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Vi ho visti, vi ho letti, vi ho ascoltati.

Siete arrabbiati. Lo capisco. Ci sono molte ragioni per esserlo. E non sto a dirvi che “l’importante è come reagiamo a quello che ci succede”, che è sempre valido ma è difficile da applicare.

Però c’è qualcosa che non mi quadra della frustrazione che accompagna, in rete e nel mondo in 3D, i commenti razzisti, gli scambi di foto porno non autorizzate come se fossero figurine dei calciatori alle medie, le berline mediatiche di questo o quel capro espiatorio incaricato di renderci più divertente la pausa caffè.

Tutto questo lo facciamo come se non avessimo altra scelta.

Mi spiego: quando sono così frustrata da prendermela con qualcun altro, ma proprio affidargli la causa di tutte le mie disgrazie presenti e future, è quando proprio ho perso le speranze.

Che ne so, c’è lo sciopero del personale metro a Barcellona e sto bloccata ad Arc de Triomf, con la prospettiva di farmi sotto la pioggia quei 2 km che mi separano da casa.

Allora sì che comincio a prendermela con l’universo mondo.

Ok, lo so, ci sono paragoni più drammatici. Però la questione è la stessa.

In tanti, invece, pensiamo che nutrire qualsiasi speranza di migliorare le cose, senza un miracolo esterno, sia stupido o, nella migliore delle ipotesi, ingenuo. Vero? Tutti i nostri problemi derivano unicamente da altri fattori, questioni davvero complicate come disoccupazione, parenti serpenti, relazioni precarie. Siccome nessuno può negare la difficoltà di questi ostacoli, passa più facile l’idea che la nostra serenità dipenda esclusivamente da quelli.

Così sottovalutiamo il fatto che in pochissimi casi, e molto gravi, la nostra infelicità deriva unicamente dall’esterno. Ma continuiamo a pensare che l’unica è rassegnarci e sperperare in sarcasmo e tristezza delle energie utili per cercare una soluzione. È anche il modo più economico di affrontarli, i problemi. Ci costa solo il fegato.

Così ce la prendiamo con le “cagne” mediatiche, per sfogare la frustrazione di una separazione. O ci mettiamo del rancore genuino nelle risate sui meme di Jennifer Aniston e #Brangelina, perché lei si sarà rifatta una vita, ma noi pensiamo ancora a quello stronzo.

Vuoi mettere tutto questo con l’ebbrezza di avere sempre ragione?

Perché, fateci caso, noi ci convinciamo che tutto andrà sempre una merda poiché siamo troppo buoni per questo mondo, e troppo onesti e intelligenti per non saperlo. E 9 su 10 ci azzecchiamo. Perché nella nostra vita non succederà un cazzo di niente che possa smentire il nostro assioma: staremo proprio lì di guardia per non farlo succedere.

E se c’è una possibilità di star bene, ci assicuriamo che non dipenda mai da noi, da sforzi nostri. È sempre la raccomandazione che non arriva, quella bastarda che non ci chiama, la sfiga che non ci fa mai prendere al superenalotto.

Stiamo male per cause esterne? È dall’esterno, sembriamo pensare, che deve venire la nostra salvezza.

Dalla nuova relazione che ci sottrarrà per qualche tempo al pessimismo cosmico, per poi lasciarci a pezzi quando finirà (ma l’amore è così).

Da quei due soldi che finalmente guadagneremo e che non spenderemo mai in maniera soddisfacente (ma la vita è così).

Quindi manteniamolo, sto ghigno furbetto, scoraggiamo chiunque cerchi sul serio di migliorarsi un po’ l’esistenza. Deridiamo chi si ostini a cucinare con gli ingredienti che ha, o addirittura a procurarsene di migliori.

Continuiamo a farci del male.

Che l’unica soddisfazione possibile sia poter dire agli amici di facebook che, quando sostenevamo che la vita fosse una merda, avevamo pienamente ragione.

Prenderemo un sacco di like.

 

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1226673344163_bacio1 Avete presente tutti i film in cui qualcuno sta per compiere un passo decisivo nella sua vita e per un po’ cerca una via di fuga? In genere la più gettonata è il tentativo di “tornare al passato”, a prima di arrivare a quel bivio inquietante. Capita al quasi-trentenne de L’ultimo bacio, che sulla soglia del matrimonio finisce con una bella diciottenne a leggere Siddharta.

Quel film è esemplare di ciò che voglio dire, perché il protagonista alla fine non s’innamora della pischella, che incarna la sua fuga dall’età adulta. Ci si rifugia per paura dell’irreversibilità delle sue decisioni.

twolovers (1)   La paura, se ci pensiamo, è lo stesso motore che spinge Gwyneth Paltrow in Two lovers a fare una scelta uguale e contraria: rinunciare a una fuga “adulta” con Joaquin Phoenix, che vuole liberarsi come lei di una realtà soffocante, per tornare all’infelicità bohemienne che non la fa star bene, ma la fa sentire al sicuro. È quello che fa l’infelicità prolungata: ci fa sentire più sicuri di una felicità da costruire.

Ma per evitare dubbi su cosa io intenda per felicità, torniamo ai trentenni italiani di Muccino: mica le aspirazioni devono essere le stesse per tutti. Ci sono amici che davvero sono contenti a realizzare il loro sogno di ragazzi e partire in viaggio. Quindi “crescere” per me non vuol dire assumere modelli di comportamento tradizionali come un lavoro fisso e una famiglia stabile. Significa proprio avere il coraggio di seguire la propria aspirazione, che comporti un mutuo trentennale o l’apertura di un baretto sulla spiaggia. Seguire il corpo, sul serio, come è cambiato ora. Io ero più grossa a 25 che adesso, a 35, in più di un senso. E mi sto adeguando alle mie aspirazioni apparentemente più modeste di adesso.

Sono quelle che mi fanno star bene in questo momento. A 25 anni le avrei trovate insignificanti, ma allora ero molto insicura e dovevo dimostrare a me stessa di “saper” fare le cose. Saper vivere da sola, saper vincere una borsa di studio, saper… Adesso non ho bisogno di dimostrarmi niente. So che potrei farlo di nuovo, soprattutto so che, ci riesca o meno, sarò sempre io.

Credo che questo sia l’atteggiamento che mi faccia meglio, penso di essere in buona compagnia. Fare le cose non per sfidarmi continuamente, per colmare da fuori un’insicurezza che mi porto dentro, ma farle perché in questo momento, per gli studi che sto portando avanti (ancora!), per i lavori che comincio a fare, mi sembra la strada “naturale”, se qualcosa del genere esiste, il cammino che si disegna da solo quando in realtà ci stai lavorando su e bene.

Quindi, se finalmente riuscirò ad aprire quest’associazione che faccia da ponte tra culture diverse, non sarà per dimostrare a me stessa di esserne capace, ma perché in questo momento è la cosa più spontanea che mi venga da intraprendere, la conclusione più logica dei miei studi comparatistici e dell’impegno sociale degli ultimi anni. Finché non mi servirà da tappabuchi per l’ego, potrebbe addirittura funzionare.

E se dovesse fallire… Ragazzi, non sapete quanta roba stia cannibalizzando da imprese fallite. Non sono neanche sicura di poterle chiamare fallimenti, in realtà, ma da eventi riusciti così così ho ricavato conoscenze fantastiche, contatti di persone che un giorno potranno aiutarmi in qualcosa che possa riuscire bene. Soprattutto, quello che è stato un mezzo fallimento per me è stato un grande successo per altri. C’è l’associazione che partecipando a quel cineforum sotto la pioggia ha imparato a mettersi in gioco, oppure la mamma a tempo pieno che per offrire un premio a una riffa si è inventata un’attività artigianale da svolgere in casa.

Ecco, questo sì, ho imparato un criterio fondamentale quanto semplice per andare avanti: se le cose fluiscono, bene, se no, come si dice in spagnolo, otra cosa mariposa.

Una volta che si sta bene e si sa bene cosa si vuole, ci è anche più facile portare a termine i progetti.

Insomma, non si tratta di mollare tutto e tornare a un’adolescenza che non potremmo mai più avere (se il trentenne Accorsi fosse rimasto con Martina Stella, fantastico, ma sarebbe stato da trentenne con una diciottenne, non sarebbe venuta la fata di Cenerentola a togliergli gli anni). Si tratta di guardare avanti, partire da nuove esigenze e non da vecchi bisogni, andare perché aspiriamo a realizzare qualcosa che vogliamo sul serio, canalizzare un’energia che al momento ci mulina nello stomaco in attesa di essere (ben) impiegata.

Ecco, secondo me bisognerebbe partire sempre dall’energia e mai dalla fame. Stay hungry stay foolish lo raccomandi a qualcun altro, almeno nel mio caso.

Io mi sazio prima di tutto ciò che sono diventata, mi sorrido come una scema e allora, solo allora, attraverso la strada.

woman-cooking-meal-for-date-night Io ho capito, dove sta la magagna.

Quando parlo a qualcuno, specie connazionali e magari compaesani, di un’esperienza nuova, un piatto inedito, un’usanza molto lontana dalle nostre, ci sono due atteggiamenti.

Il primo e più preoccupante è: “Ah, allora senti questa”. Cioè, alla mia ricetta di biryani indiano si risponde con quella dei paccheri alla crema di zucca. Al libro che sto menzionando mi si replica con una citazione di qualche scrittore “complesso e sottovalutato” che si autopubblica e che solo sua sorella conosceva, prima che cominciasse a fare video con una pornostar prestata alla filosofia. Tutto ciò avviene non in chiave “scambio d’informazioni”, è proprio un testa a testa tra quello che so io e quello che sanno loro.

Sapete che voglio dire? La reazione al nuovo che diventa un barricarsi in quello che si sa già.

In effetti mi succede soprattutto con gli uomini, che si sentono obbligati dalla nostra cultura a dimostrare quanto valgono. Fortuna che mio padre sarà capa tosta su certe cose, ma almeno sulle novità ti subissa di domande e se sono piatti stranieri si fa un punto d’onore di assaggiarli tutti (e mantiene la parola).

Ecco, questo secondo atteggiamento a conti fatti non è più difficile del primo, né più dispendioso emotivamente: si chiama curiosità e l’abbiamo sperimentato fin dalla più tenera età, con eventuali censure successive. È l’idea per cui qualcosa di nuovo nella migliore delle ipotesi ci arricchisce, nella peggiore non ci toglie nulla, perché se non ci piace lo rispediamo al mittente (per esempio: non sono uscita dal seno di Santa Madre Chiesa per sentirmi insegnare da un amico musulmano che “le donne sono esseri superiori e QUINDI dobbiamo proteggerle”).

Ma no, prevale la barricata. Che risponde quasi sempre alla logica del ci stanno invadendo. Ci stanno imponendo la loro presenza, la loro cultura, la loro novità.

Spesso non sono d’accordo neanche con quelli che, quando si tratta della bufala degli immigrati-invasori, sanno come mettere a posto i criptofasci travestiti da genitori preoccupati. Mi spiace che gli stessi tendano a ritenere Halloween nient’altro che una festa troppo americana per essere celebrata nella terra del soffritto napoletano o della catalana castanyada. Peccato che sia una festa celtica, significhi Ognissanti e che in America l’abbiano portata gli irlandesi.

E sono tanti gli altrimenti illuminati che se la prendono con una foga curiosa anche con quei vegetariani e vegani che non montano polemiche con loro per quello che mangino, ma che per il solo fatto di mangiare diverso da loro suscitano sarcasmo o addirittura indignazione.

So che qui sono molto impopolare, ma mi lascia perplessa anche la difesa selettiva della libertà di culto, che passa per una condanna francamente razzista dei cattolici. Capisco che in questo momento si tratti da un lato di condannare l’intolleranza verso altre fedi e dall’altro di rivendicare diritti civili e laicità. Ma per me una convivenza che nasce dal sospetto reciproco finisce male in ogni caso.

Non capisco cosa ci faccia pensare che barricandoci nel nostro stile di vita lo stiamo difendendo. Cosa ci toglie lo stile di vita altrui? Non sarà che siamo caduti nel tranello, noi terra d’ibridazioni, di miscele, di credere che cambiare sia brutto?

Una cosa è che non ci piaccia cambiare, o che non ne vediamo la necessità. Un’altra è che ci faccia paura.

Non siamo chiamati a cambiare, non sempre. Ma se non la consideriamo neanche come ipotesi, quella di accogliere abitudini diverse rispetto a quelle in cui ci identifichiamo, queste ci travolgeranno senza problemi.

Allora, facciamo una scelta cosciente. Quando vi dico la ricetta del couscous sono sicura che ne avrete altre 100 di ottime da propormi, della terra che ci ha generati. E me le segnerò senza che sminuiscano il mio couscous. Né il mio couscous sminuisce le vostre.

E prima di criticare qualsiasi cultura, colonizzatrice o colonizzata, ricordate l’ultima volta che avete detto che tutte le culture sono degne, proficue, uguali.

O ce ne sono di più uguali di altre?

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Dopo anni immuni alla caciara virtuale che suole scatenersi su facebook, con le elezioni comunali a Barcellona ho riscoperto una rabbia argomentativa che non sapevo di avere. Senza aver sostenuto chissà quanto Barcelona en comú, la lista che ha vinto in barba alle previsioni dei “cauti”, mi  scoprivo molto arrabbiata con gente che criticasse il movimento perché sì, o perché si sentiva furba e controcorrente a non cedere all’entusiasmo generale.

Lo so, vi suonerà familiare rispetto a quelli che, a proposito di Grecia, si vantano di non essersi “lasciati coinvolgere dalle ideologie”, dunque di essere gli ultimi depositari del buonsenso (quando io non sono né riuscita a festeggiare per il NO né a sentirmi furba per non averlo fatto, senza che riesca a chiamarlo indecisione).

Nel caso del comune di Barcellona, su facebook leggevo: battute trite e ritrite sul cognome della candidata a sindaco (che ricorderebbe il nome di una bevanda al cioccolato); le illazioni di chi aveva votato Pisapia ed era rimasto deluso, concludendo che a noi sarebbe successo altrettanto; il solito “staremo a vedere MA sono scettico” che è la paraculata per eccellenza, va bene per tutte le stagioni e tutti i partiti politici e intanto ti fa fare lo splendido perché sei “fuori dal koro”.

Non mi rendevo conto, però, che dietro la mia genuina insofferenza ci fosse una considerazione molto personale: criticavo chi sceglieva di non scegliere, e si sentiva un eroe, per questo, perché io, intanto, sto scegliendo. Nella mia vita, dico.

Sto prendendo decisioni, il che significa quasi sempre arrivare a un bivio (ma più spesso le strade sono 3 o 4) e prendere una strada, chiedendosi invariabilmente come sarebbe stato imboccare le altre.

Un’operazione che non amavo fare perché, nonostante sia penoso, restarsene in disparte e non scegliere mai è infinitamente più facile. Più dannoso, anche, ma il terrore dell’alternativa (prendersi le proprie responsabilità e rischiare di scegliere male) è talmente forte che meglio quello.

Io, invece, decido, e non mi sento affatto saggia, per questo. Anzi, spesso mi sento una scema perché a volte i risultati sono scarsi, perché sto peggio a scegliere che ad aspettare la bacchetta magica senza muovere un dito.

Forse è questo che ci blocca, al momento di prendere decisioni: la paura che ci si sbatta tanto per poi ritrovarsi peggio di prima. L’eterno indeciso, invece, è diventato una specie di eroe postmoderno che sopravvive anche alla nostra epoca, assolto da una crisi che giustifica titubanze ed esitazioni.

E non ha tutti i torti. Spesso decidere è una fregatura. Le mie arrabbiature con chi non lo fa un po’ sono dettate dall’invidia (a volte vorrei tornare a imitarli) un po’ sono dovute, devo ammetterlo, all’idea che a queste persone possa sfuggire qualcosa: che tutta st’indecisione sia spesso una montatura, una posa.

Che, mentre io non so dove andrò a parare, e magari finirò male, loro possono essere quasi sicuri che di questo passo la situazione sarà sempre uguale: il quasi è dettato da botte di culo/imprevisti della sorte che sono rari e che spesso portano soluzioni a metà (es. gravidanza inaspettata che risolve un rapporto incerto, ma non crediate che questo faccia innamorare l’indeciso dei due).

Allora sarà questo: ultimamente mi sento chiamata in causa, quando uno sceglie di non scegliere, perché il contrario è una faticaccia, dai risultati incerti. Ma sono genuinamente convinta che sia la cosa migliore da fare, che prima lo si fa e più soddisfacenti saranno i risultati.

La questione sarà adesso non cercare d’imporre la mia idea agli altri. È una gentilezza che lascio a loro.

katniss_everdeen__by_xxhannahsalvatorexx-d4q9msuAdoro la parola inglese outgrow, che sostanzialmente significa “non stare più in qualcosa” (generalmente, nei panni dell’infanzia, perché si è cresciuti).

Il senso che mi piace di più è quello metaforico: ci facciamo troppo grandi per portare la terribile salopette regalo di zia Palmira? Be’, possiamo anche diventare troppo maturi per la situazione in cui ci troviamo.

La prima volta che ho riflettuto sul significato del verbo è stato in riferimento alla saga di letteratura giovanile (che sì, mi piace molto, ok?) The Hunger Games.

Come alcuni di voi sapranno, parla di una ragazza, Katniss, che cresce in una sorta di mondo postatomico, con una regione centrale e (pre)potente, The Capitol, per la quale devono lavorare, ridotti in miseria, il resto degli esseri umani. La saga accompagna la protagonista nella lotta “pubblica” per riscattare la sua gente. E in quella privata di adolescente divisa, secondo un luogo comune caro a certa letteratura al femminile, tra due ragazzi completamente diversi tra loro: l’affascinante “maschio alfa” Gale, cacciatore eroico e prestante, e il sensibile Peeta, romantico e pieno di risorse (ad esempio, beato lui, fa torte incredibili).

Non vi dico chi la protagonista scelga alla fine, ma ho trovato interessante uno dei tremila commenti sul web a proposito dei due “pretendenti”: secondo una lettrice, se non ci fosse stata tutta la rivoluzione alla base della storia, Katniss avrebbe, appunto, “outgrown” Gale. L’avrebbe “smesso” come si smette appunto la t-shirt delle medie quando ci cresce il seno (un brivido che personalmente non ho mai sperimentato).

In effetti, l’idea di diventare troppo grandi, mature/i o coscienti per una storia è affascinante.

Certe situazioni vanno accantonate in scatoloni da riciclare negli appositi contenitori, perché intanto saremo cresciute, saremo diventate persone infinitamente più “grandi” di quelle che hanno cominciato quella relazione, che si sono infilate in quella scomoda situazione familiare, che credono di uscire da ogni problema facendo i capricci.

Il fatto che un tempo questa vecchia vita ci calzasse bene non vuol dire che sarà sempre così. Se ormai ci va stretta, mettiamola da parte e ammettiamo che respiriamo meglio senza averla addosso. Che ci serve una taglia in più.

Che crescere di una taglia, checché ne dicano i guru della prova costume, non sempre è una brutta cosa.

onderosse Dopo mesi e mesi di regolarità svizzera, ho avuto un ritardo di ben 10 giorni. Si spiegherebbe con la legge di Murphy, tipo che dovevano venirmi proprio il giorno della partenza. In modo da far dire a mia madre che mi trovasse pallida e sciupata (dunque bisognosa di CIBO).

Ma la cosa mi ha fatto riflettere, perché l’ultima volta che avevo avuto un ritardo simile (due settimane, ed era finita perché mi ero presa una medicina speciale) era andata proprio male male.

Ero completamente disconnessa da me stessa, dai miei reali desideri, e il corpo cercava disperatamente di dirmelo. Facevo un investimento conveniente sulla carta, ma che in qualche modo “strideva” con le mie sensazioni in merito. E portavo avanti tra mille strategie una storia che non era quella che volevo. Allora venne questo ritardo a dirmi che le cose non potevano più andare, non stavo fluendo.

Infatti un giorno uscii a prendermi il caffè con un amico e seppi da lui, ridendo e scherzando, che il mio “amato” era innamorato di una. Ed era talmente di dominio pubblico, quanto era sconosciuta la nostra storia, che mi veniva detto così, davanti a un piatto di olive.

Ora sto leggendo un libro di uno junghiano di grido che dice che, quando ci succedono queste cose, è perché le vogliamo noi. Balle. Io non sapevo cosa volessi, perché non mi prendevo il fastidio di ascoltare quel mio corpo gonfio, affaticato dal ciclo che non veniva.

Forse in questi giorni del nuovo ritardo (che anche i medici più “scientifici” riconducono spesso a stress) mi stava succedendo lo stesso: non stavo fluendo. Disperdevo l’energia in mille cose di cui non m’importava niente, magari solo per non fare ciò che m’interessasse davvero. Sempre per la paura di farlo male, di scoprire che avrei dovuto mettermi a fare un’altra cosa.

La differenza con allora? Be’, ora capisco quando succede. Più che altro lo sento.

Per questo vi dico, non vi punite con una vita che non è la vostra, per la paura di scoprire quale volete davvero.

Per questo tengo questo blog, l’ho cambiato tanto, tra questi due cicli saltati: non vorrei che nessuno andasse a prendersi un caffè e sapesse da altri che la sua vita non va.

Dovete accorgervene da soli, prima che sia troppo tardi. E recuperare la vostra vita, nell’unico modo possibile: non lasciare che un’idea di come dovrebbe essere uccida quello che già c’è, che c’è sempre stato, che aspetta solo noi.

Fluite anche per me.

funny-haircuts-facebook-styleCon la mia parrucchiera mi faccio un sacco di risate. È una ragazza di Miami, originaria della Costa Rica, che quindi parla uno spagnolo eccellente ma con l’accento di Stanlio e Ollio. Scherzi a parte, è proprio brava, immune a quel taglio anni ’80 che qua a Barcellona continua a essere l’ultima sensazione.

Lei, poi, ci tiene tanto, al suo lavoro. Si studia il taglio che vuoi (se le parli dell’acconciatura di un film se la cerca su Internet) e ti racconta per filo e per segno che modifiche gli farà per adattarlo alla tua testa. Soprattutto, veniamo alle dolenti note, ti spiega cosa devi fare tu per mantenerlo bello e ben pettinato.

Messo così, un salone di parrucchiere diventa un posto niente male, per imparare a campare: la gente arriva con certi tagli in mente, che ti smascelli dalle risate. Ragazze con due peli in testa vogliono la criniera afro, che so, oppure sono di origine cinese e vogliono dei ricci fittissimi, che si mantengano intatti fino alla prossima messa in piega.

E poi, d’estate, impossibile prendere appuntamento: tutti lì a farsi qualche taglio sexy che li faccia sentire il re o la regina della Costa Brava!

Dalla mia parrucchiera imparo la differenza tra le aspettative della gente e quello che possono ottenere. Soprattutto, scopro quanto sia difficile per le persone capire che devono lavorare, per mantenersi certe cose. Pensano di comprarsi tutto il pacchetto, tutto il mese, a prezzo di una tinta e una piega.

Ma la cosa più buffa l’ho appresa qualche giorno fa, quando mi ha spiegato:

– Ci crederesti? Non sai quanta gente viene qui a dirmi: voglio fare un cambio radicale ai capelli, ma voglio solo tagliarmi le punte. Glielo devo spiegare io, che è una contraddizione in termini?

Già, è una cosa che va spiegata. È quello che dicevo a proposito del vittimismo del “capitano tutte a me”, riferito alle disgrazie, o dell’opposto “a me non succede mai”, ovviamente in riferimento alle cose belle.

Perché, in fondo, quando vogliamo fare un cambiamento, anche in qualcosa di frivolo come un taglio di capelli, si tratta di due cose: capire quanto siamo disposti a lavorarci (non ci crederete, ma la tipa della foto col taglio che ci piace, 9 su 10 ha un parrucchiere personale), e soprattutto accettare che non puoi cambiare radicalmente se non sei disposta a farlo, se non accetti di vederti diversa per un po’, se non corri il rischio di scoprire come staresti con la frangia, o con la tinta più scura, o, come ho fatto io una volta, di entrare con la chioma giallo paglierino che ti eri autoimposta per soddisfare certi standard, e uscirtene in carré, col colore che avevi abbandonato per inseguire una che non sei tu.

Insomma, la mia parrucchiera m’insegna molto di più che la prof. di filosofia del liceo. Per cambiare sul serio dobbiamo:

1) lavorarci su

2) correre rischi

3) accettare che i miracoli succedono raramente

4) nell’attesa del miracolo, metterci in gioco.

Che la panacea di tutti i mali non è sempre darci un taglio.

Tatuaggio-fiori-di-ciliegio-con-farfalle-immagine-e1401707583855Sì, ogni tanto faccio ancora i dialoghi con quello che un ateo convinto chiama “Il mio amico immaginario” e io da agnostica strana chiamo in mille modi diversi, quasi sempre in napoletano. E quasi sempre urlando:

– Senti, si dice in giro che hai un piano per me, ma il mio ti faceva proprio schifo? [Già sentita in Dogma]

Oppure:

– Lo so, lo so che muori dalla voglia di presentarmi qualcuno che mi faccia felice (sei solo timido), ma che ne dici di lasciarmi essere infelice a vita con chi dico io?

Alla prima domanda forse ho trovato risposta, ammesso che ci sia. Al mio piano mancava una cosa fondamentale: informazioni. Preziose. Tipo, come si vive bene se ci si rassegna alla possibilità di essere felici.

Ricordate quando vi raccomando di provare a fare una piccola cosa al giorno per trattarvi bene, e cose così?

Non sto a dirvi che basta solo quello, perché ci vuole un po’ di culo, anche, sfruttare venti favorevoli e incontri giusti, ma vi giuro che è una figata. Come si può evincere dal gergo particolarmente bimbominkia, sono un’altra. Sono tornata al tirocinio dopo un mese d’inattività e temevo un’ecatombe… Invece eccomi lì a scherzare con gli alunni, perfino davanti a questioni emozionanti come la concordanza del possessivo col sostantivo nei nomi di parentela.

Insomma, non ho fatto niente di troppo diverso rispetto al mese scorso, a parte darmi un po’ di permessi: di lasciar andare cose che non funzionano, di consentirmi un po’ di divertimento ogni tanto. Di uscire con amici intelligenti, di proporre io incontri, progetti nuovi. Perfino di farmi corteggiare. Nel senso che quando mi fanno un complimento non rispondo subito schermendomi in sanscrito e accusando l’interlocutore di scarso discernimento.

A volte basta questo. Non a risolvere tutto, che ogni tanto il piano B ancora provo a propinarglielo, all’ “amico immaginario” di cui sopra, che fa sempre orecchi da mercante. Ma mi sto aprendo ad alternative, magari alle uniche possibili, e devo dire che tutto cambia da così a così. E cambiamo anche noi.

Insomma, vi sto trasmettendo la mia allegria? Se a questo punto della lettura volete già abbattermi, ce l’ho fatta.

La vostra missione, per una volta, sarà fare lo stesso. Fare come me.

Per una volta, permettetevi di essere tutto quello che siete quando non siete ossessionati da ciò che vorreste essere. Per una volta sola.

So che la paura di finire delusi è forte, che temete di perdere sia il futuro che non osate sognare che il passato a cui vi aggrappavate.

Ma statemi a sentire, fate questo salto, o che sia almeno un passettino, uno alla volta.

Datevi una possibilità. Potreste scoprire che non siete così indegni di fiducia come pensavate. Che magari un poco per volta, e a piccole dosi, potete fidarvi di voi.

stock-vector-vector-illustration-of-a-knight-dragon-and-princess-138067055Il grande Parsifal era grande solo nei suoi sogni. Ma nei sogni dovevate vederlo, come torreggiava con la lancia in resta, una spada in pugno e un coltello tra i denti, hai visto mai dovesse affrontare un dragone a tre teste. Quando si svegliava, però, era ancora un ragazzetto con due peli di barba e la stessa camiciola di contadino con cui l’aveva salutato la madre (che ai tempi, già sapete, pulizia insomma…).

Nelle sue prime peregrinazioni, con annessi donne, cavalier, arme e amori, il Nostro Eroe si era pure ritrovato davanti a uno strano castello, indicatogli da un misterioso pescatore che, dall’aria con cui aveva risposto alle sue indicazioni, pareva alquanto malaticcio, e che alla fine si era rivelato un Re.

parzival-grail-castleNel castello aveva assistito a una curiosa processione di nobili dame che portavano una coppa magnificamente istoriata, con gemme e pietre preziose e tutto quello che deve avere una coppa prima che inventino Indiana Jones per darti il vago sospetto che si tratti proprio del Sacro Graal.

Ma figuriamoci se al nostro impavido, tozzo Parsifal veniva in mente una cosa del genere. Passò tutta la notte nel castello senza chiedere a nessuno cosa stesse vedendo e (soprattutto) a che servisse tutto quello, e al mattino si svegliò in una sala vuota.

Perplesso anzichenò, riuscì a uscire dal castello poco prima che si abbassasse il ponte levatoio (si girò pure, indignato e dignitoso, a chiedere ragione del gesto al fellone che lo manovrava, ma la sua sfida a duello si perse nell’eco delle alte mura e morì nel fossato).

Non gli restava che riprendere la marcia e l’infinita sequela di duelli, draghi, principesse da salvare e streghe da uccidere che faceva a quei tempi il curriculum di un cavaliere (purtroppo per le streghe, che mi stanno assai simpatiche).

Cavalca che ti cavalca, il Nostro Eroe si ritrovò in una radura che ancora rimuginava sul ponte levatoio, come se vedere il Graal e risvegliarsi unico abitante di un enorme castello fossero cose di ogni giorno, quando scorse un fuoco dietro degli alberi.

Poteva essere un cacciatore affamato che cominciava ad assaggiare parte della sua selvaggina; un bivacco di musici girovaghi alla prima sosta; un contadinello fuggito dai campi che, vinto dalla fame e dalla stanchezza, si fermasse a rifocillarsi prima di sparire nelle foreste coi banditi.

Ma no, il nostro cavaliere pensò a quella che per lui era l’unica spiegazione possibile:

– Vieni fuori, chiunque tu sia! Volevi cogliermi di sorpresa, vero? Ma Parsifal non si lascia sopraffare da siffatti vili tranelli. Orsù, cavaliere, sguaina la spada e affrontami in singolar tenzone!

Ma che vvuo’?

celticgoddessLa domanda non era ostile: la fanciulla che, scostando i cespugli che coprivano il fuoco, si palesò davanti a Parsifal, non aveva davvero capito una mazza di ciò che lui stesse dicendo.

– Chi sei, donzella? T’ha rapita il fellone che ancora s’asconde tra la verzura? Non temano questi occhi belli, con me sei al sicuro.

La “donzella” gli lanciò un’occhiata che stava a significare, più o meno, sì, allora sto fresca.

Parsifal la guardò meglio. In effetti, tanto donzella non era. Arruffata, una vestina impudica a coprirle a stento interessanti rotondità, sparse le trecce morbide sull’affannoso petto, la sconosciuta si presentava assai poco propensa a fare da dama, di quelle che danno nomi alle spade e lanciano il fazzoletto all’eroe durante i tornei.

Questa qui, al massimo, avrebbe gettato un fiotto di muco tappandosi una sola narice, e vincendo un apposito torneo di quella specialità, se mai qualcuno si fosse preso la briga di organizzarlo.

Ma il Nostro non aveva tempo e pazienza per fare il tournament planner, quindi si limitò a chiedere alla gentil verginella in cosa potesse aiutarla.

– Verginella sarà tua nonna – rispose quella, ignara del paradosso appena formulato.

Poi gli spiegò che si era fermata a bivaccare ai margini della radura perché c’era qualcuno nella sua capanna, in riva al fiume. Un intruso, un ladro, forse.

A quella notizia, il nostro trattenne a stento la gioia. Un duello!

Allora abbassò la visiera al fiero elmo, sguainò la dolce spada e con uno slancio improvviso, e ammirevole per come andava bardato, si tuffò stile quarterback sulla malcapitata che rientrava nella capanna, facendole pure battere la testa contro un vaso poggiato lì a terra, che aveva tutta l’aria di essere un pitale.

red-catComunque sia, l’effetto ci fu: dai sacchi di farina bucati che emergevano da un angolino in penombra si udì un rapido raspare, poi un lungo gnaulio e finalmente dalla tenebra che l’aveva inghiottito uscì fuori il malvivente intruso: un enorme gatto rosso.

Che, saltando sdegnoso dal suo nascondiglio, soffiò come un drago incazzato in direzione dei nostri eroi, si chiese in quale casa fosse capitato, che pure i topi erano rachitici e un po’ scemi, e si dileguò in cerca di migliori mete.

– La casa è salva, madonna – s’inchinò Parsifal – adesso potete governare in pace su di essa.

– Bella fatica, hai fatto! – valutò lei sarcastica. Poi lo guardò meglio, anzi, si guardarono a vicenda, soppesarono le carni giovani benché non proprio pulite e profumate, i denti quasi a posto, molare più molare meno, gli occhi cisposi quanto basta, e decisero che era troppo tardi per dedicarsi a lavorare e troppo presto per sedersi a tavola.

Indi per cui, con unità d’intenti, si dedicarono all’unica attività che i loro bollenti spiriti trovassero degna di considerazione.

Vi si dedicarono con tanta alacrità che quando il nostro alzò dal giaciglio di paglia la testa ancora impennacchiata (un vezzo della donzella, e non vi dico che uso improprio era stato fatto dell’elsa della spada) il gallo aveva appena elevato il suo canto di buongiorno al mattino. Il Nostro ebbe allora la cortesia di chiedere:

– Come avete detto che vi chiamate, madonna?

– Biancofiore.

Temptation-Percival-LAllora l’eroe si alzò dall’alcova, mano sul cuore, giurò che mai nella sua vita avrebbe dimenticato il soave nome della compagna di quelle inebrianti ore d’oblio, e che l’avrebbe raccomandata alle preghiere della sua regina, la pia e casta Ginevra.

– Insomma, mi molli così? – fece Biancofiore.

– Ma, mia signora, dovrò pur andare a lavorare! Mi aspettano draghi, duelli, donzelle…

– Che?!

– … donzelle da salvare, come già feci con voi.

– Allora sono stata una delle tante?

Qui perfino un babbeo come Parsifal capì di stare su un terreno minato, se mi permettete l’anacronismo.

– Giammai, madonna, vi confonderò con le altre. Non siete voi, sono io. Sarete sempre nel mio cuore, accanto a mia madre e alla mia regina.

– Ecco, vattenne addu chella zoccola d’ ‘a riggina!

Parsifal capì che forse aveva fatto una cazzata.

Allora, senza proferire verbo, che era meglio, si rimise in fretta i gambali dell’armatura e si allontanò, lasciando la donzella in preda a irrefrenabili singhiozzi.

Eh, ma la vita di un cavaliere era così. Salva una regina, accetta la sua ospitalità nelle stanze degli ospiti, misteriosamente comunicanti con le sue, poi ammazza un drago e porta a riparare la spada flambé, che nonostante le principesse e le operazioni di soccorso continua a non avere un nome…

King_ArthurPassarono gli anni e il Nostro aveva un curriculum da paura, ma era sempre un tontolone. Il re Artù e i suoi nobili cavalieri lo mandavano a fare i lavori pesanti: dragare fiumi, salvare le fate, andare a ordinare le pizze per tutto il castello… Quando il nostro eroe si annoiava, doveva solo prendere lancia e scudo e fare un fischio al cavallo: i due si lanciavano all’avventura tra le lussureggianti lande di Cornovaglia (chissà perché, in queste storie di cavalieri il clima di merda non viene mai riportato, come se l’Inghilterra fosse Montecatini. Potenza dell’immaginazione).

Fu così che, cavalcando cavalcando, Parsifal giunse allo stesso castello di 10 anni prima. Il fiero giovane, ormai più esperto, questa volta assisté con molto interesse a tutta la processione, che si ripeteva ogni notte, e cominciò a fare qualche domanda.

– Cos’è quella coppa?

– È il Graal, il ricettacolo del sangue di Nostro Signore Gesù Cristo.

– Ah, sì?

– Boh, una volta era un simbolo della Dea.

– Secolo che vai, usanza che trovi.

– Ben detto, Parsifal. Hai qualche altra domanda da fare?

Questa volta gli avevano dato l’aiutino, perché spezzasse l’incantesimo. Lui guardava i cavalieri e le dame che si riunivano intorno a lui, speranzosi, ansiosi di ascoltare le parole che avrebbe proferito, e particolarmente interessati alla reazione del Re Pescatore. Alla fine il Nostro si schiarì la voce e disse:

– Che c’è per cena? Branzino come al solito?

Tutti crollarono il capo e si disposero a mangiare. Il Re Pescatore andò a dormire, che era meglio.

Il Nostro eroe stavolta si svegliò, sempre solo come un cane nel castello enorme, con la sensazione che qualcosa non funzionasse. Perché erano tutti così attenti alle sue parole? E cos’era che dovesse chiedere, di così urgente?

Ok, c’era una coppa. Tempestata di gemme. Che aveva raccolto il sangue di questa o quella divinità lontana.

Uhm… Stava ancora pensando, quando si accorse di esser giunto di nuovo alla radura della donzella della sua prima gioventù.

Ottimo, pensò. Magari Biancofiore mi dà un sorso d’acqua e, se sono fortunato, mi offre ancora un giaciglio.

fairyhouse5Ma la capanna era sparita. Al suo posto c’era uno splendido palazzo a tre piani, con scudieri e fantesche carichi di brocche, striglie per i cavalli, e ogni genere di ben di dio destinato alle grandi cucine.

Accanto al palazzo scorreva un ruscello, piccolo ma potente, e accanto al ruscello girava in un moto perpetuo la ruota di un mulino. Accanto al mulino, tutti i contadini del circondario, disposti in una fila disordinata, attendevano il loro turno per macinare. La fiumana di gente non finiva mai, e sì che si erano svegliati prima del sorgere del sole, per presentarsi in tempo sul posto.

Parsifal si fece largo nella ressa di contadini e piatti di grano e tra stracci e berretti usurati da pioggia e sole, intravide due lunghe corna di seta, di quelle che all’epoca, con nostro sommo stupore, erano l’ultimo grido per le acconciature femminili.

Sotto le corna, poste su un’ordinata pioggia di lunghi capelli biondi (che una volta erano neri solo per scarsissima igiene) c’era una giovane sconosciuta e sorridente, che aiutava un anziano contadino a porre il grano nella macina.

Quando vide il cavaliere, i suoi grandi occhi smeraldo si sgranarono per la meraviglia.

– Ecco l’artefice della mia fortuna! – gridò ai presenti.

Dopodiché Biancofiore, che la dama non era altri che lei, prese il cavaliere per mano e lo condusse nel suo palazzo.

– Non capisco nulla di ciò che sia successo – commentava il cavaliere, togliendosi di dosso una ghirlanda di fiori appioppatagli da una fattoressa.

– Come sempre – osservò lei, con una smorfia sarcastica che ricordava un po’ la villanella conosciuta tempo avanti. – Sei l’artefice della mia fortuna. Quando sei andato via ho pianto a lungo, giorni, mesi, anni. Ho pianto tanto che le mie lacrime hanno formato questo ruscelletto che ora costeggia il mio palazzo. È piccolo, ma ha una forza incredibile, come una cascata, come l’oceano se cerchi di domarlo. Allora, piano piano, facendo dei debiti, vi ho costruito la ruota di un mulino. I villani arrivano ogni giorno a macinare il loro grano.

Parsifal se la strinse al cuore, e lei, dopo un po’ di affettata resistenza, lo lasciò fare.

Il cavaliere si rammaricò molto che lei avesse pianto tanto da generare un fiume, d’altronde la vita del combattente era quella e lui non poteva trattenersi tanto temp…

– Zitto, lo so. Ora so che il mio errore è stato cercare di trattenerti, mio cavaliere. Stavolta resterai perché vorrai tu.

Detto ciò, si liberò d’un gesto della tunica bianca che le copriva le carni sode e profumate, e i due si rotolarono in quella farina misteriosa che il mulino macinava, e che sembrava talco, ma non era.

Parsifal restò a lungo presso il palazzo.

La mattina andava ad ammazzare draghi, e qualche notte dimenticava di tornare. Ma alla fine un piccione annunciava sempre il suo arrivo, e Biancofiore, sospirando, gli faceva trovare le lenzuola ricamate e la coppa di vino sempre pronta.

Fu vedendo la coppa, un giorno che era stato lontano a lungo, che Parsifal si ricordò. Gli restava la missione del Graal.

Com’era possibile che si fosse dimenticato così?

lady-flora-goddess-of-blossoms-and-flowers-evelyn-de-morganSi affacciò al balcone e osservò un prodigio. Una giovinetta biondissima, il corpo alto e snello avvolto in una lunga tunica bianca, gli faceva cenno di avvicinarsi. Ma ogni volta che accennava a scendere, lei si faceva sempre più diafana, fin quasi a scomparire. Era una visione.

A un certo punto, quella splendida apparizione indicò la foresta, in direzione del castello del Graal. Poi sparì.

Parsifal non poté più né mangiare né bere. La notte prendeva Biancofiore in fretta, distratto, come se stesse liberando le viscere dopo un’abbuffata da fagiano.

Galahad Leaving Blanchefleur by Edwin Austin AbbeyBiancofiore mordeva il cuscino. Finché un giorno, mentre presiedeva alle operazioni del mulino, vide uno scudiero avvicinarsi, un sorriso mesto sul volto.

– Lo so, disse. So tutto.

Parsifal aveva raggiunto la fanciulla, che l’aveva condotto per tutta la strada riapparendo a ogni crocicchio, e sparendo ogni volta che il cammino si faceva dritto e piano.

Arrivato al castello del Graal, non la vide più.

Il castello non era mai stato così affollato. Sembrava che tutte le dame e i cavalieri dei dintorni si fossero dati appuntamento per un maestoso banchetto.

Il Re Pescatore era più mesto che mai.

Al momento della processione del Graal, la folla sembrava aprirsi attorno a Parsifal.

Assistendo alla sfilata di dame e cavalieri che portavano oggetti a lui incomprensibili, Parsifal si scoprì a chiedere:

– Cos’è il Graal?

– È la coppa della vita – rispose una voce soave.

Si girò sorpreso. Era la dama bianca.

Avrebbe voluto abbracciarla, ma lei fece no con la testa. Non rovinare tutto, chiedimi quello che devi, dicevano i suoi occhi.

Parsifal capì, la ebbe e la perse in un istante solo, quello in cui chiedeva:

– E a chi serve il Graal?

Le iridi azzurre della fanciulla si fecero acquamarina sotto una nebbiolina di lacrime. Sorrise felice e infelice insieme e rispose:

holy-grail_2059502f– Il Graal serve al Re del Graal.

E sparì. Finalmente il cavaliere aveva trovato la domanda giusta per rompere un incantesimo.

Il dolore di Parsifaal per la perdita fu coperto da un urlo, proveniente dal fondo della sala.

– Sono guarito!

Il Re Pescatore si alzò gagliardo dal suo trono e fece una specie di piroetta, che fu accolta da grandi applausi.

Poi abbracciò Parsifal.

– Grazie per essere tornato. Se fallisci una volta, bisogna sempre riprovare. Il Graal è fatto per questo, per svuotarsi e riempirsi di sangue per chi ne ha bisogno. Il sangue della vita che è vita e morte insieme, e amore, Parsifal. Amore.

Già. Amore.

Quando, di lì a poco, il Re Pescatore morì, Parsifal venne incoronato al suo posto. Governò giustamente e cercò di non smettere più di farsi domande. Anche quando le prime strie grigie cominciarono a solcargli i capelli sempre arruffati.

Un giorno, però, decise di uscire dal castello. Il suo cavallo era ormai vecchio e a riposo, ma volle proprio quello.

magiccastleRipensava alla gioventù che aveva barattato con la saggezza, come temeva sarebbe successo. E così non si accorse di esser passato fuori a un enorme castello, bellissimo, pieno di torri merlate e ponti levatoi. Come aveva fatto a non vederlo prima?

E quale re poteva essere più potente di lui, nel circondario?

Si fermò a chiedere. Una ragazzetta che passava saltellando tra i ciottoli di un ruscello familiare gli diede il benvenuto e lo chiamò “mio re”.

Com’era possibile?

– Di chi è quel castello, bambina?

La ragazzina sorrise un sorriso che conosceva, quello della dama bianca che un tempo l’aveva innamorato, portandolo via alla sua antica amante… Già, come si chiamava, quella là? Accarezzò la sua vecchia spada, che una notte di luna e vino rosso aveva appellato improvvisamente “Biancofiore”, e ricordò.

La ragazzina prese a correre veloce tra l’erba, e il vecchio cavaliere e il decrepito cavallo si lanciarono all’inseguimento.

Costeggiarono il castello saltando sassi e fossi, al di qua e al di là del ruscello che a un certo punto diventava un rapido fiume, solcato da ponti levatoi. Proprio vicino alla sorgente, la piccola guida si fermò di scatto, di fronte a una bellissima dama bionda.

La giovane si girò, e Parsifal trattenne a stento un grido. Aveva i suoi occhi.

– Chi siete? – gli chiese la fanciulla, turbata, raccogliendosi le vesti sontuose per avvicinarsi.

Sentì la bambina ridere alle sue spalle.

– Non vedi che è tuo padre, mia signora?

E la bambina diventò la dama bianca, si alzò in piedi, lanciò un ultimo bacio a Parsifal che la contemplava sbigottito e svanì nell’aria.

L’uomo e la fanciulla si contemplarono a lungo.

– Padre – riconobbe lei alla fine. – Ti facevo più alto.

Parsifal scese da cavallo, indispettito dal commento, e capì pure di chi era figlia quell’impudente.

– Adesso mi spieghi cosa sia successo, figlia mia. E dov’è tua madre. Devo chiederle perdono.

La ragazza represse un risolino.

– Non è necessario. Prima di tutto, perché mia madre ora è in un posto migliore. E poi, perché ti ha già perdonato da tempo.

E lo prese per mano e gli spiegò.

riverDopo la sua nuova partenza, Biancofiore aveva pianto ancora. Il ruscello era diventato un fiume lungo e solido e lei era diventata quel fiume, dissolvendosi nella spuma delle sue correnti, spogliandosi delle sue vesti e vagando sulle rive solo di notte, per cibarsi di erbe.

Fino alla notte di plenilunio in cui si era accorta di essere rimasta incinta.

Allora era tornata al palazzo, si era seduta alla tavola ormai spoglia e disadorna e aveva ordinato da mangiare.

Il giorno dopo si era recata al mulino e aveva preso a macinare con le sue mani. Osservando la prima farina non aveva creduto ai suoi occhi. Il grano era diventato oro puro.

Biancofiore era divenuta ricchissima. I contadini prosperavano e nella regione era sparita la povertà. La saggezza si era unita alla prosperità e nel regno, giacché la Nostra Eroina era stata proclamata regina, c’era l’abbondanza.

Biancofiore aveva dato alla luce una bella bambina con gli occhi del padre e i suoi capelli biondi, e mai più nella sua vita aveva nominato l’uomo che l’aveva abbandonata per seguire una chimera.

Solo la notte di luna piena in cui era sparita, per fondersi per sempre all’acqua del fiume (“È tempo, figlia mia, ti lascio in buone mani”), aveva detto alla ragazza che Parsifal, un giorno, sarebbe tornato.

Ascoltando quelle parole, Parsifal s’inginocchiò e pianse. Aveva passato una vita a lottare senza mai farsi le giuste domande, inseguito chimere e perso di vista l’amore, che l’aveva sempre aspettato lì accanto, senza mai reclamarlo né pregarlo, come solo l’amore sa fare.

– Non piangere, padre. È stato tutto necessario perché tu e io fossimo qui insieme, ora. Nessuno potrà più separarci.

E infatti nessuno, né Graal né dame bianche, poterono separare il re e sua figlia in quel prospero regno che non esiste più.

running_river__magic_falls_ad4b233da602f879aa877bb87097ed42Il ruscello, poi diventato fiume, sembrò sparire quando secoli più sfarzosi seppellirono sotto la falsa luce della ragione quelle gentili tenebre baciate dalla luna. Ma non era mai scomparso davvero, si era solo inabissato nella terra, inghiottito dalle sue viscere profonde e forti come quelle della donna che l’aveva partorito.

E scorre ancora, stanne certa.

Forse scorre proprio sotto casa tua.

finestradifronteNon ci avevo mai pensato, finché non me le sono trovate di fronte, una sera di fine estate.

Le luci del mio vecchio quartiere, viste da quello nuovo. Quelle al neon del Bagdad, mitico locale porno dove Nou de la Rambla sfocia sul Paralelo.

Avevo passato il pomeriggio a scrivere tesine per un corso sbagliato e, ora che giravo senza meta per prendere un po’ d’aria, il caro vecchio Raval mi salutava così vicino, così lontano, con la promessa di una serata movimentata, se avessi attraversato la strada.

Perché sì, ero dal lato sbagliato. O da quello giusto, mi verrebbe da dire.

Stavolta ero sull’altra sponda del marciapiede, nel mio nuovo barrio di Poble-Sec, a spiare com’era la mia vita prima che osassi attraversare.

Vi è mai capitata, una situazione del genere? Uno di quei momenti in cui contemplate la vostra vecchia vita, direttamente dalla nuova. Mi vengono paragoni cinematografici mai del tutto calzanti. La Mezzogiorno de La finestra di fronte, di Ozpetek, che per la prima volta si osserva dalla casa del vicino, su cui tanto fantasticava. O il momento in cui Arwen, ne Il signore degli anelli, vede se stessa col figlio, che osservandola sembra pregarla di non fuggire, di accettare il suo destino e accettare lui.

Io, semplicemente, vedevo la me di pochi mesi fa, che dopo aver scritto le tesine sbagliate di allora attraversava le luci fluo del Bagdad per “sconfinare” in questo strano quartiere di Poble-Sec, che non sapeva bene se le piacesse.

Quella me era magra, spesso in tuta, si riprendeva da una bella botta sempre uguale e sempre diversa. E allora, appena scoperto un parchetto alle pendici di Montjuïc, andava là con gli anfibi sotto la tuta, la tuta sotto un cappottino leggero, a sperare che non ci fossero bambini sulle altalene per andarci lei.

Viveva sola, e ne era orgogliosa. Non sentiva quanto la paura di stare in compagnia potesse essere forte quanto quella della solitudine, che prendeva in giro negli altri.

Viveva in case squallide, che prima adorava e poi detestava, aveva i capelli lunghi fatti apposta per intrappolarci i sogni, che sognava apposta per non svegliarsi.

Tutt’a un tratto, anche ora, anche da qui, ho pensato che avesse ragione lei. Che quella sbagliata fossi io, con le mie nuove pretese di andare avanti. Con l’illusione che stavolta andrà bene.

Che avrei dovuto restare con lei da quella parte della strada.

Poi mi sono ricordata dove fossi, e chi fossi ora, e sono andata avanti.