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Why don’t you do right, eh?

Busta 1: la mia ex padrona di casa mi ha versato finalmente l’ultima parte della caparra. Se ricordate, mi reclamava una griglia da forno, mai vista nei tre anni in quella casa. Dal suo punto di vista erano fatti miei se, al momento d’installarmi lì, non avevo cacciato la testa nel forno a controllare che ci fosse tutto. Devo dire che ha avuto la costanza d’informarsi su quanto costasse il ricambio originale, e la bontà di concludere che quaranta euro fossero un po’ troppi. Soluzione finale: insieme alle ultime bollette, mi chiedeva “dieci euro per una griglia nuova”. L’accendiamo, ho detto subito. Accendi lei, mi hanno detto da casa, nel senso di “dalle fuoco”: davvero mi ha tenuta in sospeso per mesi, per dieci miseri euro?

Busta 2: il mio ex inquilino (quello della casa che ho venduto) non aveva pagato l’ultima bolletta dell’elettricità. In effetti sembrava anomala (era un conguaglio), ma la vera ragione me l’ha confessata solo ora: non aveva i soldi per una cifra simile. Fatto sta che i nuovi proprietari non erano tenuti a intestarsi le utenze con un debito in sospeso – che è l’opzione che ho adottato io per casa nuova, per poi chiedere un risarcimento presto accordato: ma, appunto, è un’opzione. Risultato? L’altro giorno la compagnia elettrica mi chiedeva non solo la bolletta non pagata, ma anche due mesi di fatture dei nuovi proprietari (svaniti nel nulla). L’ex inquilino, che in fin dei conti aveva contribuito a cacciarmi in quel guaio, mi martellava con i suoi “non è giusto che paghi io anche quello”, forse perché era di nuovo, mo’ ci vuole, “in bolletta”. Allora ho deciso di: anticipargli io la cifra che dovrebbero pagare i nuovi proprietari; andare a stanare questi ultimi in tuta mimetica e pugnali alla Rambo.

E voi come scegliereste di comportarvi: busta 1 o busta 2? O, per dirla come mia madre, preferite un ” ‘ccà nisciuno è fesso”, o un “questo e niente è una cosa”? Per me, ormai, entrambe le buste sono legittime.

So che non è del tutto una questione culturale, o non esisterebbe la catalana che mi ha offerto il pranzo cinque anni fa, e ancora non vuole che io ricambi. O il “bidello” della biblioteca universitaria a Napoli, che mi confessava che lui, al posto mio, avrebbe preteso fino all’ultimo centesimo dei trenta che mi aveva mangiato la macchina delle fotocopie.

Credo sia un misto d’influenze culturali e di scelte personali: nel mio primo mese a Barcellona, presi al volo al supermercato un carrello di quelli con l’euro dentro, da una tizia che me l’offriva impaziente. Era un modello di carrelli meno numeroso, per recuperare l’euro c’era forse da aspettare un po’. Quando cercai di sbolognarlo a mia volta a un gruppo di autoctoni, donna con bambino e padre di lei, il signore cacciò subito la moneta per me, ma la figlia scosse la testa: “Chiedi alla cassiera, scusa!”. Allora la ringraziai caldamente e le lasciai il carrello con l’euro dentro, resistendo alla tentazione di mettergliene altri due in mano: tie’, comprati una vita. Adesso, invece, la capisco: non era tenuta a rischiare di perdere un euro, per la mia impazienza di andarmene.

“Perché dovrei buttare anche solo un centesimo per i problemi altrui?”.

Dieci anni dopo, resta una domanda a risposta aperta.

La mia, di risposta, continua a essere: perché preferisco vivere.

 

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Odio postare nomi reali, ma la tipa coreana che mi vendeva casa si chiamava Jin Young Moon: indovinate cos’è diventata in bocca al notaio, il giorno della firma.

Che poi era una notaia, e ha fatto pure una pausa comica quando ha letto che di mestiere facessi la scrittrice. Un omaggio scherzoso dell’amico avvocato che ha fornito i miei dati.

Uscendo da lì con le chiavi in borsa, ho scritto al mio coinquilino preferito (l’unico): “Comprato”.

Poi mi sono girata due banche, una sbagliata e una no, per estinguere un mutuo. E già che c’ero ho fatto una capatina a… casa nuova.

Si erano portati il frigorifero.

Avevamo litigato in due puntate, e si erano portati il frigorifero.

Il maltolto è poi stato riportato che ero già arrivata a casa vecchia, altra corsa per tornare indietro.

Ho finito di trottare alle cinque del pomeriggio, e sono morta sul divano di casa vecchia: certe cose ho scoperto che o si fanno in coppia, o in famiglia. Io, si diceva, mi sono ritrovata per la seconda volta a farle da sola, circondata da gente che non le capiva.

Infatti sono andata in bagno e ho scoperto che mancava il dentifricio.

“Ma non avevi fatto la spesa?” ho buttato una voce in corridoio.

“Mi hai scritto che l’avevi comprato” è stata la risposta.

“L’appartamento, non il dentifricio”.

Ieri mi sono alzata dal letto con la voglia di essere a casa nuova.

I cambiamenti radicali spaventano, specie se “scappi” da una vita accogliente, di quel tranquillo che se non stai attenta si fa stagnante. La mia bella vita stagnante mi manteneva serena tra i suoi libri di testo e i tè costosi, e le porte chiuse, che ad aprirle sapevo già, più o meno, cosa trovarci.

Ma poi è un momento. Natalie Portman, nel – pretenziosetto – Closer, dice che c’è sempre un momento in cui puoi resistere, prima di entrare nella deriva che ti porterà al tradimento. Oppure cedi.

Succede anche con la vita in generale.

E ieri mattina, alzandomi dal letto, ho sentito il momento: la nostalgia impossibile del soggiorno che non ho ancora vissuto, delle presentazioni del libro ancora da fare, delle nuove città che non ho mai visitato.

Solo allora mi sono detta:

“Quando cominciamo?”.

Image result for truck moving furniture Ho traslocato con due settimane d’anticipo, e cinque anni di ritardo.

Ho traslocato con i colpi di scena del caso:

  • la scoperta che il tizio del furgone avrebbe solo, appunto, guidato il furgone, e la contestuale salita di quattro piani sostenendo la rete di un materasso;
  • l’azzoppamento improvviso del tuttofare di fiducia, che ha cominciato a guardare con terrore chi gli aveva sbattuto una lavatrice sul piede, ma non per questo si è lasciato aiutare da me;
  • l’attesa di un carrello in una piazzetta trafficata di Barcellona, circondata da lampade e materassi, intanto che al cellulare pubblicavo libri, organizzavo riunioni e provavo a salvare il mondo, con scarsi risultati.

Insomma, normale amministrazione.

E poi oh, si diceva che ho traslocato con due settimane di anticipo, come risultato di una trattativa coi cocciuti proprietari di casa nuova. Ma tanto ero in ritardo di cinque anni, perché da quella casa che svuotavo ventiquattr’ore prima di venderla non avevo mai traslocato davvero.

A suo tempo ero scappata a gambe levate, lasciando le mie cose a un inquilino contento di non dover comprare mobili.

Così adesso mi aggiravo per stanze deserte e sporchissime (“Almeno buttate la spazzatura!” ordinavo su WhatsApp agli ex occupanti) e spiegavo cose al mio aiutante, uno di quelli che puoi ripagare con una pizza. Dopo tanti anni a descriverglielo, era la prima volta che gli mostravo quel pasticcio di posto.

“Qui è dove dormivi?”.

“No, qui è dove guardavo film e piangevo. Lì è dove sono rimasta chiusa fuori una notte di gennaio. Il pompiere che mi ha liberato è entrato da quest’altro balcone”.

Tra i libri trascurabili che ho lasciato lì, in balia dei nuovi proprietari, la scoperta più tenera è stata un trattatello su un disturbo psichico, non troppo grave ma fastidioso, che a quei tempi stavo cercando di comprendere. Ho sorriso attraverso il tempo alla me che aveva comprato il libro. Quella sindrome ce l’aveva la persona che, mentre m’installavo in quella casa spettrale, mi aveva mollata senza dirmelo, anche perché non avrebbe ammesso neanche sotto tortura che stessimo insieme.

Ho scoperto che quella dell’uomo che ti lascia mentre compri casa è un’altra sindrome interessante, più comune di quanto mi piacerebbe ammettere.

Ho scoperto anche, in questi anni, che a volte le verità sono semplici e banali come quelle che leggi nella posta del cuore:

  • non salverai mai chi non vuole farsi salvare;
  • chi non ti vuole, non ti può volere.

Allora intanto ho imparato ad aiutare gli altri nel modo più “sano” possibile: trovandogli un lavoro. Hanno ricambiato spesso con lo stesso toccasana.

Anche da queste cose noto che i traslochi, ogni tanto, fanno bene.

Perfino quelli che avvengono troppo presto, o troppo tardi.