Archivio degli articoli con tag: Capodanno
Fotos de Rayos de sol de stock, Rayos de sol imágenes libres de derechos |  Depositphotos®

Bam! Il primo gennaio mi si scassa il computer. O meglio, la batteria non si carica più.

Sarà stata l’acqua rovesciata da Archie a San Silvestro? Il bicchiere era a un chilometro e mezzo dal portatile, ma la mia ciorta non si fa spaventare da queste quisquilie, specie ora che devo consegnare cinque saggetti in inglese entro il 10 gennaio, per il master in psicologia, e il 31 mi scade un concorso letterario, in cui mi menerò a kamikaze con Angelina: sono prontissima! Ancora devo finire la prima bozza.

Capirete che l’amena scoperta del computer scarico veniva da me accolta con la consueta sobrietà e pazienza zen (i vicini possono confermare, specie per il salmodiare in sanscrito). D’altronde vi ho parlato spesso della mia difficoltà ad accettare di non avere il controllo della situazione, e l’anno è iniziato con la sensazione che non controllavo una ceppa di niente. I sostituti di Cristobal ancora non avevano trovato una casa: che facevo, li mandavo in strada? D’altronde i casi di covid aumentavano, quindi gli ospiti che sarebbero dovuti subentrare ai ragazzi erano in forse.

E poi, di primo gennaio dove lo trovavo un servizio assistenza per il PC? (No, non funzionava neanche la chat dell’applicazione). E il giorno dopo sarebbe stata domenica… Non potevo nemmeno rallegrarmi della pausa lavorativa per tante persone sottopagate, perché bastava uscire di casa per trovare un negozio di scemenze aperto in vista dei Magi.

Al che, dopo un pianterello inaugurale del 2022, ho eseguito due azioni molto strane: 1) ho “fonato” di nuovo il computer dal lato della batteria, come già avevo fatto la sera prima; 2) ho sbagliato a inserire il caricatore, attaccandolo a una porta laterale che non avevo mai usato prima.

Ci credereste? Funzionava come nuovo! Il mio master era salvo, e Angelina era sempre una ciofeca, ma in fondo avete mai letto le prime bozze di Proust? No, erano fantastiche lo stesso, lasciamo perdere.

Almeno permettetemi di correggermi sulla questione “cose che non controlliamo”, dopo anni che il mio pippone sul blog si riassumeva con: “Non puoi farci niente: accettalo e farai spazio per pensare ad altro”.

Invece, il mio pimpante inizio anno mi ha insegnato che:

  • A volte sì che possiamo farci qualcosa, tipo sbagliare porta sul pc. Ma sono rimedi così a cazzo di cane che è inutile anche provare a congegnarli. Meglio aspettare l’ispirazione, o direttamente la botta di culo.
  • In ogni caso, non è vero che non possiamo farci niente: possiamo fare, appunto, tutto il resto.

Tutto il resto delle cose, intendo. Nel mio caso, ho mandato il pc a fa’ un bagno (stavolta metaforico), e sono uscita a godermi un sole miracoloso, nell’ora d’aria concessami dalle circostanze.

Al ritorno mi ero un po’ arripigliata e, senza neanche drogarmi, mi sono cimentata nelle soluzioni improbabili di cui sopra.

Riassumendo: avete questioni che sfuggono al vostro controllo? Mandatele a quel paese e fate tutto il resto. A quel punto le stronze sono capacissime di risolversi da sole.

Buon 2022 anche a loro!

Pubblicità
Apri foto

Dai, per fine anno vi regalo un po’ di cose.

Magari già conoscete questa pagina: in tal caso la inoltrerete negli auguri di fine anno, come il regalo che le nostre mamme si passano in un (ri)ciclo infinito, finché non ritorna a quella che l’aveva fatto all’inizio.

Se non conoscevate la pagina, fatene buon uso. A me l’ha fatta scoprire indirettamente Vera Gheno, e le sarò grata a vita.

Per il resto, non posso fare bilanci perché sono tornata a Barcellona e, sul serio, tra variante omicron e strade infestate a ogni ora, non ricordavo nemmeno che giorno fosse.

Diciamo che metto la foto qui sopra, come promemoria di ciò che voglio cambiare: negli ultimi mesi intravedevo dal mio salottino questo tramonto sfocato tra i tetti, ma tra una cosa e l’altra non uscivo mai in tempo per godermelo. Pensavo a riempire la ciotola di Archie (sacrosanto), a cercarmi calzini che non fossero bucati (mission impossible), perfino a sciacquare il cucchiaino del tè (chi, io?). Sembrava lo facessi apposta. Forse è proprio così.

Comunque sia, voglio smettere.

Se proprio mi posso permettere, per l’anno prossimo vi auguro bei tramonti, e il proposito di viverli in tempo.

Per il momento, vi regalo i miei.

Apri foto
Nessuna descrizione disponibile.
Nessuna descrizione disponibile.

Nessun testo alternativo automatico disponibile. Con voi che mi leggete (grazie!) la buona azione di Natale la faccio ogni giorno: non mi lamento. Non vi confesso quanto schifi anch’io l’inverno, fosse solo per gli strati su strati che devo frapporre tra me e le mie braccia: infatti aspetto con ansia l’invenzione di una “bolla termica” isolante, che mi faccia andare in giro nuda a dicembre, e già che ci siamo m’impedisca di baciare mezzo mondo a Natale… Ah, ecco, per esempio: cerco di non stracciarvi troppo le gonadi su quanto schifi le feste! Ma dalla lettura di vari post ho scoperto che noi migranti, e in particolare noi terroni fuori sede, non siamo sinceri su questo punto! Ovvio che devono piacerci le seguenti cose:

  • la nonna che scodella struffoli ogni minuto! Anche se mia nonna si prendeva in giro da sola su quanto cucinasse male;
  • ingozzarci di specialità risalenti a un periodo in cui questo avevamo, e questo cucinavamo (e perfino Alessandro Siani è d’accordo con me);
  • parenti e amici di famiglia (ma quelli sono universali) che ci fanno “bonariamente” tutte quelle domande ottuse sulla nostra vita privata, invece di farsi i fatti loro.

È per questo che, dichiarandomi fedele seguace di Pulecenella e di Funiculì Funiculà (che spiegava a Troisi che Napule nun adda cagna’), propongo alle donne in ascolto un giochino per far fronte a quest’ultima piaga. Tradurremo liberamente i “botta e risposta” in catalano dell’immagine postata, omettendo quelli che mi sembrano meno divertenti. In corsivo scriverò le mie risposte alternative. Attendo le vostre!

Ancora non sei sposata? 

  1. No, vado di fiore in fiore.
  2. No: non ho né marito, né figli, né voglia di ascoltarti.
  3. No, ma ti prometto che stasera vado allo struscio solo per rimediare.

Ma vieni conciata così al pranzo di Natale?

  1. Ma vieni a rompere le semenzelle anche al pranzo di Natale? (Ok, questa traduzione era molto libera.)
  2. Dici che faccio ancora in tempo per un look gotico?
  3. Eh, col freddo che fa qua dentro, in minigonna e calze a rete non potevo. Ma gli infissi ve li ha montati il nonno di Garibaldi?

Non dire questo a papà / a nonno / a [amico fascio di nonno] perché si arrabbia…

  1. Veramente? E pensare che qua fuori c’è un esercito di femministe armate di torce e forbici tagliapene che aspetta solo che dica: “Al mio segnale, scatenate…”.
  2. (Starnuto) Scusa, è che sono allergica ai commenti di merda.
  3. Sarò muta come un pesce! (Caccio la lavagnetta e i colori e gli vado a fare un disegnino.)

E quando avrai dei figli? Guarda che non fai in tempo, perdi il treno!

  1. Li avrò per quando avrai smesso di chiedermelo.
  2. Non ho bisogno di figli, mi occupo già di tutte le domande che nessuno ti ha richiesto stasera.
  3. Anche i tuoi neuroni non hanno fatto in tempo, eppure sei qui.

Dici così perché sei giovane…

  1. Tranqui, dirò la stessa cosa quando avrò la tua età.
  2. Dici così perché sei vecchio (o vecchia).
  3. Dici così perché non hai un cazzo da fare.

Ma che ci hai, il ciclo?

  1. Sì. Vuoi vedere?
  2. No, sono in menopausa, ricordi? Ho perso il treno!
  3. In effetti ho bollito la coppetta mestruale nella pentola della minestra. Era buona, vero?

Se non sanno cosa sia una coppetta mestruale (d’altronde in certi ambienti anche il Tampax è visto con sospetto) riprenderei la lavagna del disegnino. In ogni caso, anche senza la corrispettiva domanda, mi terrei l’ultima rivelazione per quando comincia la tombola. Così, almeno quest’anno, non sentiremo lo zio simpatico dichiarare “Ambo!” al primo numero.

 

L'immagine può contenere: cibo

La Parlata Igniorante supera se stessa! https://www.facebook.com/laparlataigniorante/

Allora, a Capodanno a Barcellona si va in piazza con dodici acini d’uva e si aspettano i rintocchi della mezzanotte.

A ogni rintocco s’ingoia un acino (sì, uno per mese). Chi lo fa ogni anno mi giura che finisce con la bocca piena d’uva, e va in giro sputando semini.

Io ve l’ho detto, così dal prossimo Natale mi venite a trovare voi: se ogni anno devo venire al paesone per ammalarmi, grazie ma ho altri progetti per le feste.

Però chi sta da una settimana tra le stesse quattro mura ha tanto tempo per fare riflessioni sceme, e una è sul dolore. Considerata l’importanza di tali quattro mura nella mia storia personale, mi sto riferendo a tutto il dolore possibile: da quello per l’ultimo torroncino papabile che ti fa sparire tua cugina, a quello perché la casa di sotto è disabitata da un po’, ormai.

Sul dolore sono noiosa, penso sempre che la via più efficace sia conviverci. Grazie al ca’, direte voi, ma ad arrivarci ce ne vuole. Avete presente da bambini, quando seduti a tavola al cenone simulavamo noncuranza dopo aver ricevuto un roccocò nelle gengive da nostra sorella? (Basta con le armi bianche, proibiamo i roccocò). Ecco, in quei casi quanto ci mettevamo ad abbandonare tutto l’aplomb inglese per metterci a frignare senza ritegno?

E invece nelle feste il dolore deve avere un posto speciale, secondo me: quello defilato ma fisso del parente non invitato che tanto a tavola si siede lo stesso. Come la pietruzza nel cappelletto di altri Natali più nordici, che si lasciava lì a ricordare che la festa prima o poi finisce e torna il dolore (poi dice che siamo un popolo sadico).

Ecco, funzionerebbe così con tutto, e il Natale è la tipica festa caciarona, cafona qb e lunga a sufficienza da ricordarselo.

Allora, ci vediamo Una poltrona per due e salutiamo col pensiero quello stronzo del capo, che non ci ha detto se a gennaio ci rinnovava il contratto o no.

Litighiamo per chi debba scendere a ritirare il pacco spedito da zia Cassandra, e intanto salutiamo via il secondo anno passato senza riuscire a farci il mutuo.

Guardiamo la bambola di nostra nipote e ci chiediamo se sia poi così saggio metterle in mano solo bambole, e solo a lei, che magari da grande si sente menomata se non ne fa una in carne e ossa, e metti che viene pure un’altra crisi, oppure ancora non si è trovata la quadratura del cerchio tra smettere di seguire le tradizioni e sposarsi con le bambole gonfiabili.

Un giorno la troveremo, però. La quadratura del cerchio, o la ricetta degli struffoli perfetti.

Sarà più facile trovare il guanto destro che zia Gioconda ha fatto a Michelino, perso a un certo punto tra il terzo secondo e il quarto contorno.

Ma vedrete che uno di questi Natali salta fuori anche quello.

L’anno l’ho chiuso bene, ma mi sentivo irrequieta. Era come se fossi capace di divertirmi, abbuffarmi, arrabbiarmi pure, ma non di starmene tranquilla da qualche parte a godermi tutto questo.

Sarà lo stress da 2012 che se ne va, importante ma di passaggio, un punto interrogativo tra i calendari che metti in ripostiglio invece di buttarli, perché le illustrazioni sono belle.

Oppure i miei due tarli di sempre, acuiti da ricorrenze tipo primo dell’anno:

– quello ansiogeno da TSO, tipo adesso pare che va tutto bene, ma appena ti distrai crolla la casa e l’unica cosa che si salva sarà quella ciofeca di regalo di zia Palmina, che se ti sopravvive quello vuol dire che hai proprio fallito;

– quello della bambina dispotica che ero un tempo e che ogni tanto mi ricorda che sto in ritardo sulla tabella di marcia: non ho ancora vinto il Nobel e Johnny Depp è ancora single.

Per non sentirli più mi sono messa a guardare il tramonto dalle fessure della persiana, poi mi sono detta perché non alzarla, poi perché non uscire sul balcone (specie se consideriamo che la vicina era rientrata e non dovevo fare gli auguri).

Mi piace molto, il tramonto dalla mia stanza. A volte sospendevo i compiti per scriverci favole, con mia madre che faceva la croce a smerza. Mi piace il contrasto tra i toni arancio, affumicati dall’umidità, e i casoni di provincia con le soffitte abusive. Mettici quel poco di verde che consentono i cortili, e manca solo il canto di un uccello.

E prontamente se ne materializza uno sull’albero all’orizzonte, tra le foglie nere nell’ultimo sole.

Ecco, adesso sto bene. E con sorpresa, io che da anni amo le grandi città con buona pace di Marcovaldo, scopro che mi piace l’orticello di una vicina che non conosco, e i due alberi che sopravvivono tra il mio giardino e quello di fronte. Che una cosa tranquilla con uccellini e tutto non mi dispiacerebbe troppo. E se avessi una figlia che interrompesse i compiti per godersi sto tramonto non mi farei la croce a smerza.

E a proposito di croce, suona la campana. La messa del primo dell’anno.

In effetti nella mia cultura quello che sento ora si convoglia nel pensiero di Dio, se no resta incandescente come il tramonto trafitto dalle antenne.

E stavolta addirittura potrei seguirlo, il richiamo della campana, a costo di far venire un infarto a nonna che ormai mi crede Satana.

Ma poi decido di farla campare altri 100 anni, che per il Dio che vedo adesso non fa differenza.

Che è dappertutto, pure sui balconi.

Che l’uccello che adesso passa dall’albero a un antennone alto che non capisco manco cos’è, che per fortuna nelle favole non esce mai, quel pennuto testardo che non smette di cantare ora è Dio pure lui.

Oreste– Ma veramente sai tutto il testo? – la ciaccara si stacca un momento dal gruppo che intona con Oreste ‘O tiempo se ne va.

Le sorrido:

– È il riassunto della mia vita.

Ho chiuso l’anno in bellezza col Piricioccola Show, “rilettura in chiave Rock, Punk, Surf, Afro-Beat, Cubana, Brazil, Dance, Electro del repertorio neomelodico napoletano e trash italiano a sfondo metaforico-sessuale”. E mi pare giusto dedicargli il primo pensiero del 2013, per la serie “il buon anno si vede dal mattino”.

D’altronde, voglio dire, al primo spettacolo, 7 anni fa al Jarmusch, io c’ero. Presi apposta l’aereo da Manchester.

E c’ero pure alla prima trasferta, a Roma. Allora l’aereo lo presi da Barcellona.

So’ soddisfazioni.

Quindi, da brava crupie, ieri all’Officina del Seggio, prima di strafogare, mi toccavano Oreste, Braccione, Costantino, Luciano, e una vrangata di niu entris che non conoscevo. Come un grande Michele Picone, vestito da ricuttaro (piacere, Miche’, scusa ‘a cunferenza), che al ritorno dal bagno si mette a ballare sul tavolo. E quello che suonava sto tamburello, che per esempio potevano pure presentarmi. Per esempio.

Ma come già annunciato su feisbucc c’era una guest star, nel firmamento degli artisti storpiati in salsa cubana: direttamente da Gomorra, comincia per A e finisce per O… Insomma, dopo avermene mandata, che a mezz’ora dall’inizio annunciato (15.15) stavano ancora a fare le prove, al ritorno mi hanno fatto trovare Alessio, featuring OMD, A-Ha, e nun m’arrecordo cchiù, perché ero intenta a mangiarmi il limone intero della Coca Cola senza che nessuno mi notasse.

Ma tanto, tutti gli occhi erano per il bel cantante, che a un certo punto mi deve guardare per ricordarsi il testo del Parco dell’amore. L’importante è che il Medley di Gigione/Jo Donatello sia stato servito completo di carcioffola e gelatino. Il nostro pensiero va a tutta quella gente che soffre e combatte quotidianamente per la libertà.

Il Nord era già stato omaggiato con le sue sbarbine, che noi non siamo razzisti, e tra una citazione e l’altra i nostri riescono a scassare un piatto della batteria.

Ma il coro di ciaccare de La Piricioccola, dov’è finito? Non possiamo accettare questa chiusura, e allora all’umanità invochiamo gli Squallor di cui sopra. Che tardano un po’ per il semplice motivo che la band di sfasulati aveva già sciarmato.

Si chiude con un dramma domestico pari a quelli che ci aspettavano a tavola, tra ‘nzalata ‘e rinforzo e il capitone astipato da Natale. Non prima che i nostri artisti, da brave personcine laureate in Lettere, ci facciano notare che Lorenzo il Magnifico, tamarro fiorentino d’altri tempi, l’aveva detto qualche anno prima degli Squallor: “chi vuol esser lieto sia/del doman non v’è certezza“.

E in effetti la mia giovinezza s’è fuggita tuttavia tra questi vichi di Aversa, e lo rivendico con orgoglio.

Vi aspetto a Barcellona, ciaccari.

(qua ci provo anch’io)

A tavola c’è la simpatica usanza che al posto dei morti mi siedo io.

Intendiamoci, non lo fanno apposta. Quando sto in Italia la mensa domenicale mi vede itinerante, magari seduta alla destra del padre, sempre col poggiabicchieri blu che quando parto mamma mette nel mobile in alto in cucina, per non vederlo.

Però, quando qualcuno dei commensali ci lascia, i primi tempi al posto suo ci finisce una a caso. Così, quando la badante di nonna si è aggiunta alla cena di Natale, eccomi all’altro capo della tavola, posto storico della zia. Che in un pranzo di famiglia a Napoli sarà l’unico modo per finirci se sei femmina e sotto i 70. È vero che da me non ci formalizziamo, ma guarda un po’, tutti gli schieramenti intorno al tavolo di Natale/Capodanno, compresi il 5-5-5 e il modulo a farfalla (in genere al salmone) non sono mai venuti meno alla tradizione.

Per mamma, poverina, fa lo stesso. Lei con una mano governa qualcosa di molto grasso in pentola, con un’altra gira la pasta, con un’altra prepara l’insalata, e con un’altra raccoglie la caraffa di vino fetido, “fatto con l’uva e col cuore”, appena rovesciata da mio padre con buona pace dell’avvelenatore che gliel’ha regalato. Certe mamme napoletane sono delle divinità indù!

Mia nonna, invece, è un caso più unico che raro: non solo odia cucinare, ma odia mangiare. Che le nonne cucinassero bene l’ho scoperto a 20 anni, parlando con degli amici sbalorditi, “Perché, la tua no?”. No. La mia insegnava e badava a 3 figli con un marito meraviglioso, che però aveva la stessa propensione al lavoro domestico dei suoi coetanei degli anni ’50. Durante la guerra, piuttosto che mangiare la polvere di piselli, moriva di fame. Per la verità ha rimosso completamente viveri e gesta dei ‘mericani, mentre la casta zia del posto a tavola, che ricordiamo ancora come ‘a signurina, li ricordava sospettosamente come belli guagliune (definizione che per lei andava accompagnata almeno a 100 kg di peso per 1 metro e 70, quindi tremo al pensiero).

Ma a tavola i ‘mericani li vediamo al massimo in TV, che abbiamo questa brutta abitudine di lasciarla accesa. Ma è uno spettacolo la linea gotica che si crea tra mio padre e i suoi pargoli, interessati a TG e affini (con papà che chiede chiarimenti impedendoci di ascoltare e rispondergli), e mamma che non perde mai di vista il principale scopo della giornata: abbuffarci come maiali.

– Io dico che Berlusconi non muore nel suo letto, quello scappa alle Caiman, come fece il suo mentore con la Tunisia
‘O vuo’ ‘nu poco ‘e salamino?

– Uh, che bello, c’è lo speciale su Buscaglione!

Ed ecco mamma gettata tipo quarterback verso il nostro lato della tavola, coprendoci il meglio della canzone solo per dare a nonna un mandarino.
Ma non la batterà mai. Premurosa riferito a nonna è un eufemismo. Chi di solito si siede al suo fianco (indovinate un po’…), si vedrà offrire una decina di volte il parmigiano, poi il pane, poi la frutta.

– Ma non ti piace proprio, la frutta?
– No.
– Eh, a te non piace mai niente!

Detto da una per cui devi cucinare senza cipolla, senza pepe, senza spezie, e che ritiene che il secondo piatto sia la scarpetta nel sugo, è un rimprovero originale. Mio fratello mi sfotte: “Maria, noto un tono irrispettoso che non mi piace”. Lui è un santo. Io a volte, per vendetta, le farei mangiare una genovese.

– Ma Buscaglione è muorto?
– Sì, nonna. Da 50 anni.

Lei invece canta canzoni che ho ritrovato solo grazie a youtube (le uniche che dal mio PC vedo senza lo spot spagnolo di Activia). Titoli allegri e spensierati tipo Buongiorno tristezza e Torna piccina, il cui incipit mi accompagnerà sempre: “nella mia vita triste e senza sole, tutto svanisce e nulla mi sorride più”.

Infatti papà fa da anni la gag di guardarmi e sorridere: “Che ne vulive spera‘”. Insomma, come volevo uscire sana di mente.

Solo con me da piccola la nonna si faceva allegra, dedicandomi Parlami d’amore Mariù. Che quando ascoltai Mio fratello è figlio unico per la prima volta, sparato nel lettore CD di un amico, capii “e ti amo Mario“. E in un raro momento di saggezza mi chiesi che ci azzeccasse.

Ma era sempre stato Mariù.

(un’omonima che nonna non approverebbe)

A volte il treno ti ferma senza preavviso in stazioni che non ricordi.

Ma ricordi quando ci passavi fuori.

Io ricordo una mattina d’inverno, durante le feste, come ora. Ma diversi anni fa, un inverno vero.

Un incontro di lavoro, se così si può dire, se si può chiamare lavoro quello che a 20 anni è passione. E infatti l’incontro era con amici, e c’era anche una coppia.

Anch’io ero fidanzata, ma le cose andavano male.

La coppia partecipava ai discorsi, alle decisioni da prendere, ai sistemi per raccogliere fondi.

E a un certo punto mi resi conto che avevano i piedi intrecciati, il destro di lui al sinistro di lei. Mi avrebbe anche fatto tenerezza, se non mi avesse ucciso.

Ma a quei tempi amavo morire di morte lenta.

E al ritorno, nella mia Micra scassata, blu per me e i giapponesi, viola per il resto del mondo, l’autoradio difettoso mi propose una canzone che non avrei scelto, un successo di quell’anno che trovavo sdolcinato.

E allora per tre minuti, solo tre minuti lasciai che qualcuno gridasse al mondo, per conto mio, che avrei lasciato tutto quello che avevo, da vera egoista e sconsiderata e cattiva amica, e sognatrice ridicola, senza speranza. Ma avrei lasciato tutto per essere per lui come neve, quella che dalle mie parti non cade mai se non metaforicamente, e a volte farebbe bene a cadere.

E invece ci sono questi inverni che sembrano sempre più primavere, signora mia, così il cuore non ti si gela mai davvero, resta sempre ghiacciato a metà, e l’altra ridotta in cenere.

Ma erano i miei 3 minuti e i miei 20 anni.

Ed è quasi comico che mentre scrivessi mi contattasse a sorpresa quello della neve, a ricordarmi che ho ancora freddo, ma si è sciolta da tempo.

E sotto c’ero io.