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L'immagine può contenere: una o più persone

Incredibile foto di Fulvio Ambrosio

A Barcellona se sgomberano un centro sociale scende in piazza mezzo quartiere.

Non i fricchettoni, proprio i vecchietti.

E quelli che si beneficiavano delle distribuzioni gratis di alimenti in questi tempi di crisi feroce. Quelli che andavano ai corsi gratuiti, che partecipavano alle attività culturali e ricreative. In quartieri ormai ben poco popolari come Gràcia.

Per certi sgomberi la gente non muove un dito, e questo dice molto. I centri che fanno bene alla popolazione sono tanti e si vedono, in una città in cui un solo proprietario può avere non so quante palazzine vuote per un’operazione di mercato. E il mio presidente preferito (dopo di me!) cerca casa perché gli hanno chiesto il 55% in più d’affitto.

Per questo, pur non condividendo diversi aspetti del movimento okupa, come viene chiamato qua, riconosco e rispetto un’attività sociale che spesso le istituzioni non sanno garantire. E so che si tratta solo di una parte della gigantesca costellazione di movimenti sociali che può ospitare una città.

È per questa confusione lessicale e semantica (“i centri sociali contro Salvini”?!) che mi dispiace che in Italia si cada ancora nella trappola di guardare cosa facciano duecento persone su migliaia di manifestanti che gridavano slogan, esibivano striscioni, facevano sentire la loro voce. Lasciamo perdere le mie dispute coniugali sull’inutilità o meno di esercitare violenza, che finiranno con la defenestrazione dell’aspirante facinoroso. Adesso parlo proprio di proporzioni tali da non giustificare titoli come questo.

Ho letto in giro diversi commenti critici verso la manifestazione di sabato. Alcuni li comprendevo, pur non condividendoli. Altri erano fatti da uomini che consideravano particolarmente strategico difendere la libertà di parola sul razzismo. Non scarseggiavano le donne convintissime di sapere cosa fosse una manifestazione, cosa un centro sociale, pur mancando di evidenti informazioni di base sull’argomento.

Soprattutto  ho trovato pericolose generalizzazioni.

È curioso che i giornali vengano creduti solo quando facciano sensazionalismi, solo quando sfoggino il titolo che meglio riassume cosa pensino di movimenti non inquadrati nei partiti che appoggiano: “Scontri con la polizia”.

E mi fa male al cuore pensare che la vecchietta non esattamente punkabbestia che abbracciava il palo allo sgombero del Banc Expropiat (una vicenda che mi vede in netto disaccordo col centro sociale per la gestione dei tumulti) sembri capire meglio cosa sia in gioco, al di là della solita domanda su chi sia il vero nemico da combattere. Sulla questione del nemico in Italia rispondiamo da tempo con una citazione mutilata e decontestualizzata di Pier Paolo Pasolini (che non amo particolarmente, ma difendo il diritto degli autori a essere citati bene!). Allora evitiamo di nominare “nemici” e soffermiamoci sulla posta in gioco.

I diritti. Questa parolaccia in cui nel mio paese non sembriamo credere neanche più, allora sfottiamo chi la invoca, credendoci furbi nel nostro cinismo, pardon, realismo.

La questione sul diritto di parola a uno che predica l’odio razziale (caratteristica di un movimento politico che nel nostro paese è illegale) è come l’uovo di Colombo. Da un punto di vista meramente strategico, non so se faccia meglio lasciar parlare o manifestare energicamente il proprio dissenso. Quel che so per certo è che non saremo tanto noi a pagare le conseguenze di questo dilemma, ma le vittime di quest’odio razziale. E questo per me è intollerabile.

Ma per favore, non riduciamo ogni tentativo di dissenso a una fede cieca nel fatto che i centri sociali siano degli sbandati pericolosi, che una manifestazione di migliaia di persone sia un gigantesco scontro con la polizia.

E infine: piantiamola-di-citare-a-sproposito-Pasolini.

Non ce lo cachiamo per 364 giorni all’anno.

L’unico in cui potremmo lasciarlo quieto, che riposi in pace almeno lui.

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james deanQuelli come me si credono unici, e non si accorgono di essere un marchio registrato: il Giovane Holden ha commosso una generazione, magari la parte più sfaccimmella e interessante, ma una generazione. Desigual, poi, è proprio l’emblema del conformismo anticonformista.

Quelli come me vengono da realtà piuttosto chiuse, province denuclearizzate o fin troppo nuclearizzate che non cambiano mai, e allora si possono fare scudo di questa cosa, di essere “gli ultimi giusti”, quelli che non si sono piegati, quelli che andavano a fumare nei cessi a scuola o, ancora meglio, non ci andavano e si sentivano ancora più alternativi. Quelli che o se ne sono andati a Berlino e a Londra a vivere “in un paese civile” o, ancora meglio, sono restati “perché bisogna avere il coraggio di cambiare le cose”.

Quelli che vanno contro quelli che benpensano.

E non si rendono conto che la cosa che più proclamano, la loro unicità, è l’unica cosa che non possano rivendicare, perché di “unici” al mondo ce ne sono tanti.

Ma no, siamo (ecco, parliamo alla prima plurale, così non faccio la gnorri), siamo troppo impegnati a fare due cose:

– gli alternativi;
– gli incompresi.

A fare quelli che il Mondiale lo guardano ma con riserva, sperando che vinca il Costa Rica o torturandosi nel loro tifo complesso per l’Italia, che si capisca, eh, che è complesso, se non fosse per il fanciullino di pascoliana memoria che si portano dentro (ma ai tempi di Pascoli a scuola loro leggevano Jim Morrison o uno sconosciuto poeta dialettale del loro paese) pascolerebbero nella più rigida ortodossia intellettuale.

E quando si accorgono che a non guardare il Mondiale, in effetti, sono in tanti, senza dover ripetere a se stessi quanto siano intelligenti a essere maschi etero MA non guardarlo, quando si accorgono che in tanti guardano solo Rai3 o i canali di notizie e considerano il fumetto un genere letterario di tutto rispetto e il porno un genere da rivalutare, allora fanno le vittime… Quando se ne accorgono, fanno le vittime di se stessi.

Tutto pur di non fare la cosa di cui hanno più paura: se stessi, appunto. E magari vivere, ogni tanto.

Perché, se i fratelli conformisti hanno sempre avuto un’ideologia dominante a cui far capo, senza mai sentirsi soli, questi giovani Holden de noantri (a ben vedere, proprio noantri) l’ideologia, l’immagine di sé, hanno creduto di ritagliarsela su misura, guarda caso usando lo stesso metro di tanti loro simili.

E adesso se la ripetono a pappardella, in primis con se stessi, proprio mentre Internet ci dimostra quanto siano generalizzati i nostri gusti, quanto sia vero che c’è una stragrande maggioranza che ascolta musica che odiamo e sembra pensare col culo, ma poi a ignorare l’enorme minoranza che la pensa come noi peccheremmo di disonestà intellettuale. E l’onestà intellettuale è il nostro migliore scudo.

Perché questo, ci serve, uno scudo. Uno scudo per le battaglie contro i mulini a vento che coraggiosamente portiamo avanti fin dall’infanzia, fin dall’adolescenza di disadattati che nessuno ci toglie, fin dal coraggio che pure abbiamo dovuto mostrare a rifiutare il primo tiro di canna o ad accettarlo, a seconda, a partire o a restare, ad avere il coraggio di essere noi anche se non eravamo previsti dalla definizione corrente di “noi”.

Ma poi è finita lì. Questo scudo non l’abbiamo mai abbassato e finiamo per fare i “noi” all’infinito, a riunirci, ad accoppiarci, a divertirci tutti allo stesso modo, e dire di essere diversi da “loro”. Tutti. Finché non ci si comincia a chiedere questi “loro” esattamente chi siano, e non ci si rende conto che “i fan di Beyoncé” o “i berlusconiani” come risposta è un po’ laconica.

E allora che fare?

Io un’idea ce l’avrei: cercarli in noi, questi “loro”. Li abbiamo corteggiati tutta la vita, respingendoli con fervore. Abbiamo costruito l’intera esistenza intorno a un “loro” da respingere, forse nessuno più di noi è preparato sull’argomento (loro, infatti, non sanno nemmeno di essere loro). E una volta trovatili, dire “amen” e finalmente vivere.

Non accontentarci di essere l’alternativa tutta uguale (anzi, disuguale) a un generico “loro”, e a fare gli ortodossi dell’ideologia finché non si tratta di guardare un Mondiale, i duri e puri finché non si tratta di chiavarsi una vrenzola.

Il mondo era minaccioso a scuola, va bene, era “minacciosa” la domenica in chiesa con mamma, concediamoci anche questo. Ma adesso siamo adulti, abbassiamo lo scudo e la prosopopea e guardiamo in faccia la nostra paura di essere uguali a tutti quanti.

Affrontiamola, anzi, invitiamola a prendersi un caffè, come farebbe “uno qualunque”.

Forse ci dirà più cose lei di noi stessi che tutte le storielle autoesaltanti che ci racconteremo da qui alla morte.