Archivio degli articoli con tag: colloquio di lavoro

Risultati immagini per votantonio votantonio Fino all’ultimo volevo chiamare questo post “Autoinganni”, in riferimento alle maniere molto sottili che abbiamo di “girare la frittata”, di convincerci che il mondo va come diciamo noi, solo che non se n’è ancora accorto.

Faccio spesso l’esempio dell’Orlando friendzonato (girato quando Ariosto ha venduto i diritti a Netflix), che capita in un boschetto di alberi vandalizzati da Angelica e Medoro. Leggendo le iscrizioni lasciate dai due innamorati (e meno male che non c’erano ancora i lucchetti!) il Nostro decide che in realtà la ragazza volesse dichiarare il suo amore a LUI, ma che per dissimulare gli avesse dato un soprannome. Come direbbe Veronika, la televenditrice interpretata da Lucia Ocone: “Seh, e allora io so’ vergine e incensurata!”.

Ma siamo tutti un po’ Orlando, quando ci mettiamo. Riporto qui alcuni casi che trovo emblematici, aspettando i vostri.

  1. Il personaggio skomodo. C’è in tutti i gruppi Facebook d’italiani a Barcellona, e in tutti i gruppi e basta (di amici, colleghi…). Alcuni collettivi di espatriati sono proprio dedicati alla skomodità, come se non bastassero le nostre stanze 1 metro x 1 metro a soli 350 euro al mese (quando ci va bene)! Lo skomodo non rompe mai le gonadi, fa sempre e solo satira (specie quando non la fa). Al massimo dice, appunto, le verità skomode. Sua specialità è langiare una provogazzzione: che so, postare su Facebook un link che annunci la scoperta di un truffatore. Cliccandoci sopra approdi sul tuo profilo, scherzone stratosferico, e se ti lamenti con lui ti dà anche dell’imbecille, uno senza senso dell’umorismo. Perché lui è scomodo. Non gli frulla neanche per un attimo l’idea che, magari, potrebbe star dicendo davvero delle cagate pazzesche, o facendo scherzi idioti. Certa gente nasce con la camicia.
  2. La sottovalutata. O sottovalutato. Metto prima il caso femminile per fare autocritica: ha fatto comodo anche a me partire da un problema sociale reale (l’educazione femminile alla sottomissione),  per argomentare che “se gli uomini non sono interessati a me, è perché hanno paura di una donna che non sia sottomessa”. Ok, adesso lo ammetto: a volte non era nessuna paura, non mi si filavano e basta. Mi consolo pensando al mio equivalente maschile: quello che sostiene che “le donne vogliono uno coi soldi che le riempia di smancerie”, mentre lui è “orgogliosamente povero” e “purtroppo sincero”. Caro il mio zio Tom, se vinci al Superenalotto allora li dai a me? Già ti vedo lì a rispondermi: “se mi regali dei soldi non mi offendo, ma non mi ci vendo mica l’anima!”. Allora concludiamo insieme che la nostra società ha imposto per secoli certe regole di comportamento, difficili da eludere. Ciò non toglie che potremmo ritentare entrambi: scommetto che, cambiando un po’ le frequentazioni, saremo più fortunati.
  3. Incompreso. Non a caso è anche il titolo di un film strappalacrime  (tratto da un libro) su un bambino che deve lasciare questo mondo crudele, per farsi capire! Col protagonista il soggetto in questione ha in comune che non fa mai nulla di sbagliato: sono sempre gli altri. Che si offendono se fa domande troppo personali, o mette in dubbio la loro buona fede. È che il mondo è infame e lui ha il problema di essere “troppo buono”. Oppure, come il sottovalutato di cui sopra, è “troppo sincero”. Consigliamo la lettura di un fantastico articolo del Daily Mash che ‘ad sensum’ potremmo tradurre con: “Donna ‘troppo sincera’ si rivela essere semplicemente insopportabile”.
  4. L’esploratrice. Esiste anche al maschile, ma mi fischiano troppo le orecchie per non parlare innanzitutto di voi, eroine 2.0 che vi scegliete solo psicopatici e accettate che vadano e vengano dalla vostra vita, senza che si risolvano a fare né una cosa né l’altra. Siete davvero convinte che sotto sotto vi ami, ma non abbia gli strumenti o la serenità per capirlo. A questo punto devo confessare che il capolavoro me l’ha fatto un amico: gli avevo parlato del due di picche più celebre della mia onorata carriera. Il suo commento è stato: “Vabbe’, se uno dice che ‘ti vuole bene ma non ti ama’ devi saper leggere tra le righe”. Magari proviamo a considerare questa possibilità: se uno afferma ‘non ti amo’, vuole dire proprio quello. Saremo tristi per un po’, e poi potremo passare oltre.

Di recente vedo due categorie particolarmente afflitte dall’autoinganno: i politici trombati e i candidati respinti a un colloquio di lavoro. Ovvio che le idee esposte al comizio o al colloquio erano troppo “avanzate” per il pubblico, impreparato di fronte a tanta caparbietà e voglia di fare.

Nel caso dei candidati respinti, spero di cuore che valga il “ritenta, sarai più fortunato” del punto 2.

Quanto ai politici trombati, già sapete: votantonio votantonio votantonio…

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Motivi che mi sono stati addotti negli ultimi tre mesi per escludermi da progetti, formazioni, cazzi e mazzi:

  • mancanza di metodo;
  • mancanza di preparazione;
  • scarsità di requisiti;
  • troppo entusiasmo.

Trovate l’intruso.

Ok, confesso: ho semplificato. Nell’ultima categoria ho riassunto una serie di considerazioni che in un caso sono state bonariamente liquidate come “eccessi emotivi”, e in un altro caso traducono una diffidenza dei miei esaminatori per il mio proposito di “aiutare gli altri”.

Mi chiedo se a rispondere “voglio fare la formazione per i soldi”, che sarebbe stata una bugia, non mi sarei attirata maggiori simpatie.

Perché le prime obiezioni sono serie. Posso essere d’accordo o meno sulla definizione di metodo, ma se un professionista sostiene che mi sia mancato nel redigere una tesi, una domanda me la devo fare. Stessa cosa dicasi per la mancanza di preparazione e di requisiti: è a discrezione dei formatori di una qualsiasi “impresa”, far entrare o meno una persona che finora abbia lavorato in altri ambiti.

Ma che le emozioni, l’entusiasmo, possano essere visti come qualcosa di negativo, di cui aver paura, mi sembra un problema grave.

Entusiasmo senza metodo è un disastro. Entusiasmo come attitudine di cui diffidare di per sé, rivela la prevalenza di un’idea di Ragione (ancora la Dea illuminista, ah, l’Illuminismo!) che niente riesce a scalfire, mentre credo non sia una bestemmia parlare d’irrazionalità come di un aspetto della vita umana, piuttosto che un peso da buttare fuori alla porta, perché rientri dalla finestra.

E allora, siccome le emozioni possono essere più complesse da gestire che una fredda dedizione metodica al lavoro, mettiamole da parte.

Parliamoci chiaro: io ho molto chiaro cosa voglia essere, e vado avanti così.

So che l’esclusione delle emozioni è un patto col diavolo che non porta neanche ai vantaggi sperati.

Allora mi chiedo: è questo che vogliamo? Un mondo lavorativo in cui anche l’entusiasmo soccomba alle logiche di profitto ed efficienza?

Io sono fuori dai giochi.

Voi, magari, potete ancora scegliere.

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Omaggio ai ’90 di skuola.net

In spagnolo i bagagli emotivi indesiderati si chiamano anche “mochilas”, zaini. Non bisogna, dicono, “portare il peso degli zaini altrui”. O caricare troppo i propri.

L’altro giorno mi è piombato addosso un Invicta da versione di greco in prima liceo, vocabolario Rocci incluso. Ero a una specie di colloquio di formazione, in una società in cui bazzicavo da tempo. La mia prima esaminatrice, oltre alle ragionevoli considerazioni su mie reali mancanze, mi ha sciorinato con veemenza sospetta una serie di remore che sembravano avere molto più a che fare con la sua vita e i suoi dubbi, che con la mia reale situazione.

Fatto sta che il suo giudizio è stato determinante nella mia esclusione dal progetto. Ho scoperto dopo che pagavo la sua diffidenza verso la mia prima formatrice. Troppo tardi.

Nello stesso giorno, su una pagina che amministro, sono stata bersagliata dal sarcasmo gratuito di un misterioso filantropo che dà sempre consigli su come trovare alloggio a Barcellona (tramite lui, ovviamente), e insulta chi gli faccia concorrenza in generosità, magari davvero gratis. Bannato al primo accenno di minaccia (tipo un meme che verteva sul darmi fuoco, “e non è una battuta”). Il mondo è troppo piccolo per i traffichini.

Per me l’esaminatrice e questo poveretto sono due facce della stessa medaglia. Succede in famiglia, nelle relazioni e, manco a dirlo, sul lavoro: l’altra persona vede in noi chissà quale aspetto di sé, o appioppa a noi i suoi problemi. Oppure, più semplicemente, ci troviamo nel posto sbagliato mentre un iracondo sta scaricando sull’intero universo le sue frustrazioni.

In queste occasioni ci sentiamo delusi e un po’ traditi, anche quando abbiamo fatto i conti coi nostri reali demeriti personali.

Però mi sono salvata la giornata, in un modo che vi consiglio: ho ammesso da subito il mio dispiacere, con me stessa. Fateci caso: quando ci capita qualcosa di spiacevole il primo impulso è spesso di distrarci, non pensarci, magari sperando davvero di smussare un po’ il ricordo della brutta esperienza, se non di cancellarlo.

Mi succedeva da piccola quando sfogliavo un libro di medicina di mio padre e, tra le foto colorate di cellule tumorali (che per me erano solo cerchietti), appariva l’occasionale primo piano anatomico. Per fortuna non lo riuscivo a decifrare, ma lo correvo a “cancellare” immergendo la testa in un fumetto.

Adesso so che non è il metodo più efficace, anzi. Quello che ti spaventa, ti domina.

E allora ho passeggiato con questa sensazione d’ingiustizia e impotenza insieme, che pian piano andava prendendo corpo. Ho lasciato che la lenisse una sincera analisi delle mie personali mancanze, senza per questo negarmi la rabbia per aver pagato le conseguenze dei problemi altrui.

Man mano che ho fatto questo, ho sentito il peso alleggerirsi, a tratti svanire.

Pensate a quanto tempo mi abbia risparmiato l’operazione! La tristezza è lì comunque, che fingiamo di vederla o no, tanto vale non sprecare ore a nasconderla, affrontarla subito.

E saremo liberi di goderci tutto il resto.