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Eh, Ricky, si invecchia: la vida loca la lascio a te!

Insomma, a sentire il tipo che consegna il Mate Cola, avrei dovuto ringraziarlo per aver fatto il suo lavoro.

No, ma lo capisco: vivo in una strada che più in centro non si può, che per una complicata combinazione di incroci infernali e fasce orarie da ZTL si rivela seconda per irraggiungibilità subito dopo l’Everest, ma senza gli sherpa a fare tutto il lavoro.

In effetti il tipo del Mate Cola era piuttosto improbabile come sherpa, con la mascherina blu e il jeans a tre quarti, ed era stato pure fortunato ad arrivare proprio il giorno dopo la riparazione dell’ascensore! Però niente da fare, per lui ero stata fortunata io.

“Il tuo numero mi risultava inesistente” si lamentava “però mi sono detto: andiamo comunque. Se non la trovo, vorrà dire che mi faccio la passeggiata da quelle parti“.

A parte il fatto che il numero s’è rivelato corretto ed esistentissimo (dove vivo adesso è meglio non risparmiare troppo con le compagnie telefoniche) mi ha colpito quell’accenno alla “passeggiata” che il signore gentile e chiacchierone si sarebbe fatto, se non fossi stata in casa. La mia mente drogata di memoria visiva mi ha restituito, come spesso accade, una sequela di immagini: muratore alla cassa del supermercato vicino alla Biblioteca de Catalunya, dove scrivevo la tesi di dottorato. Nel ricordo, il giovane muratore si lamenta che quella sia una zona guiri, cioè turistica: nessuna speranza di pranzare senza rimetterci un rene (un rene = ai tempi, 8 euro di menù fisso, adesso siamo saliti a 11-12, e lo stipendio del muratore è cambiato in modo meno spettacolare). Poi il fattorino IKEA che mi fa aspettare l’intera giornata nell’appartamento ancora vuoto per poi urlarmi al telefono, due ore dopo avermi annunciato il suo arrivo “tra cinque minuti”: “Lei sa in che zona vive!” (mi spiace, macho man, mi sono fatta restituire i soldi della consegna).

Ma l’immagine più evocativa è stata la faccia dell’ingegnere sardo conosciuto nel tripudio di mondanità che era stata la festa all’hotel che avrebbe poi ospitato il re Felipe con la famiglia: “Cazzo, ma allora fai proprio la vita giovane!”. Questo il commento quando aveva saputo il mio indirizzo. “In realtà ho scelto quella casa lì per potermi stabilire per un po’ e mettere su famiglia, ma la cosa non è andata in porto”. Dopo la mia precisazione, il tizio è ammutolito: troppe informazioni per una festa intorno alla piscina con tanto di dress code (la prima e l’ultima della mia vita). Così, per sdrammatizzare, ho tolto le ballerine atroci che avevo messo per rispettare il dress code e mi sono fatta accompagnare a mettere i piedi in acqua.

Ma sì, “vita giovane” è una possibile descrizione: bar a poca distanza, discoteche o taxi a un tiro di schioppo, senza contare la dddroga (anche se gli spacciatori sulla Rambla con me si sono arresi). Ma fa la vita giovane, chi come me si ritrova in un’idea standard di gioventù che non cercava, né desiderava?

Tutte queste storie gridano “privilegio” a dieci metri di distanza: affittando parte della casa posso dedicarmi alla scrittura e, anche se al mio arrivo detestavo la zona, devo ammettere che sono vicina a posti molto più fighi, specie ora che il turismo mordi e fuggi sta lasciando il posto a una meno invasiva tamarraggine locale (vi dico solo questa: sono tornate di moda le radioline portatili). Le conseguenze di queste e altre scelte sono però che: non ho un lavoro normale, non ho rapporti umani normali e, se provassi ad adottare la prole invece di generarla io, credo che la risposta dei servizi sociali sarebbe quella di chiamare la polizia. Peraltro, quando vivevo ancora a Napoli, in casa scherzavamo spesso sul fatto che, se fossi diventata madre, avrebbero chiamato subito i servizi sociali. Il cerchio si chiude.

La questione è, come immaginerete: cos’è una vita giovane, e cosa una vita adulta.

Perché, sì, discuto spesso e a volte litigo con gente allergica al concetto di settle down, asentarse, sistemarsi, comunque lo chiamiate: anche a me non è mai piaciuto, ma ho la sensazione che adesso faccia figo vivere piuttosto come se fosse l’ultimo giorno, come suggerisce un fortunato consiglio di Jim Morrison, mentre io andrei più per il concetto di truva’ pace, di Eduardo De Filippo. Che non significa fare la mia vita da nonna, che si ricorda che è sabato solo perché vede più gente in strada. Ma farsi un’idea di ciò che si vuole: se coincide con quello che vuole tanta altra gente, forse è meglio così, magari è un po” più facile. Altrimenti oh, va bene uguale!

Ho fatto un sondaggio tra le mie amicizie e non vogliono la luna, oppure vogliono quella e qualcosa di fin troppo normale, che solo una crisi economica ormai calcificata rende impossibile: che so, l’indipendenza catalana e un lavoro d’ufficio, cambiare il mondo e un monolocale non troppo lontano da una metro, sotto i seicento euro (e scatta la battuta: “Allora come lo vorresti cambiare, ‘sto mondo?”).

Insomma, per me vita significa sapere più o meno che si vuole in un lasso di tempo ragionevole (a volte siamo preda di desideri espressi in momenti del tutto diversi della nostra vita), più che doversi per forza dare obiettivi che il vicino di casa possa apprezzare o invidiare.

Niente a che vedere con norme scolpite nella roccia e, soprattutto, con l’idea più idiota e più radicata che leggo in giro quando si parla della vita: bisogna soffrire.

Non è che succeda, non è che sia quasi una conseguenza del nostro stile di vita: ma bisogna, se non soffrire, sperimentare un’eterna insoddisfazione, un misto di ansie, preoccupazioni e sogni frustrati.

Per citare la Treccani: ma anche no.

Ne riparleremo.

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Ok, ci risiamo.

I  bambini, chi pensa ai bambini. Adesso c’è questo dibattito sui rientri a scuola, con i genitori che premono perché avvengano e il corpo docenti che fa notare che le scuole italiane – e quelle iberiche, se è per questo – non sempre sono attrezzate per una ripresa sicura delle lezioni.

Com’è giusto che sia, si è tornato a parlare del lavoro di cura, e del perché ricada soprattutto sulle donne: non solo una questione di mentalità (o “d’istinto”, come vuole la mentalità di qualcuno), ma anche di risorse economiche, tra soffitti di cristallo e pavimenti appiccicosi.

Per fortuna, l’argomento si concentra molto sull’infanzia, su come tutelarla sul serio – la mia impressione, confesso, è che di solito l’argomento si strumentalizzi per sfruttare con salari inferiori la metà della forza lavoro: una metà a caso. Stavolta, però, a difendere la prole ci sono quelle femministe che, a volte, accusano le compagne che non sono madri di non comprenderle, di trattarle come attiviste di serie B, che si siano fatte fregare dal sistema. L’ho visto nel dibattito sull’equiparazione dei permessi di paternità e maternità, su proposta di Podemos. Lo vedrò ancora. Dall’altra parte si sottolinea come la pressione sociale per avere figli sia ancora fortissima, quindi tutti questi vantaggi sociali nel non averne non si vedono.

Tra i due fuochi (che poi per fortuna non sempre si affrontano, ma si confrontano o ci provano) mi sento un po’ in mezzo, come femminista che di figli ne voleva, ma non ha fatto in tempo a 1) raggiungere la sanità mentale per averne; 2) imparare ad accompagnarsi a gente a sua volta sana di mente, e con le idee chiare sull’argomento (impresa che forse mi riuscirà a novant’anni, cinque minuti prima di lasciare questo mondo).

Nella mia posizione ibrida, mi sento dunque di tradurre l’appello sulla pagina Facebook della sindaca di Barcellona, Ada Colau, che da madre si chiede perché la quarantena non tiene conto delle esigenze dei bambini, se ad esempio vengono ascoltate, com’è giusto che sia, quelle dei cani. Aggiungerei come già ho fatto altrove che sono tante le categorie di umani che si beneficerebbero molto di un’ora d’aria, per questioni di salute mentale. E che mi piace il fatto che, mentre dall’Italia mi arrivano video con frasi tipo “nella bara non vi vedono la messa in piega”, la cui tragica ironia posso comprendere ma non mi sembra porti lontano, mi fa piacere che chi amministra la mia città si stia chiedendo, come già in questo post, se più di lasciare tutti a casa non sarebbe stato meglio, in questa pandemia mondiale che ci ha trovati impreparati a gestirla, rendere sicure brevi uscite per la popolazione.

NB: Colau usa il termine “les criatures”, simile al napoletano ‘e criature, che io traduco come “i bambini”, ma a malincuore: so che in tanti non ne sentite il bisogno, ma io sento l’esigenza di trovare anche in italiano una soluzione inclusiva. E no, non ho niente di meglio da fare, o riesco a fare quello e quello!

“In questi giorni sono sempre più le voci che richiedono che si tenga conto delle bambine e dei bambini in questo confinamento. Però ancora non siamo abbastanza. La situazione è insostenibile e bisogna parlare chiaro e a voce alta.

Scrivo come sindaca e come madre di due bambini di 9 e 3 anni, che da un mese non escono. Da più di un mese siamo in casa con due bimbi piccoli che non sono usciti neanche un solo giorno, cosa che non capiscono: “Mamma, se io non ho il virus, non posso fare niente di male, perché non posso uscire? Io non ho nessuna colpa”.

Settimana dopo settimana, litigano tra loro ogni giorno di più, hanno attacchi di tristezza, di rabbia… è quasi impossibile mantenere un orario, né un ordine, né fare i compiti, niente di niente. Il piccolo di tre anni, che ormai stava lasciando il pannolino, è tornato indietro e non chiede più di andare in bagno. Non voglio pensare in nessun modo che sia colpa nostra. Facciamo quello che possiamo, come tutti. Li amiamo molto, che è la cosa più importante. Però questi bambini hanno bisogno di uscire.

Il fatto è che, se possono uscire a passeggiare degli adulti con un cane, e ora alcune attività economiche non essenziali si riattivano, perché i nostri bambini e le nostre bambine devono continuare ad aspettare? Sappiamo già che possono contagiare senza avere nessun sintomo: come molti adulti. Troviamo il modo di fare le cose per bene e d’accordo con i consigli degli esperti in salute. Nel corso di queste settimane tanto i bambini quanto i loro familiari hanno dimostrato che sono responsabili e che non sono idioti: hanno seguito tutte le raccomandazioni e istruzioni che sono state date. Per questo siamo sicuri che possono uscire a fare un giro vicino casa, mantenendo le stesse distanze che manteniamo noi adulti quando andiamo a fare la spesa.

Viviamo in una società eccessivamente adultocentrica che ci condanna a patimenti che possiamo evitare. I bambini non sono un incidente, né un peso da gestire. Sono persone con diritti propri dell’infanzia, raccolti in trattati internazionali, ma sistematicamente calpestati. Sento che le autorità nel campo dell’educazione sono molto preoccupate per il sistema di valutazione. D’accordo, ma a me, a molti padri e madri, quello che più preoccupa è la salute psicologica ed emotiva dei nostri bambini e delle nostre bambine. Siamo stanche [plurale femminile inclusivo, ndR] che ci dicano che siamo soldati e che questa sia una guerra, invece di parlare di come prenderci cura della vita e prenderci cura le une delle altre. Se c’è un insegnamento che mi piacerebbe ricavassimo da questa terribile crisi è che il nuovo mondo che ne venga fuori sia più femminista, che metta al centro le persone ed educhi all’amore e alla corresponsabilità, invece che all’individualismo, alla paura e alla guerra.

Non aspettate un minuto di più: liberate i nostri bambini!”.

Image result for bumble serena williams È tutta colpa del compagno che all’interrogazione rispondeva: “Uno!”.

Il prof. di biologia insisteva: “Quanti gameti ci vogliono per formare uno zigote?”. E quell’altro, sempre: “Uno!”. Al che il prof., per fargli intuire di cosa si parlasse, chiosava: “Caro mio, ‘o fattaccio si fa sempre in due!”.

È con questo motto che, nella speranza che prima o poi ci riproduciamo tutti per mitosi, ho scaricato di nuovo quelle app d’incontri che sul mio cellulare erano durate una settimana. Ma solo per lasciare un messaggio tipo: “Ciao, dalla vita ho avuto tutto quello che volevo tranne una famiglia. Se ti capita lo stesso sentiamoci”. Intuirete che la mia attività online sia l’equivalente della balla di fieno che rotola via nel deserto – a parte i messaggi di quelli che non sanno leggere, tantini comunque.

Ieri però mi è capitata quest’app che mi ha annunciato: “Da noi le ragazze fanno la prima mossa!”. Insomma, se mi piace uno (evenienza più unica che rara, figuratevi dall’altra parte!), ho 24 ore di tempo per contattarlo, o la balla di fieno fa gli straordinari. Capirete che non sia l’ideale, per una che voleva solo lanciare il messaggio-bomba di cui sopra: specie se consideriamo che, sulla questione bambini, i meglio femministi possono diventare maschi alfa che minacciano di prendere il primo volo per Timbuctù (reazione equivalente solo alla scoperta che guadagniate più di loro: lì al confronto Khal Drogo diventa una suffragetta).

In ogni caso, mentre già fumavo dalle narici per la rabbia, ho fatto una breve ricerca su Google e ho scoperto che le ‘mericane sarebbero così entusiaste di questa roba, so empowering, oh my God, che alcune famose ci hanno pure investito. 

Basta con il corteggiamento classico, che comunque schifavo da tempi non sospetti: che siano le donne a prendere l’iniziativa! Fantastico. Ma solo loro. Rovesciamo semplicemente le cose e andrà tutto benissimo.

Cosa c’è che non va? Be’, immaginiamoci un’app che connetta donne afroitaliane o afrospagnole con connazionali “bianche”: io non mi offenderei troppo se le prime fossero un po’ sul chivalà. Saprebbero benissimo che non sono tutte le bianche, ma in fondo si sono sentite dire tante volte: “Di dove sei? Sì, vabbe’, ma dove sei nata? Come parli bene la nostra lingua!”. Oppure hanno scoperto che, per le loro amiche bianche, le aree meno sicure della città sono quelle in cui tendono a vivere loro e la loro famiglia, fossero anche zone magari non fighette, ma comunque tranquille. Oppure si sono sentite chiedere se “nel loro paese” sono molto oppresse, da una che ha perso il lavoro quando è diventata madre, ed è stata appena fischiata davanti a un bar. Sì, sono molto oppresse nel loro paese.

Ultima: prendete un’app che debba connettere i gay a una categoria che gli ha sempre chiesto “Chi è l’uomo e chi la donna?”, spiegandogli magari che “hanno molti amici gay, ma non gli va bene quando ostentano”. Capirete che, anche senza generalizzare, ci andrebbero coi piedi di piombo.

Insomma, a parte che schifo le imposizioni di ogni tipo, invitare una qualsiasi categoria discriminata a risolvere la cosa “buttandosi” (non si sa da dove) non mi sembra la soluzione ideale.

Tornando alla nostra app “femminista cccosì”, un po’ lo diceva zio Marx nel famoso libro Non dirmi che non te l’avevo detto, che trovate qui in inglese. Nella fattispecie, questo incontro “in salsa rosa” tra tecnologia e capitale si chiama pinkwashing, termine ‘mericano che indica la commercializzazione del femminismo e dell’attivismo LGBTIQ: compra questo prodotto, è così empowering!

Facciamo così: empowera un po’ ‘sta… e vedi di non imporre codici di comportamento a nessuno, né in un senso e né in un altro.

Intanto, in attesa che mi attiri qualcosa di più ingegnoso dell’amore eteronormativo, finisce che la mia ricerca della “famiglia tradizionale” naufraga miseramente e vado nella clinica di Carmen Russo (magari i vari amici che ci lavorano mi fanno fare uno sconto…). Oppure, visto che qua i single possono adottare, scarico su Duolingo la lingua di mia figlia – che ci metterà tre minuti a imparare la mia.

Per fortuna, con buona pace dei miei 6 risicati in biologia, il fattaccio non si fa per forza in due.

Sì, ho scritto “per fortuna”.

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Intanto  a Madrid… Da eitb.eus

Almeno una cosa l’hanno imparata.

Perché a chiudere in bellezza un mese dedicato al femminismo e alla tutela dell’ambiente non ci pensa solo il WCF di Verona (e giuro che continuo a leggere WTF), ma anche questa grande manifestazione “pro-vita” a Madrid, ieri pomeriggio, mentre Bolsonaro proponeva di basare l’istruzione scolastica (proprio la matematica e la geometria) sulla Bibbia.

Tutti questi eventi hanno una caratteristica in comune: sono “pro” qualcosa e non “contro” qualcos’altro. Sarà che a finanziarli ci sono tanti ‘mericani, da sempre alle prese con il pensiero positivo, o sarà che una delle frasi attribuite a “Maria Teresa di Calcutta” (sic), suonava tipo: “Non parteciperò mai a manifestazioni contro la guerra. Chiamatemi quando organizzerete una manifestazione per la pace!”.

Infatti non ho visto suore alla manifestazione “No Vox” di sabato. Sarà che era “no-qualcosa”? Scherzi a parte, le idee furbette ce le facciamo sempre sottrarre da chi, “per il nostro bene”, vuole il nostro male.

Una curiosa sintesi di questo mese d’impegno che volge al termine è che l’ultima lotta si gioca sull’eterno feticcio: la famiglia. Anche in Spagna a quanto vedo, tra dibattito sui congedi di paternità e proteste di femministe con i figli, è come se la cosa si polarizzasse: o difendiamo la famiglia tradizionale con tutti i crismi, o ci facciamo la vasectomia “per non inquinare l’ambiente” (sic).

Io capisco come sia successo: se qualcuno dice che il tuo destino biologico è avere figli, lo mandi a cagare e vai avanti per la tua strada. Ma credo che prima di spacciarci per gli eroi delle famiglie prolifiche, o quelli che “i bambini inquinano”, dovremmo farci una domanda importante: ‘sti figli li vogliamo o no?

Perché in tanti mi hanno spiegato (senza che io chiedessi nulla) i motivi per cui non possono avere figli: “non ho l’ascensore” (sentito da gente che viveva in affitto), “ho troppo sonno”, “il mondo è troppo marcio”, “sono troppo vecchio” (sentita da più di un uomo sotto i quaranta). Inevitabile il “come li mantengo”, in questo momento storico, e non tutti devono avere la costanza dei miei ex vicini pakistani, che vivevano con moglie e figli piccoli in una casa di ben cinquanta metri quadri con soli due coinquilini. Qualche donna ha evidenziato un sacrosanto “non possiamo sentirci realizzate solo se abbiamo figli”.

Perfetto, ma li vogliamo o no?

Io vorrei una bambina per la verità, cioè mi piacerebbe, ma poi ovvio che è a come viene. A suo tempo una tizia che dà conferenze sulla violenza della polizia si è sentita in dovere di dirmi che “i sogni possono anche non realizzarsi” e “todo el mundo es infiel“, e comunque “i pakistani come quello che ti fa il filo hanno il cazzo piccolo, ti presento un amico”. Non so se questa fine pensatrice mi abbia portato sfiga: fatto sta che, per motivi estranei alla mia volontà (più che altro ho rispettato com’era giusto quella altrui), mi ritrovo senza figli a trentotto anni, e senza un compagno all’orizzonte. Per cui non è che rinuncio all’idea, ma so che le cose possono non filare come speravo, cioè senza provette o adozioni di mezzo. Tanto più che, se la scelta fosse tra uomini che difendono la “famiglia tradizionale” e uomini che hanno deciso com’è legittimo di viversi i quaranta come i venti, aspetterei tranquilla la menopausa. Anche se amiche più creative di me mi dicono “magari non ti serve un marito ma un padre”: in effetti qualcuno si è offerto, a patto però di non doversi curare della creatura (almeno gli etero).

In ogni caso, se finirò per fare “l’eterna zia” come un po’ sospettavo, preferisco sapere che figli ne avrei voluti, ma non come pretendono a Verona: almeno l’idea sarebbe stata crescerli nel rispetto della loro identità, qualunque sentissero propria.

Le domande senza risposta sono tristi, quando sono evitabili.

E forse, se siamo un po’ più onesti con noi stessi, smettiamo anche di farci la guerra.

(Una canzone pro-vita, feat. Mangoni)

Image result for dona un libro alla pediatria di macerata L’idea per cominciare bene l’anno non mi è stata servita su un piatto d’argento, ma su una parete della Feltrinelli di Macerata.

L’ospedale locale raccoglieva libri per i bambini del reparto pediatrico, e non ho potuto fare a meno di pensare al mio romanzo, che presenterò in paese giovedì prossimo. Ora, l’ex leucemica Anna è un personaggio inventato, di una storia non autobiografica: lo sottolineo per smentire equivoci recenti che mi vorrebbero alta, magrissima e incazzata col mondo, come la protagonista Fatima (e almeno due delle tre caratteristiche sono palesemente estranee alla mia persona!). Ma è vero quello che Anna racconta a Fatima, sulla sua malattia: una storia di corse contro il tempo, di comunioni fatte quando già sembri una sposa, e di capodanni passati in ospedale a bere qualcosa di analcolico al gusto pesca.

Alle piccole Anna maceratesi avrei voluto regalare Rodari, quello che non riesco a leggere senza commuovermi quando racconta le peripezie di Giacomo di Cristallo: è un ragazzino colpevole di essere trasparente e poter “pensare” soltanto la verità, anche quando il tiranno locale lo sbatte in galera. In mancanza di quello, tra i libri disponibili c’erano tante storie di animali domestici – le altre specie, a occhio e croce, devono avere qualcosa di antipatico, ma era comunque un buon inizio.

La libraia ha fatto qualcosa che è la seconda Feltrinelli – e la terza libreria italiana – che mi succede. Quando le ho spiegato di non avere la tessera di fidelizzazione perché non vivo in Italia, ha commentato: “Beata lei! Specie di questi tempi…”. E ha aggiunto: “Una vita fa adoravo la Spagna“. Al che non ho replicato con i soliti distinguo tra Spagna, Catalogna e Barcellona, che poi è un mondo a parte: riservo tutto questo a un altro romanzo, che se tutto va bene vedrà la luce quest’anno.

Ho spiegato invece che sto cercando d’imparare questa difficile arte di raccontare storie, e che spero sul serio di potere, un giorno, presentare un testo proprio in quella libreria. L’altra ha annuito, poi è stata un po’ soprappensiero, come se stesse cercando qualcosa nella sua testa.

“Suerte!” si è ricordata infine. Buona fortuna.

Credo che finora sia stato il miglior augurio di anno nuovo.

Risultati immagini per cucchiarella Avete presente quando mammà prendeva la cucchiarella “per il nostro bene”? Ecco che la storia si ripete, come farsa ovviamente, nell’età adulta.

Ho sentito diversi compaesani affermare che se non studiamo a scuola le nostre lingue regionali (lasciamo perdere la disputa lingua-dialetto), è per il bene delle lingue stesse, perché non vengano cristallizzate in delle forme fisse.

Capisco il dubbio: un’amica sarda affermava che alcuni bambini algheresi, a scuola, stessero studiando il catalano standard, non quello locale. Commentava quindi: “Vediamo se le istituzioni riescono a far scomparire quello che si è mantenuto intatto per secoli”. Rischi simili, però, mi sembrano più correlati a una metodologia didattica che a una reale salvaguardia del “dialetto”: non credo proprio che lo si preservi di più non insegnandolo, per rispettarne la ricchezza. Se obietti che si sta perdendo proprio per la sua assimilazione all’italiano, rispondono che “è la naturale deriva di una lingua”. Spero che valga anche per gli anglicismi e i prestiti vari che fanno gridare allo scandalo tanti amanti dell’italiano!

Quest’idea della lingua “del popolo” (un popolo odiato e amato, ma sempre “altro”) è un mito frequente nel ceto medio meridionale a cui appartengo, che da circa un secolo e mezzo prova a sentirsi normale, anzi, per usare un termine sempre in voga, perbene. Uno dei fattori della sua “rieducazione”, a un certo punto, è stato un rapporto di amore/odio con la lingua dei nonni, che nella migliore delle ipotesi è sfociato nella diglossia, cioè nell’uso privato del cosiddetto dialetto, e nella peggiore nella rimozione totale.

Questo processo porterebbe a formulare una conclusione a mio avviso più sincera: “Sappiamo che, quando si è trattato di ‘fare gli italiani’, abbiamo perso un patrimonio culturale importante, ma ormai è fatta e non sentiamo l’esigenza di recuperarlo, o certo non vogliamo si faccia a scuola”. Severo ma giusto, come si suol dire oggi. Più che giusto, onesto. Ma quella tra onestà e umanità è una falsa rima: ci piace infiorare le cose. Trovare un motivo nobile per mantenerci nelle nostre convinzioni.

E il motivo più nobile a cui possiamo pensare è spesso: “Lo faccio per il tuo bene”.

Sicuro sicuro?

Mi viene in mente il cartello nella chiesa di Sant Pau che spiega che l’aborto vada condannato “per il bene delle ragazze”, perché per loro è un trauma ecc. Lì la domanda sorge spontanea: ma che davero? Per il bene delle ragazze o delle “vite” che credete di salvare?

So che qui non vi troverò d’accordo, ma trovo che accada qualcosa di simile con la questione dell’utero in affitto, che secondo molti andrebbe proibito “per il bene delle madri”: non ci soffermiamo su come prevenire gli episodi di possibile sfruttamento, ma bolliamo tutto il fenomeno come un torto fatto a povere donne indifese, che noi ci sentiamo assolutamente in diritto di dirigere verso dei valori sani. I nostri. Sarà che, spesso, sono valori inculcati con la cucchiarella da genitori che di per sé non dovevano avere un gran rapporto con la sincerità.

Come loro, noi facciamo tutto per il bene degli altri e non sempre siamo sinceri con noi stessi.

A volte abbiamo bisogno di trasformarci in critici cinematografici, per apprezzare un film di guerra senza sembrare meno intellettuali. O dovevamo aspettare un “ignoto” cantante napoletano con video ben fatti, per ascoltare musica che, in un’altra lingua, avremmo definito forse mainstream.

Sarà la ricchezza spontanea del nostro “dialetto”.

breast-feeding-statueÈ quando alzo gli occhi dal piatto, distrutta dall’immensità della razione di riso, che lo vedo.

Scende incerto le scale tra il bancone e i tavoli, le scarpe minuscole come gli occhietti che sembrano graffi, ma allegri, sul nasino che è quanto un pollice.

Lo riconosco subito, ed è strano.

La prima volta che l’ho visto non era ancora nato.

E io andavo di fretta. Nell’appartamento che avevo lasciato di corsa, precipitandomi nel ristorante cinese di sua mamma, si stava consumando una piccola tragedia gastronomica. Di quelle che succedono quando dei sardi di buona volontà hanno il gentile pensiero di invitare ANCHE il tuo ragazzo.

– Ma lui è musulmano, ragazzi. Sicuri che…?
– Ma certo, figurati!

Appena arrivati ci era venuta addosso la padrona di casa, il cappotto infilato a metà:

– Scendo un attimo, ci siamo scordati di comprare l’acqua!

In tavola solo vino e birra. Al ritorno della gentile donzella, un altro dubbio per il cuoco:

– Ma il ragù con che carne l’hai fatto?
– Di maiale.

Panico.

– Tranqulli – avevo fatto io, sbirciando l’amato bene seduto sul divano – il secondo piatto basterà. Vedo una pentola di zucchine e gamberetti, no?

– Ah, meno male – aveva risposto il cuoco, versando mezza bottiglia di vino nella wok indicata.

Ed eccomi qui, al ristorante cinese, a ordinare riso alle verdure SENZA carne. Stupita perché la graziosa cameriera che mi serviva, che sembrava poco più di una bambina, aveva un pancione più grande di lei. Quanti anni poteva avere? E il pancione la rendeva più bella, o era sempre così?

Avevo ignorato i commenti del signore ubriaco, che in seguito avrei sempre trovato lì, a guardare la televisione e spiare le clienti, ed ero corsa via col prezioso fardello, da unire ai tortelli improvvisati sul momento.

Anche adesso pago direttamente alla cassa.

– Quanto tempo ha, il piccolo? – chiedo alla mamma che gli sistema le maniche.

Ormai mi conosce così bene che quando mi vede dice subito pasta de aLLoz sin caLne. Ma il fagotto intravisto una volta sola in una culla, in cima a delle scale, era sparito insieme al pancione.

– Un anno e mezzo – risponde contenta, come se le avessi fatto un complimento.

Già.

E in quest’anno e mezzo abbiamo imparato tutti e due a camminare.

Lui piano, cadendo in continuazione, piangendo o magari osservandosi stupito avere fame e sete e sonno, senza sapere che i suoi occhi a virgola sono diversi dai miei che ora lo ammirano più grandi del solito.

Io… Pure. Incespicando tra certezze instabili e solide precarietà, sbagliando le scorciatoie e infilando tutte le strade che allungano il percorso.

Chissà se per lui sarà così. Se dovrà imparare anche lui a camminare più e più volte.

Quante volte…?, mi chiedo ogni tanto, esasperata.

Finché qualcuno non mi ha risposto:

– Tutte quelle necessarie.

Amen.