Grazi (sic) per il libro. Tu non troverai niente al risveglio, ma… in un luogo fresco, in cui a volte si conservano elastici e caramelle, scoprirai cose belle e rinfrescanti.”
Il frigorifero. La soluzione all’enigma inviato per WhatsApp era “il frigorifero”: ogni tanto, il compagno di quarantena ci nasconde le sorpresine più assurde. Certo, non uguaglierà mai il suo connazionale Kit Harington, che ha fatto trovare all’attuale moglie una testa mozzata, infilata tra un’arancia e il vasetto del burro. Ma quello era un pesce d’aprile, mentre oggi è Sant Jordi: dunque, oggi mi toccavano un libro e una rosa.
Mi spiace pure un po’: la rosa gli sarà costata più del libro (che già aveva, l’ho riconosciuto!), ma dev’essere sceso in fretta a comprarla stamane, quando ha visto che, sullo zaino con cui esce al mattino, gli avevo lasciato la versione inglese del Piccolo Principe. Chi minchia regala Il Piccolo Principe a un trentenne inglese? Appunto. L’ho fatto proprio perché voleva essere un simbolo, visto che lui mi aveva confessato di non aver mai letto l’opera: era giusto per non far passare inosservata la ricorrenza.
Già, perché questo è il secondo Sant Jordi “strano”: mai come quello dell’anno scorso, che si è tenuto a luglio, ma comunque… Vi ho già spiegato le mille variabili del vero San Valentino catalano: fanculo al libro per gli uomini e la rosa per le donne, facciamolo al contrario, anzi, facciamo entrambi i regali a chiunque! Oppure, fanculo alla leggenda di San Giorgio che ammazza il drago per liberare la principessa: in realtà è stata la principessa a stecchire ‘sto santo inopportuno, magari per salvare il povero draghetto. Anzi, Sant Jordi in realtà era Santa Jordina. Macché, facciamo così: stanca di principi azzurri stinti, la principessa si avvicinò al drago e gli chiese, “Hai da accendere?“. E vissero felici e mangiarono pernici… anzi, no, mangiarono ceci! La tipica rima iberica che conclude le fiabe è stata stravolta così, proprio oggi, da una pagina vegana.
Perché vivo in un posto in cui, nonostante gli alti e bassi e i problemi enormi, il finale si può sempre riscrivere. Buone notizie: è una caratteristica esportabile.
A proposito di pagine vegane, infatti, leggo solo oggi che Carlotta di Cucina Botanica, la mia spacciatrice di ricette vegetali in italiano, festeggia il mezzo milione di utenti che la seguono. Solo due anni fa, ricorda lei, la sfottevano in paranza per la sua scelta etica. Adesso, invece, è la più seguita in Italia nel suo genere! E, se ho capito bene, lei viene dal mondo della moda: che modo fantastico di riscriversi!
E voi, avete in mente qualche colpo di scena per la vostra vita? Magari uno che sia più felice di quelli imposti da una pandemia. Sant Jordi si è dovuto reinventare in continuazione: durante il franchismo è stato privato di libri in catalano, e il primo anno di pandemia è stato posticipato alla stagione delle ciliegie. Quest’anno festeggeremo in mascherina, ma il nostro santo preferito è ancora qui ad aspettare un’altra riscrittura, un nuovo finale. Mentre scrivo queste righe, là fuori stanno acquistando per l’ennesima volta il romanzo di Montse Roig che mi ha ispirato il personaggio di Pepita, e che racconta di quando le spagnole dovevano andare ad abortire a Londra. E noi lo leggiamo ancora, il 23 aprile del 2021, per assicurarci che non succeda mai più. Né in Catalogna, né in Italia. Ma non guardiamo solo alle cose brutte: qui vanno forte anche i libri di Noemí Casquet! Perfino a me, che sono monogama di fatto, sembra interessante valutare il poliamore come alternativa al ritrito “ancora non ho trovato la persona giusta“, specie se non ci viene spontaneo vivere una relazione senza abbuffare di corna il prossimo!
Ho intravisto anche un libro che mette a confronto l’indipendentismo catalano e quello scozzese, ma non oso regalarlo a nessuno, o alla prossima occasione mondana (prima o poi ce ne sarà pure una!) voleranno bicchieri di Brugal o di Macallan, che costa pure assai. Di fatto, però, questa e altre questioni sono sempre sul piatto, nella mia terra d’adozione: una terra, ripeto, in cui ho trovato lo stimolo costante a riscrivere la mia vita, a cambiarla quando mi è sembrato necessario. Senza le paure che avrei avuto altrove, dove i condizionamenti sociali sono più forti.
Riscriviamoci, dunque, se ci sembra utile e giusto. Rifiutiamo una volta per tutte di liquidare il cambiamento con un trito: si è sempre fatto così.
Sì, è vero, si è sempre fatto così. Fino al giorno in cui non si è fatto più.
Sì, sono stata un genio a scendere di casa con il cellulare scarico. Ma pensavo che la manifestazione di lunedì scorso, convocata da Arran (giovani indepe radicali) contro l’adozione del coprifuoco in Catalogna, si risolvesse in dieci minuti di slogan per l’indipendenza catalana.
Urca se mi sbagliavo. A parte il fatto che la piazza era pienotta (un giornale che disapprovava ha parlato di duecento persone, ma non so da quale momento contassero), c’erano rivendicazioni molto precise, scritte sullo striscione che apriva il corteo… ehi, che corteo? Non era previsto! Oddio, ma si stavano muovendo in direzione dell’auto della Guardia Urbana parcheggiata sul carrer de Jaume I…
Vabbè, che ve lo dico a fare: a distanza (ma tanto i manifestanti camminavano per gruppetti, con la mascherina addosso) li ho seguiti anche io. Ci trasferivano dal palazzo della Generalitat de Catalunya al quartiere del Born: che allegria! A me fa un po’ paura quando le manifestazioni si inoltrano in queste stradine del centro, perché le volanti non ci mettono niente a circondarci. Una volta, nel Raval, ci chiusero proprio in un rettangolo di qualche chilometro quadrato: avevamo l’illusione di poterci muovere a nostro piacimento, e dopo un centinaio di metri ecco di nuovo le auto blu.
Comunque le rivendicazioni dello striscione di apertura erano:
basta alle restrizioni punitive e poco efficaci: coi locali chiusi, a cosa serve il coprifuoco alle 22? Peraltro, il toque de queda scatta un’ora prima rispetto alle altre province autonome;
sospensione degli affitti: nei casi più vulnerabili, i mutui sono stati bloccati in primavera, ma con gli affitti è più complicato intervenire e spesso manca la volontà politica. Diverse famiglie di classe media si pagano il mutuo affittando la catapecchia ereditata da nonna, e vaglielo a spiegare che l’obiettivo non sono certo loro, ma i fondi speculativi. Come avrete già letto qui, perché ve l’avevo linkato sopra, il sindacato di inquilini chiede la sospensione dell’affitto nel caso di inquilini senza più mezzi per pagare, e di proprietari che abbiano altre entrate. Evidenzia anche il caso di proprietari con più di dieci appartamenti, fenomeno non raro da queste parti.
Mentre seguivo lo striscione, da Napoli, noto focolaio di proteste guidate dalla camorra (seh), mi chiedevano info sulla protesta barcellonese, e allora, a debita distanza, continuavo a scattare foto. Finché, genio che non sono altro, non mi sono accorta che il cellulare, già senza batteria, si stava spegnendo. Magnifico, andavo senza cellulare a una manifestazione che aveva tutta l’aria di dirigersi verso… Sì, eccoci davanti al Parc de la Ciutadella, nel cui perimetro si trova anche il parlamento catalano.
E quindi? Sostavamo davanti a uno degli ingressi laterali: una cancellata molto ampia che affaccia sull’arioso Passeig de Picasso. Alcuni ragazzi armeggiavano con le sbarre del portone, altri manifestanti aspettavano tutt’intorno, incerti sul da farsi. Io osservavo solo i riflesssi blu delle sirene, in fondo al Passeig. Che ora poteva essere? La manifestazione era iniziata alle otto, era passata circa un’oretta e il coprifuoco scattava alle dieci di sera. Che stavamo facendo, lì? Gruppi sparuti di manifestanti sembravano allontanarsi dalla massa di gente in attesa. “Già è finita?” si chiedeva qualcuno di quelli fermi davanti al cancello. “Andiamo all’arco!” esortava uno di quelli che si allontanavano: in effetti, si trattava di continuare a costeggiare il parco e andare dritti, e a cinque minuti di cammino da lì c’era l’Arc de Triomf. In tutto questo, al mio cellulare spento arrivava il consiglio: “Se sei alla manifestazione, rientra, che è sfuggita di mano”. Ma l’avrei scoperto solo una volta a casa. Ho provato a seguire quelli che si allontanavano, sempre più stupita dal fatto che le uniche sirene nei paraggi fossero di un’auto della Guardia Urbana: quelli che controllano il traffico, in pratica.
La sorpresa c’è stata quando ormai ero arrivata quasi all’ingresso principale del parco, e già mi si stagliava davanti, benché in lontananza, l’Arc de Triomf. C’erano solo due camionette, per il momento. Mossos d’esquadra, la polizia catalana. Altre luci si intravedevano ferme al semaforo in fondo alla strada, sul lato destro rispetto all’ingresso del parco. A questo punto, però, mi incuriosiva vedere cosa succedesse all’Arc de Triomf, e mi sono incamminata sul lungo viale che lo precede: il Passeig de Lluís Companys.
La scena che mi si è presentata davanti era surreale: di manifestanti, ovviamente, neanche l’ombra; però, tra ragazze sui pattini che quasi mi investivano e gli irriducibili skaters, terminavano la lezione due o tre gruppi che facevano ginnastica all’aperto. Sempre più maestre di yoga o istruttori di fitness (ma il genere degli organizzatori varia) ricorrono alle app d’incontri (non quelle per rimorchiare!) per organizzare lezioni così, e guadagnarsi da vivere in questi tempi assurdi. Una delle istruttrici di ginnastica spiegava agli alunni sudati che “vabbè, c’è il coprifuoco e ci adeguiamo”, dunque la lezione sarebbe iniziata un po’ prima, la volta successiva. Un paio di atlete di un altro gruppo esibivano sul petto la scritta: “Corsa di mezzanotte”. Certo, sarebbe stato uno spreco stamparsi apposta un’altra canotta: “Corsa delle otto di sera”.
In tutto questo, si diceva, i grandi assenti erano i manifestanti che dovevano riunirsi sotto l’arco, e io non sapevo più che ore fossero. Ma l’Arc de Triomf dista dieci minuti da casa mia ed è la Chinatown catalana, quindi mi sono detta: già che sono qui, ed è tardi per cucinare a casa, scatta la cena da asporto! Sì, penso solo a magna’. Per caso era aperto il mio ristorante preferito? No, o meglio, non proprio: la saracinesca era abbassata quasi del tutto, si intravedeva a stento, da un unico spiraglio, la sala illuminata. Erano dentro per organizzare la chiusura, oppure facevano solo consegne a domicilio? Fuori al locale erano stampati i numeri per telefonare: che paradosso! Se avessi bussato alla saracinesca mi avrebbero forse cacciata,, ma se avessi chiamato mi avrebbero risposto al telefono. Come chiamavo, comunque? Dai, meno male che era aperto pure il cinese “scrauso” che preferisce il mio coinquilino: tanto aveva sia il tofu piccante che i tagliolini in salsa di soia, che è quello che chiedo sempre nel mio ristorante preferito.
Il resto lo immaginerete, se vivete a Barcellona o in un posto con i locali chiusi alla clientela: mi sono fermata davanti al tavolino all’entrata, mi sono versata sulle mani una dose di gel idroalcolico, ho spuntato dal menù le mie due opzioni (volevo evitare di sprecare una fotocopia, ma non sapevo se la cameriera lì in attesa capisse bene lo spagnolo), e ho aspettato lontano dall’entrata, nella strada sempre più buia e deserta. Cavolo, che ore erano? Intanto che attendevo, un cliente cinese sopraggiunto dopo di me chiacchierava con la cameriera, che con me era stata gentile ma concisa: con il connazionale, invece, la ragazza si agitava, rideva sotto la mascherina, faceva battute che io non avrei capito neanche dopo dieci anni a smanettare con Duolingo. Intravedevo le sirene all’altro incrocio, quello sul Passeig de Sant Joan che avrei attraversato di lì a poco con la bustina da asporto. Ormai tutte le volanti che vedevo passare si dirigevano verso Plaça Urquinaona, la gente che incrociavo era sempre più poca e andava di fretta. Che cavolo di ore erano? Dove sono le campane delle chiese, quell’unica volta che ne hai bisogno?
Per un’onda verde di semafori che mi ha fatto da Rubicone, ho deciso di… guadare Plaça Urquinaona: da quelle parti, di solito, o non vola una mosca o succede l’inferno. Per fortuna, stavolta era buona la prima ipotesi. Mentre scendevo su via Laietana per tornarmene a casa, un tizio di passaggio litigava con qualcuno fuori a uno dei due supermercati che restano aperti fino a tardi: non capivo se il malcapitato fosse un gestore o il ragazzo che chiede sempre l’elemosina lì fuori. “Alle dieci c’è il coprifuoco!” insisteva il tizio litigioso, e c’era da chiedersi se il ragazzo dell’elemosina avesse un posto in cui andare.
Fuori all’Hotel Ohla, la cui curiosa facciata segna l’inizio della strada in cui abito, una ragazza alta parlava con un altro passante proprio accanto allo schermo a cristalli liquidi che sponsorizzava ancora il “fantastico rooftop” dell’hotel. La ragazza si è congedata dal suo interlocutore, ha visto me ed è sbottata in catalano: “Quanta polizia, vero?”. Sotto le mascherine non ci capivamo molto, mentre camminavamo a passo svelto, ma le ho spiegato che era in corso una manifestazione. Allora lei, a sorpresa: “Lo so, vengo da là. Ma ho visto tanta di quella polizia che, guarda, parlavo al telefono e mi sono interrotta apposta. Che paura!”.
Io ho ripensato agli elicotteri che in ottobre, in condizoni normali, sembrano ronzarmi nell’orecchio un giorno sì e l’altro pure, e alle transenne che noto da giorni fuori alla vicina sede della polizia, anche se da Telegram non mi arrivavano notizie di manifestazioni in programma. Evidentemente, le forze dell’ordine si aspettavano rivolte improvvise ed estemporanee, dettate dal malcontento per le restrizioni.
“Qui in giro è sempre così” ho rivelato alla ragazza che ormai correva via, forse verso la metro che l’avrebbe portata a un quartiere clar i català.
E in catalano ho pensato: “Dolça filla de l’estiu”. Dolce figlia dell’estate.
Chissà, magari un Jordi R. R. Martí avrebbe finito il suo Joc de Trons prima del suo equivalente americano, con tutto quello che succede da queste parti.
Per spiegarvi il nuovo romanzo, ve ne racconto uno che ancora devo scrivere.
Parla di una tizia che si è fatta un punto d’onore di trasformare tutte le sue sfighe in capolavori. È un po’ ossessionata con quella storia, sapete? La questione dei cocci giapponesi che si rimettono insieme con l’oro fuso. Un metodo di riparazione senz’altro spettacolare, che però, come suggeriscono in BoJack Horseman, non sembrerebbe particolarmente efficace. Ma la nostra eroina che non c’è (o non c’è ancora) è proprio ossessionata: non riesce ad accettare che, oh, le cose a volte vanno storte e basta. Accettarlo e passare oltre è la migliore delle riparazioni possibili.
Eppure. Questo libro mi prova che la mia protagonista inesistente un po’ ha ragione: quasi tre anni dopo aver scritto la prima bozza, mi rendo conto che da tutta quella faccenda complicata e a tratti angosciante ho ricavato “almeno” Una via dritta, che da ieri potete prenotare o, addirittura, trovare in libreria.
E la storia, mi sa, la conoscete: anzi, grazie ancora a chi mi contattava sui social per assicurarsi che fossi tutta intera! Il romanzo inizia quando Mariano Rajoy prende bene i preparativi per il nuovo referendum indipendentista (il terzo da quando sono a Barcellona, e all’inizio, mi dicevano, neanche il più votato al successo). Ai tempi nel porto barcellonese, decorata da una surreale effigie di Titti, era arrivata una nave carica carica di… polizia!
Sarebbero scesi, gli agenti? Avrebbero risposto con le manganellate a quell’insolita occupazione fuori stagione? Ero rimasta col dubbio fino al 30 settembre 2017, mentre osservavo le famiglie che riempivano di cartelli e tapitas da spizzicare le scuole e i centri culturali al cui interno, intanto, si preparavano le urne. Adesso, dalle parti della mia nuova casa fin troppo centrale, c’è un negozio che pretende di vendere ai turisti alcune di quelle scatole di plastica bianca, con sopra una bandiera catalana stilizzata: mi dicono che le originali, però, sono patrimonio dei centri che le hanno custodite, nascoste e, all’occorrenza, difese con la propria pelle.
Perché di questo si trattava: della pelle. Quel primo ottobre in cui io cominciavo la carriera di spettatrice perplessa di fatti che mi avrebbero sempre vista un po’ in disparte, gli agenti avevano abbandonato fin dalle prime ore notturne la “nave di Titti”. Anche a casa mia, qualcuno sarebbe sgusciato fuori qualche ora prima che uscisse il sole, con indosso il gilet fosforescente degli osservatori dei diritti umani.
L’unica scena che non inserisco nel libro, perché è solo mia, è proprio quella dell’abbraccio tra me e il… gilet di cui sopra, avvenuto a mezzogiorno fuori all’associazione in cui quel piccolo esercito pacifico e un po’ fluo faceva un rapporto pieno di speranza, ma anche di brutte notizie: un manifestante aveva perso un occhio (ancora proiettili ad aria compressa!). Inoltre, tra le immagini di feriti che circolavano in quelle ore c’era una signora anziana con la testa spaccata, parente lontana della Pepita del libro. E intanto, alcune testate internazionali più realiste del re provavano a dimostrare che quelle dei pestaggi erano immagini di repertorio, che meno persone di quelle dichiarate s’erano presentate in ospedale… Una blogger italiana, che aveva vissuto a Barcellona decenni fa, formulava giudizi molto seguiti su una città un po’ da cartolina, in cui non riconoscevo quella che abitavo io nel presente. A me tutto questo sembrava confuso e alienante.
Ma nei giorni successivi avevo assecondato un mio antico difetto: sorridevo a tutti, provavo a mediare. All’improvviso tanta gente, presa dall‘incertezza politica, dal clima di violenza e dall’esodo delle banche verso altri lidi, sembrava avere una gran voglia di litigare.
Quando m’ero ricordata che non si può sempre sorridere, avevo mandato un po’ tutti aff…, m’ero messa al computer e avevo inventato Irene, Marco e Tati. O meglio, li avevo assemblati come una sorta di Dottor Frankenstein interrotto a ogni piè sospinto da una telefonata in lacrime (“Esco dal gruppo!”, manco parlassero di una rock band), o da una rabbiosa incursione dal vivo (“Di’ ai tuoi amici italiani che sparano cazzate su Facebook…”).
Insomma, come già col primo romanzo, avevo preso delle angosce vere e le avevo fuse come oro “riparatore” per affidarle a tre corpi inventati, ma in movimento: quelli di Irene, Marco e Tati. Dove vanno i nostri eroi, il giorno del referendum? A salvare una vecchietta, solo che non lo sanno. In un romanzo più serio si direbbe che vanno incontro al loro destino. E in questo incrocio di destini, nella conciliazione impossibile e imperfetta che provoca, si è giocato quello che restava della mia sanità mentale. Troppo drammatico? Ok, facciamo “della mia lucidità“, allora. O anche solo “della voglia di fare”.
Per credere che ci potesse essere una pace non apparente, tra me e una Barcellona gentrificata e contraddittoria, ho dovuto cercare questa tregua tra le righe, tra le parole che il buon Andrea mi ha estorto di revisione in revisione, quando il papocchio iniziale era diventato una cosa seria, e toccava dare movimento a prime bozze troppo statiche, o drammatizzare situazioni di coppia che, chissà perché, non volevo esplorare fino in fondo.
Era paura, la mia? Forse. La paura del cambiamento, che tanto avviene lo stesso e, che ci piaccia o no, si lascia dietro un sacco di cocci rotti. Possiamo “ripararli” con tutto l’oro fuso del mondo, ma non funziona tutte le volte.
Raccogliere i cocci, però, è un buon esercizio.
Sono contenta che questo romanzo, che ora affido a voi in tutte le sue crepe nude, mi abbia aiutato nell’operazione.
Gerardo non ha ancora capito che a me, i bar, piacciono sozzi.
E invece eccolo là a sgamarmi il posticino con opzioni vegane in cui invitarmi, bontà sua, durante la pausa pranzo, visto che lavora come portiere in un palazzo a pochi passi da casa mia.
A me andrebbe benissimo anche una razione di pa amb tomàquet, vicino a del pimiento del padrón: per me vegano è quello. Tanto più che non ci eravamo capiti sull’orario, e ho dovuto fare una corsa coi capelli da strega e una tuta inguardabile, per raggiungerlo in tempo.
Ma starei ore ad ascoltare il suo italiano.
È perfetto, pure negli errori! C’è riflessa tutta la storia della sua famiglia: milanesi di origini marchigiane, passati per il Venezuela e finiti a Hospitalet, dov’è nato lui.
Quindi, non dice mai “andare affanculo”, ma sempre “andare a dar via il culo”. E mi ha insegnato il meraviglioso verbo “intafanare”, mai sentito in trentotto anni di vita. A volte pare Adriano Celentano in un’intervista da giovane!
Fa anche strano ascoltare un milanese che parla di linguaggio inclusivo – senza riderne, dico – e spiega l’imbarazzo che suscitava il cognato che, a ogni brindisi, continuava a gridare: “Salute e figli maschi!”. Al che gli ho confessato che io ho sempre sentito “auguri”, al posto di “salute”, e solo ai matrimoni, o in riferimento a qualche coppia novella. Poi gli ho insegnato le sottigliezze di certi brindisi napoletani.
È sempre questione d’identità. In ambienti di movimento che pure rispetto c’è un po’ la vulgata che io me ne sarei scappata, e loro sarebbero eroicamente rimasti per “cambiare le cose”: tutt’al più, quando hanno provato a farsi eleggere, ci hanno concesso che noi all’estero “siamo stati costretti a scappare”. Per quale altra ragione si vorrebbe vivere fuori, a contatto con altre culture, e magari con maschi etero che usino un linguaggio inclusivo? Senza tener conto del fatto che per me, ormai, le battaglie di tutti sono anche le mie, che i manteros sono discriminati come le vittime di Salvini (certe politiche di Sánchez non sono migliori). Quando ho difeso la mia terra d’origine dal razzismo, l’ho fatto con gli stessi argomenti che avrei usato per altre comunità (quella gitana, per esempio). Invece il razzista di turno mi credeva punta sul vivo, come se difendere una categoria sola servisse a qualcosa, a qualcuno.
Gerardo, invece, non si è mai definito di un posto in particolare. In Italia non ci ha mai vissuto, anche se parla un italiano migliore di certa gente che conosco. Però, mi ha fatto capire, faceva fatica anche a identificarsi come uno di qua. Così, per sicurezza, nelle sue ore passate in guardiola sta imparando tutte le lingue che può, compresi russo e tedesco. Nelle sue parole ho rivisto quelle del mio ex catalano: uno con due cognomi del Sud, che aveva risolto il suo busillis identitario diventando prima un ottimo pianista di flamenco fusión, e poi un català de debò – con tanto di laccetto giallo nella foto profilo – due anni fa, quando quel genio di Rajoy aveva risposto con la forza a un referendum che rischiava pure di essere meno affollato di altri, di per sé irrisolutivi, che l’avevano preceduto.
Nel bar in cui siamo approdati ieri per il… brunch (mi ci vedete?) non c’era molto spazio per le buleríasdi Carlos, ma a un certo punto è scattato l’iconico basso di Seven Nation Army.
Al che ho ricordato. Mi sono rivista ben undici anni fa, coi francesi della mia prima, sgangherata comitiva locale: gente che ti chiamava solo il fine settimana per ubriacarsi, e che al terzo chupito gratis si metteva a sfottere l’Italia. Allora per zittirli mi bastava accennare le prime tre o quattro note, senza neanche intonare il solito: “Po po po po po po po”. Ma così, per ridere. Ridevano anche loro, meridionali come me, più marsigliesi o tolosani che “sudditi di Parigi“.
Ovviamente, tutto questo per Gerardo non significava niente: per lui quella canzone era solo un sottofondo da bar, e io mi chiedevo, invece, se in Italia qualcuno la intonasse ancora negli stadi, o per strada.
Il bello era che, sul serio, non lo sapevo. Ormai non lo sapevo più.
“A che pensi?” mi ha chiesto il non-milanese, uscendo dal locale. Stava dimenticando dentro la sciarpa, ma se ne sarebbe accorto solo mezz’ora dopo.
“Penso” gli ho confessato, scostando le briciole del brunch dalla tuta inguardabile “che su questa cosa dell’identità ci scriverò un post”.
Sono cose che fanno bene, fanno sperare. E alla fine il principino in TV non vendeva politica, stavolta, ma vestiti: ci sarebbe da chiedersi quale sarebbe il confine tra la libertà di parola, e lo sberleffo impune a certe decisioni d’annata del popolo italiano.
Lo dico anche perché ora vivo in uno stato in cui s’era votato per la repubblica, e una quarantina d’anni dopo il dittatore morente ha deciso: “Perché no? Tornasse la monarchia!”.
Su questo, ribadisco, c’è la forte impressione che con l’indipendentismo di sinistra vediamo gli stessi problemi, ma abbiamo una fiducia diversa nelle possibili soluzioni: era di martedì scorso la notizia di Anonymous Catalonia per cui cui era stata respinta nel parlamento catalano la “mozione presentata dalla CUP che ingiunge al Governo della Generaltat a mettere fine, tra le altre cose, alla repressione contro le mobilitazioni popolari, per 71 voti contro (JxCat, ERC e PSC) e 11 voti a favore (Cup e Comú-Podem)”. Forte constatare che Cup e il movimento di Colau, accusato di non schierarsi nettamente sulla questione indipendenza, erano “soli contro tutti” anche quando s’è trattato di provare a mettere un tetto massimo agli affitti pazzi di Barcellona. A volte gli avversari aiutano più degli alleati.
Invece, c’è qualcosa che accomuna tutti, che percorre dinamiche simili tra i paesi, e si traduce nella stessa violenza istituzionale.
Ieri ero a fare una visita guidata nel Raval, questo quartiere così bistrattato che mi ha preso il cor, per dirlo alla vecchia, e ho ricordato un particolare: il mio ex “ravalistano” mi raccontava che, se un imbecille scassava un telefono pubblico (ce n’era ancora qualcuno, ai tempi!), e lui stava lì vicino, la polizia accusava automaticamente lui, che co-gestiva tre negozi di frutta e voleva tornare alla pallavolo professionale.
Memore di questo, diffondo il comunicato con cui diversi collettivi catalani – tra cui Tanquem els Cies e i CDR – chiedono la liberazione del giovane Ayoub, catturato durante i disturbi del 18 Ottobre a Lleida “mentre aspettava la sua compagna” (per Publico, la sua coinquilina) e tradotto a Madrid, dov’è in attesa del decreto di espulsione.
Per chi non capisse lo spagnolo, ho abbozzato qui sotto una traduzione sommaria:
Fermiamo la deportazione di Ayoub
Ayoub è residente in Catalogna dal 2017. Lo scorso 18 ottobre, mentre stava aspettando la sua compagna, con cui viveva, è stato detenuto a Lleida dai mossos d’esquadra, nel corso delle proteste per la sentenza del Procés. Tale detenzione ubbidiva alla pratica poliziesca, abituale, della detenzione per motivi razziali. Vista la sua situa situazione amministrativa, per Ayoub è stato attivato un procedimento di espulsione prioritaria, è stato privato della sua libertà e internato nel Centro d’Internamento per Stranieri (CIE) di Barcellona, con la minaccia di essere espulso dal territorio spagnolo.
Stanno trasferendo Ayoub a Madrid con l’obiettivo di deportarlo in tempi brevissimi.
La criminalizzazione da parte della polizia, la detenzione, la privazione di libertà e il processo di deportazione forzata come sanzione prevista dalla Ley de Extranjería, fanno parte di un sistema politico, sociale e giudiziario che rivela l’ottima salute del razzismo nello Stato spagnolo, in corrispondenza con tutte le sue istituzioni.
A sua volta, il razzismo di stato si costruisce e si alimenta della disumanizzazione dei collettivi che segrega. Le pratiche razziste istituzionalizzate convivono all’interno delle logiche democratiche di questo paese e sono responsabili della riproduzione del razzismo sociale e dei suoi agenti.
Per tutto questo, denunciamo la persistenza di un sistema razzista in questa società, che discrimina, rende illegale ed espelle parte della sua popolazione.
Esigiamo che si arresti il processo di deportazione e che Ayoub venga immediatamente liberato.
Io mi sento pure strana, ad andare in giro come se niente fosse durante uno sciopero generale. Ma tant’è, a convocare sono diverse entità indipendentiste, e non credo che “una repubblica catalana risolverà tutto”. Il bello è che non mi trovo d’accordo neanche con quelli che “cacciare il re non è una priorità”, “meglio tenerci Pedro Sánchez se l’alternativa è Vox” (discorso che avete visto come sia finito in Italia) o, peggio, “i cosiddetti prigionieri politici si aspettavano carezze, a proporre un referendum incostituzionale?”. Intanto i problemi politici non si risolvono con i pestaggi, né in tribunale: e come studiosa della Grande Guerra non parteciperò a un’inutile polarizzazione tra bandi. Specie quando gli entusiasti della repubblica decidono che, finché non giungi alle loro stesse conclusioni, non hai “preso partito”. A prescindere da chi abbia la colpa e chi no, per come si sta intalliando il procès (e per il significato d’intalliare vedi qua), sta’ a vedere che fa prima questa repubblica federale spagnola, data per impossibile da ottenere.
Così mi sono sciroppata con le mani in tasca il fracasso dell’elicottero della polizia, che in caso di manifestazione pare sempre volare a un pelo dalle case, e ho ammirato sul serio il corteo di bandiere che non finiva più, mentre attraversavano Plaça Catalunya. Ho riso infine quando un’elegante signora sul Pelayo (ufficialmente carrer Pelai) ha fatto un cenno interrogativo a una commessa che, a corteo passato, rialzava la saracinesca della profumeria. Riaprite? Riapriamo. E in effetti i negozi in centro sono rimasti quasi tutti in attività, magari con la saracinesca già pronta a calar giù: i proclami di chiusura, anche critici con lo sciopero, a quanto ho visto li hanno fatti istituti culturali e biblioteche.
Dei miei amici sparsi per il corteo, qualcuna si rallegrava per l’attacco al sindacato “traditore”, e chi lavora nello stesso sindacato si lamentava invece della “democrazia” con cui i manifestanti hanno accettato opinioni discordanti. Non guardate me, io me la facevo addosso anche solo quando entravo a scuola durante uno sciopero che non condividevo, e quelli rimasti fuori, minacciati di sospensione, provavano a sfondare il portone per entrare. Se fossi stata Maria Antonietta altro che capelli bianchi (che poi è un mezzo falso storico), in un giorno diventavo direttamente Ursula la Strega del Mare.
Questo per dire che mi sento sempre più isolata, e non solo sul piano politico. Trovo normali e irrilevanti cose di cui qualche anticonformista professionale si vanta (che so, essere erbivora, non portare un reggiseno, non avere una tv…) e voglio una famiglia in un posto in cui, a occhio e croce, sei più cool se non la vuoi.
Per questo, con somma ilarità dell’amica francese che sfotteva i “miei” bar, mi sto portando avanti col lavoro e finisco da sola a consumare tè e dolcetto – o magari dei biscottini simili ai crumiri – come le nonne che mi circondano. Ma bando all’appucundria! Ieri ad allietarmi la giornata ci ha pensato questo post sull’omofobia, che adesso vi traduco. Continuo a non essere sicura che insultare gli omofobi li renda consapevoli dell’errore, ma quanno ce vo’ ce vo’:
Tuo figlio non diventerà gay perché gli parlano della diversità a scuola, né per il fatto di vedere dei gay per strada. Però, se tuo figlio è gay, magari vedere gay con la stessa naturalità con cui vede eterosessuali farà sì che non passi un’infanzia di merda e infelice.
Allo stesso tempo, se tuo figlio è etero e vede gay con la stessa naturalità con cui vede eterosessuali, magari non diventa un miserabile omofobo che pensi che la diversità sia un’ideologia.
A mia difesa devo dire che ero convinta di partire il 22, e domani mi sarei recata all’aeroporto senza sospettare nulla, se la Vueling non mi avesse illuminato sulla situazione – e sul suo bisogno urgente di traduttori madrelingua:
Gentile cliente,
Dovuto allo sciopero convocato in Catalogna per venerdí 21 Dicembre, e sempre con l’obbiettivo di offrirle il migliore servizio, le consigliamo di recarsi in aereoporto con piú anticipo rispetto a lo abituale per poter realizzare il check-in e imbarco con piú tempo.
Ringraziamo la Sua fiducia e ci scusi per i possibili problemi creati da fattori totalmente estranei alla compagnia.
Distinti saluti
Team Vueling
“Rispetto a lo abituale”, dunque, mi sono avviata alle 3.50 del mattino in cerca della mia compagna designata di sventure, anche lei in partenza per Napoli, che ahimè si è vista rubare al volo il cellulare da un ragazzetto che, trovandosi lei nel mio amato Raval, deve aver fatto casa e puteca.
Che dire: l’importante per me è che siamo atterrate sane e salve, benché in ritardo, e che io, mentre scrivo queste brevi parole, abbia già all’attivo due cestini alle scarole del panificio Javarone.
Volevo solo informarvi che nel gruppo continuano gli aggiornamenti, anche utili, che la festa c’è stata sul serio, e che è vero anche che mentre loro festeggiavano, dei loro coetanei sono stati manganellati dalla polizia per il difetto di essere repubblicani.
Questi ultimi forse considereranno quelli del “party” nel seguente modo: guiris, capitalisti, gentrificatori, parassiti e, stando a dei manifesti che ho letto nel Raval, anche assassini e fills de puta (se, oltre al reato di ascoltare pessima musica, attribuiamo loro lo spopolamento progressivo del centro a beneficio di stranieri con soldi che fanno vita a sé).
Lo so perché, specie adesso che ho comprato casa, mi sono vista attribuire tra il serio e il faceto quasi tutti gli aggettivi di cui sopra, e adesso mi dichiaro anche colpevole di aver apprezzato questi ragazzi che hanno fatto buon viso a cattivo gioco, accampandosi in aeroporto, e socializzando nella “Lingua dell’Impero” (anche se spulciando trovate ragazze catalane che si rammaricano di non essere andate).
Mettiamola così: si vede che ognuno ha le battaglie che si merita.
Per fortuna ne abbiamo qualcuna in comune. Penso a quelle. E un po’ anche al pane cafone che divoro adesso.
Ho scritto a Repubblica. C’era questa poesia di Junqueras, e allora ho scritto. Oh, l’ha postata Repubblica, e allora ho scritto a loro. A Concita De Gregorio, che un po’ catalana ci è, e infatti parlava di Catalogna dopo che in pochi, ormai, se la filano. Specie adesso che c’è Sánchez che risolve tutto con una mano sola…
Oriol Junqueras. Su di lui si sprecavano aneddoti, prima del referendum. Su quella volta che si era messo a piangere pensando alla Catalogna unita, e sul numero di salsicce che, giurava qualche collega d’università, fosse in grado di mangiarsi a una scampagnata.
Dopo la sua incarcerazione per aver votato sì all’indipendenza, è diventato quello che doveva ricevere un presepe a Natale, ma gliel’hanno scassato e ci hanno scritto sopra “Viva España“.
Povero il paese che ha bisogno di eroi. E un paese che risolve con la repressione i suoi problemi politici mi sembra due volte povero.
Ho scritto per questo: vengo da qualche mese in più di tensioni, rispetto a chi vive in Italia, e volevo dire che è inutile trincerarsi e insultarsi mentre qualcuno divide e comanda. Dopo l’ottobre che ho passato, il giugno trascorso in Italia non mi ha rinfrancato. Immagino che anche voi, o almeno tanti di voi, vi confrontiate una volta al giorno con qualcuno che dica “affondiamo i barconi”. Oppure, più sottilmente, respinga i migranti “per il loro bene”.
Beh, anche Sánchez aveva commissariato la Catalogna “per il suo bene” (capolavoro!). E io, una società schierata in due fazioni che si schifano l’ho prima studiata, con le mie ricerche fallite sulla Grande Guerra, e poi vissuta, per fortuna in scala minore, a Barcellona e a Napoli.
Anche a Barcellona mi è stata appioppata una fazione (sarei “unionista” e “podemita”, io che non amo Pablo Iglesias e non ho mai avuto la sensazione di vivere in Spagna).
Non schierarsi, comunque, è quasi impossibile. Pure le pacifiste della Grande Guerra erano spesso “schierate”, cioè trovavano alcuni paesi più democratici di altri. Ma rifiutavano una logica binaria che trasformava i loro uomini in carne da cannone.
Allora, ho scritto a Repubblica perché dopo un ottobre a litigare, e un giugno a litigare, forse è il caso di ascoltare un’amica su Facebook:
Non voglio fare l’errore di amplificare e dare spazio a ciò che è negativo e divisivo. È esattamente ciò che si aspetta chi vuole creare il caos. Un commento indignato in più non cambierà la situazione. Voglio provare a parlare con toni diversi e a dare voce a quelle storie che possono ispirare me e gli altri ad essere persone migliori.
Qua a Barcellona, alcuni dei problemi sociali sono la disoccupazione, il carovita gonfiato dalla gentrificazione (che da noi, dopo Venezia, attacca Napoli e Torino), i tagli alla spesa pubblica, la criminalità organizzata… Le soluzioni ci sono. Poche, ma ci sono.
La carrambata del mese è che mia madre ha mandato in pensione Fabrizia Ramondino.
Se non sapete chi è, non preoccupatevi: è il mondo, che è sbagliato. L’Italia, più che altro. Più la leggo e più mi chiedo: come si può ignorare una scrittrice del genere? Si può, si può. E mia madre, ex impiegata del Provveditorato agli Studi di Napoli, ha incontrato al posto mio questa donna gracile, dalle lunghe gonne estrose e dai modi perfetti, o così mi racconta.
Intanto che spiegava tutto questo, io leggevo quest’affermazione dell’autrice su una nonna tenace, che in napoletano poteva cantare, ma non parlare coi bambini:
Ora se l’uso del dialetto come arte poteva essere tollerato in famiglia, non era tollerato invece che con noi ragazzi lo adoperasse, e ogniqualvolta un «mo’» rapido e sfacciato ci usciva di bocca, la nonna veniva rimproverata.
Non succede solo a Napoli, eh. Un amico della provincia di Ravenna mi ha confessato asciutto che, da lui, ai bambini si cerca di parlare italiano, perché così troveranno più facilmente lavoro. Semplice.
Anche i bambini che giocano in strada, qui in paese, quasi non parlano più napoletano.
Prima di tutto perché in strada non ci giocano più: in genere sono di passaggio, al seguito di mamme – sempre le mamme – fermatesi a chiacchierare. O non valicano la soglia di un cortile ben chiuso.
Quelli che sento parlano un italiano perfetto: ok, hanno le “e” paesane molto aperte, ma questo gliel’avrà già spiegato il cugino milanese (da che pulpito!) che, detto tra noi, parla con più accento di loro.
Non che ci sia niente di male, eh. Io avevo una cugina veneta che non sapeva di esserlo: aveva sei anni quando divertitissimi le chiedevamo, con mio fratello, “perché parlava così”. Rispondeva ridendo: “Non lo so”.
Aveva sempre parlato così. Nessuno le aveva detto “Parla bene”, nel senso di “Parla italiano”. Lei parlava già bene, il suo accento mica era brutto.
Mi avevano spiegato che il mio lo fosse, o potesse risultarlo, e l’avevano fatto nel modo più efficace: lodandomi per il fatto che “non ce l’avessi”. Per questo, quando da ragazzina sconfinavo dalla mia regione, ero sempre attenta alla mia pronuncia. In qualche modo credevo che tutti – il benzinaio dell’Autogrill, la cameriera della trattoria toscana – parlassero sempre meglio di me, per il fatto di essere nati altrove.
Finché un animatore del Nord, in un villaggio turistico – avevo ormai 17 anni – , mi chiese tipo: “Com’è il nome?”. E pensai: che modo impreciso di chiedermi come mi chiami. Sicuro che questi parlano meglio di me? E capii che c’era molto di leggenda, e pure qualcos’altro che, dieci anni dopo, una laurea in Storia mi avrebbe chiarito una volta per tutte.
Adesso vivo in un posto che esalta non solo le lingue regionali, ma anche le varietà diverse di pronuncia. A Barcellona si accarezzano sotto il palato la “g” di “dugues” (“dues” in catalano standard, con la “e” neutra), come un’adorabile intrusa che è più di casa di qualsiasi altra regola stabilita nei libri. E dicono “quranta”, invece che “quaranta”, senza troppi complessi.
Da fuori, per dispetto, li chiamano “camacos“, scritto in vari modi, da “Che bello!”, tormentone dei cittadini quando vanno in gita. O, ancora peggio, “pixapins”, per l’abitudine non proprio civica – ma si fa di necessità virtù – di espletare le proprie funzioni corporali sotto gli alberi.
Sono giochi linguistici che mi divertono, vezzi che vorrei aver avuto il privilegio, se non l’onore, di godermi anch’io.
Come ultimo post sulla tristissima pagina di storia italiana (e umana) che è stata la vicenda Aquarius, condivido il comunicato dell’associazione che da cinque anni è parte integrante della mia vita barcellonese. Se vi va, condividete:
NON CI RAPPRESENTANO
L’Associazione Altraitalia Barcelona, costituita da italiane e italiani residenti in Catalogna, esprime la propria approvazione rispetto alle scelte del governo spagnolo e della Generalitat valenciana sulla questione Aquarius. Siamo felici di vivere in una città che non ci fa sentire “immigrati”, e che per volontà della sindaca Ada Colau ha aperto fin dall’inizio del suo mandato le porte ai rifugiati. Siamo orgogliosi di toccare con mano il fatto che tutti quei valori che, a detta della destra italiana, porterebbero alla disgregazione dell’identità, sono invece il fondamento di una città aperta e inclusiva, dove persone di ogni provenienza e credo hanno potuto trovare una nuova casa.
Non possiamo che guardare con preoccupazione agli ultimi sviluppi della politica italiana, caratterizzati dall’allarmante centralità di un discorso identitario che ha creato le premesse per le desolanti prese di posizione razziste del ministro dell’interno Salvini. Ci preoccupa che queste posizioni sembrino essere condivise da buona parte di questo governo, e da una porzione significativa della popolazione.
La Spagna e la Catalogna non sono un paradiso libertario, contrariamente a quello che vorrebbe far credere una certa lettura superficiale della realtà. Ma crediamo che Barcellona in particolare, pur con tutti i suoi problemi, rappresenta la realizzazione dei peggiori incubi di Salvini e dei suoi sodali: famiglie LGBTI numerose e attive, lotte femministe che sono diventate coscienza collettiva, il razzismo populista che, persino in un contesto identitario come quello catalano, è inesistente.
È per questo che, forti della nostra esperienza, possiamo dire, ora più che mai: restiamo umani.
Barcellona, 18 giugno 2018.
Associació AltraItalia Barcelona
info@altraitaliabcn.org
Nota
L’associazione Altraitalia Barcelona è nata nel 2009 da un gruppo di italiane e italiani residenti in Catalogna appartenenti a diverse tradizioni della sinistra nostrana. L’intenzione, da subito, fu quella di interagire con il contesto politico della nostra patria d’adozione: da qui derivano le molteplici iniziative attraverso le quali, nel corso degli anni, abbiamo cercato di lavorare alla costruzione di una memoria storica condivisa tra Italia e Catalogna.