la batteria di pentole (…). Se sono scelte nostre fantastico, specie perché moriamo tutte dalla voglia di automozzarci il respiro, o di trasformare sei metri reali di marciapiede in dodici “percepiti” di marcia sui trampoli. Ma quanto possiamo scegliere, se ci riteniamo cessi a pedali senza nessun’altra caratteristica che possa compensare questa terribile mancanza iniziale?

Alcune relazioni sono dei costanti dialoghi con noi stesse in cui ci chiediamo se siamo “degne” di esistere. Nell’unica forma che alcune di noi conoscono: cercare qualcuno che ce lo dica. Uno che, per esempio, non ci regali un ferro da stiro o un grembiule, ma riconosca la bellezza come parte integrante della nostra femminilità, e con un astuccio portagioielli studiatamente minimal risponda: “Sì, dai, puoi andare”.

Qui mi sento di farvi uno spoiler quanto una casa: finché non rispondete “sì” voi, non ci crederete. Spero lo sappiate già, ma hai visto mai. Ve lo potranno scrivere in cielo con un aereo, ma non ci crederete.

Anzi, vi circonderete di tizi che sembreranno nati apposta per dirvi “no, non vali niente, ringrazia il cielo che ci sia io con te”.

La questione va al contrario: prima vi date l’autorizzazione di esistere, e poi, se proprio vi va, trovate qualcuno (o qualcuna) che sia felice di esistere insieme a voi.

Insieme, non al posto vostro.

E se tra tutti e due avete sessanta euro da spendere, ascoltate una cretina: “mangiateveli”!

Oppure compratevi un essiccatore.

Ah, farebbe felice solo me?

Oh, de gustibus.