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Alcuni nomi e fatti sono stati alterati per questioni di privacy, ma le cose sono andate più o meno così.

Quelle che servono

 

Da plumens.com

Non è lui. Lui è un sintomo.

Avevo fame e ho trovato lui, e invece dovevo saziarmi di me.

Dopo l’ultima frase a effetto, la Petulante poggia la penna sul taccuino. Resta sempre un po’ stronza, ma ha ragione. Un giorno darò della stronza a me stessa, per quell’ostilità cocciuta verso la mia terapeuta. A conti fatti ha sbagliato solo due cose, una più grave e una meno.

La meno grave è stata farmi sentire come una crostatina del Mulino Bianco, col suo discorso su come non fossi proprio “da dieci”. Ma ora so cosa voleva dire: a Bruno le donne piacevano fatte in un certo modo (“affilate”, a quanto pareva), mentre io ero fatta in un altro. Quel dettaglio non mi aggiungeva e non mi toglieva niente.

La cosa più grave è stata il suo martellare perché lo lasciassi perdere. Un giorno sentirò delle esperte in rapporti di coppia (e violenza di genere) affermare che l’ultima cosa da dire in certi casi è: “Devi lasciarlo”. Come se la tizia in questione non lo sapesse già.

Per il resto, la Petulante aveva ragione: il mio corpo è stato l’unica guida mentre la testa svariava. Il ventre contratto mi ha fatto da bussola in quei giorni di finta estate, di strategie surreali e di ciclo bloccato, che in un anticlimax mi va tornando man mano che smetto di cercarmi le cose in valigia e “prendo possesso” della casa, o almeno ci provo.

Questo linguaggio del corpo segue un percorso a me ignoto, diverso dai miei soliti schemi mentali.

“I segnali che ti mandava il corpo ci sono sempre stati” sorride la Petulante. “La differenza è che adesso impari anche a notarli”.

Magnifico: io non vedevo i segnali, e Bruno non vedeva me. Nei suoi occhi ho trovato solo le mie paure.

“Avevi perso i punti fermi” chiosa la Petulante. “Risentivi della condizione di straniera, del licenziamento, dell’università che non ti pagava neanche l’assegno di ricerca promesso…”.

Insomma, a un certo punto pensavo di non valere niente, e mi sono trovata qualcuno che fosse d’accordo con me. E siccome ritenevo impossibile cambiare la mia vita, ho provato a cambiare lui.

Dio santo. Quello che mi spiazza di più è che pensavo di avere le cose sotto controllo, e invece ero del tutto fuori strada. Mi perdonerò mai per questo? La Petulante infierisce.

“Vedi cosa succede a non essere in contatto con le proprie necessità? Credevi di aver comprato la casa ideale, anche se piaceva solo ai tuoi. Credevi di aver trovato il corso che ti avrebbe riportato all’università, anche se il titolo che rilasciava era carta straccia…”.

Annuisco. Soprattutto, conclude lei, pensavo che un tipo con difficoltà evidenti a innamorarsi (o almeno, a innamorarsi di me) fosse ormai “tornato sul serio”, solo perché in quel momento gli serviva una spalla su cui piangere.

Mica solo una spalla, faccio per dire, ma sono troppo annichilita per scherzare, e la Petulante preme perché ammetta una cosa: l’intuizione, o almeno la capacità di capire cosa voglio, è importante almeno quanto la logica. E sì, passa per le sensazioni del corpo.

“Pensa a quante strategie hai elaborato per tenerti Bruno: com’è andata? Al primo soffio è crollato tutto il castello di carte”.

Castello di carte? No. Di carta, semmai. È bastato un imprevisto idiota, uno scambio linguistico con la bionda sbagliata (o quella giusta, magari…), e l’illusione che tutto volgesse al meglio è andata distrutta. Anche gli “esercizi” della Strategica erano trucchetti da baraccone, ma almeno mi hanno fatto capire una cosa: è ora di cambiare strategia. Sul serio.

Voglio trovare la forza di tradire Bruno con me. Anche se in questo momento sono l’ultimo dei suoi pensieri, ho ancora questa sensazione: progettare una vita senza di lui è un tradimento. Ed è anche l’unica scelta che ho.

Se per qualche tempo devo affondare in un pozzo nero, voglio che almeno mi serva a cambiare, una volta per tutte. Questo qui è un “almeno” che potrei amare. La Petulante solleva la testa dal taccuino:

“Sarà un po’ come imparare di nuovo a camminare”.

Sgrano gli occhi:

“Quante cazzo di volte bisogna imparare a camminare?”.

La Petulante mi sorride:

“Tutte quelle che servono”. 

A venerdì per il seguito!

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Affilata

Eccola.

Mi basta un’occhiata alla foto per stringermi la giacca al petto. È lei, non può essere che lei. E non è la prima volta che spio il Facebook di Bruno, in cerca delle ultime ragazze che ha aggiunto. Lo facevo, odiandomi, dopo una festa o un evento allo Spazio, quando lo vedevo sdilinquirsi per una davanti ai miei occhi. Trovare la fortunata tra i suoi contatti mi rinfrancava quasi: era stato proprio lui a dirmi che gli costava fatica, chiedere l’amicizia a quelle che gli piacevano sul serio. Non per niente mi aveva aggiunta subito.

Invece mi ha mentito, penso osservando la foto della Biondissima. È la prima volta, con una che gli piace, che non riesco a decidere cosa ne penso. Guardando la foto ho solo freddo. Sarà che sono sudata: ho fatto una corsa fino alla “tenda berbera”, che già veniva smontata, per recuperare i documenti dimenticati sul tavolino accanto ai noccioli d’oliva.

Ma non è quello. La sensazione di gelo non si placa davanti a questa ragazza troppo impegnata a mettersi in posa, per sorridere all’obiettivo. I suoi occhi sembrano chiedere: “Lo sto facendo bene?”.

A quanto pare sì, le rispondo muta. Ed è quella promessa di un’eterna distanza a comunicarmi che tra me e Bruno è finita. Io non saprei replicare quel gelo perfetto. Mi accorgo che nella posizione che ho assunto mi sto quasi abbracciando.

Il pomeriggio seguente, Bruno ha appena visto la casa e già la odia.

Attraverso i suoi occhi mi accorgo che ha ragione: la controsoffittatura è atroce quanto il mobilio d’accatto, ed è un obbrobrio l’orologio con Amore e Psiche appollaiati sul quadrante, le loro schiene in movimento riflesse nella specchiera. Il profluvio di tappeti pretenziosi ricorda quegli alberghi che è inutile ristrutturare, tanto verranno rasi al suolo appena l’anziana coppia di titolari andrà in pensione. Come ho fatto a scegliere quel posto per viverci? Mi sono fatta due conti, devo ricordarmi: il prezzo era quasi incredibile per la sua convenienza, e a mettere i soldi provvedevano i miei… Ma capisco ciò che Bruno sta pensando, mentre si getta su un divano damascato in salotto: io ho potuto comprare casa e lui no, ed è ingiusto, e ha ragione. Non so se ha anche bisogno di un motivo per disprezzarmi, adesso che si definisce ad alta voce “un proletario” e io capisco che è venuto per obbligo, per senso di giustizia. Il suo modo di guardare il balcone che ha davanti, e mai me, mi comunica che non mi deve spiegazioni, ma me le concederà lo stesso. Non che sia strafottente o maleducato, anzi. La sua nuova gentilezza sa già di distacco.

Prima del suo arrivo ero troppo ansiosa, così ho chiamato la Strategica, che mi ha prescritto un esercizio semplice: scrivere. Dovevo mettere nero su bianco qualsiasi cosa mi venisse in mente. Solo dopo sarei stata in grado di affrontare l’incontro.

Stavolta, però, la formula magica non fa miracoli.

Steso sul divano, Bruno mi sciorina un discorso pieno di espressioni ricorrenti. “Scelta difficile”, “frenare”, “insistevano”. Lo immagino nell’atto quasi comico di ammansire gli amici ruffiani, spiegando loro che “vedeva qualcun altro fino a cinque minuti prima”. Dunque la nostra “frequentazione” è stata solo un lungo vedersi. Peccato che Bruno non mi ha vista mai.

Ora guarda fisso il balcone su cui vivacchia una pianta troppo grande, per il vaso che la contiene, e io mi accorgo che sono arrabbiata con lui per mille motivi, ma quello che mi ferisce davvero è uno solo: non mi ama. Ed è l’unica cosa di cui non ha nessuna colpa.

Con dolcezza calibrata attira la mia testa sul suo petto. A un certo punto sembra addirittura sminuire la Biondissima, che non nomina mai. Devo reprimere ogni cocciuta speranza per ammettere che è scaramanzia, che lui sta minimizzando ciò che c’è stato con “questa persona” (un caffè, una passeggiata) perché spera tanto in ciò che potrebbe esserci ancora.

Il mio corpo è passato da accessorio a estraneo: l’ostacolo che lui deve aggirare per ottenere ciò che vuole davvero. Mi confessa che la mia prima notte in quella casa, quando mi ha mandato quel messaggio alle due, sperava proprio di trovarmi già a dormire, sfiancata dal trasloco. Non voleva rischiare che tra noi finisse “come al solito”, e io mi ritrovo a contemplare quell’anno di lividi e di lenzuola sfatte, rinchiuso in tre parole: “come al solito”. Tra noi finisce sempre in quel modo, si esaspera lui, ed è come se si stesse lamentando di un virus che ci contagiamo a vicenda, di una malattia venerea. Per questo è lì, ora, nel tentativo di “fare la cosa giusta”, e la mia logica ossessiva gli dà pure ragione: parte della mia strategia recente consisteva proprio nell’assecondarlo, quando pensava che noi due non fossimo niente, ed è venuto fuori che non eravamo niente sul serio. Poi il mio ventre si contrae in un promemoria: ho dovuto ascoltare il pettegolezzo di un amico, per scoprire che c’era un’altra. Quanto bisogna sbagliare la propria vita, perché succedano cose del genere? Ecco che mi sto già dando la colpa di tutto.

Bruno però mi rende l’onore delle armi: ormai dovrei saperlo che mi trova carina. “Assai”, scherza, scimmiottando il mio accento. Però lui a me basta e avanza, gli ricordo con un filo di voce, mentre io a lui no. Prima di replicare indugia un po’, come se fosse davanti a un test di valutazione:

“È che non sei abbastanza affilata”.

Il suo tono è quello scherzoso e un po’ dispiaciuto con cui si comunica una promozione sfiorata, o il risultato di una partita persa ai punti.

Lì per lì penso che si riferisca al mio umorismo, o al carattere. Mi è sembrato ovvio a una prima occhiata che la ragazza della foto fosse… pungente, come il freddo che mi ha trasmesso. Ci metterò giorni a capire che Bruno intendeva proprio quello: i miei lineamenti, il mio corpo con le antiche rotondità e i nuovi spigoli, non erano abbastanza affilati perché lui si innamorasse di me.

I tre baci dell’addio sono i più solenni di sempre, specie quello lento che mi plana sulla fronte. A sorpresa mi prende il polso e bacia anche quello.

“Sei sempre profumata”.

Flower di Kenzo. La boccetta resterà con me per altri tre traslochi: un piccolo relitto che non avrò mai più il coraggio di usare, né di buttar via.

A mercoledì per il seguito!

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Mudanza

Cazzo, l’acqua.

Il rubinetto è aperto al massimo, ma non esce neanche una goccia. L’uomo col mastino ha scelto il momento migliore: a quest’ora del mattino non ci sarà nessuno per le scale, e se voglio iniziare il mio ultimo giorno in questa casa mi tocca scendere sei piani, per riazionare il contatore. Sfioro i gradini in punta di piedi, pronta a risalire al minimo rumore… Invece il silenzio non nasconde sorprese. Cosa è successo, allora? Quando arrivo ad aprire la porticina dei contatori, scopro che tra le file ordinate c’è un vuoto, e “quel vuoto sono io”, penso con enfasi. Mi hanno tagliato l’acqua, mi cacciano già dalla casa che avrei dovuto abbandonare l’indomani. Adesso mi tocca traslocare subito dopo la visita dal notaio…

Rammaricandosi in chat per l’incidente, Bruno mi fa capire che stasera, dopo un reading di racconti a cui partecipa anche lui, potrebbe fare una capatina a casa nuova. Ma verrebbe “sul tardi”.

Negli ultimi messaggi ha usato di nuovo il termine “frequentazione”, che aveva abbandonato da un po’. Dopo settimane di tenerezza e dolore condiviso, mi sembra ansioso di ribadirsi che tra noi non c’era niente di che.

Dal notaio mi presento con uno zaino sportivo, contenente pigiama e spazzolino. Il mio avvocato scoppia a ridere e mi scatta delle foto, dichiarando che non ha mai visto nessuno presentarsi così da un notaio, mentre l’agente immobiliare scopre che, invece di dover calmare un’acquirente nervosa, deve sorbirsi i miei “problemi di cuore”.

Tra gli eredi del proprietario, un cinquantenne coi capelli brillantinati e l’accento di Siviglia mi presenta sua moglie, che col linguaggio fiorito delle sue parti chiama “mi esposa”: quell’espressione dolce e concreta mi ricorda le nozze a cui ho assistito in Italia, tra le montagne indifferenti e lo scoglio su cui ho fatto da Partenope spiaggiata.

“Sei proprietaria?” grida al telefono mio padre a cose fatte.

Ah, già: stringo in mano delle chiavi che sono solo mie, e neanche riesco a gioirne.

L’amico agente vorrebbe strangolarmi. Sta ricevendo pressioni per diventare un finto autonomo, dalla trattativa con cui mi ha spuntato un prezzo miracoloso ha ricavato meno di trecento euro. Passa il giorno a vendere case che non può permettersi, e lo fa per pagarsi gli studi di psicoterapeuta. Non a caso, nel taxi che condividiamo per tornarcene nel Raval assume lo stesso tono della Petulante.

“Questo Bruno ha mai ammesso che stavate insieme? Lo sapevano anche i vostri amici?”.

Questo no, spiego, ma almeno nell’ultimo mese non fingeva più di ignorarmi. L’amico agente scuote la testa.

“E tu ti accontenti degli almeno?”.

Già. Una volta li detestavo.

Improvviso il trasloco con la collaborazione di un vicino stanco, che si carica gli scatoloni più urgenti su un carrello della spesa.

In spagnolo, il trasloco si chiama mudanza: la parola mi dà l’idea di un cambiamento improvviso, ma felice. Invece adesso aiuto quell’uomo già assonnato a non far sbandare il carrello sui marciapiedi, che si restringono inesorabili con l’avvicinarsi della Rambla. A casa nuova potrei avere già un intruso, un nipote del vecchio proprietario che è andato “a prendersi i materassi”: così mi ha annunciato quel vecchietto pieno di eredi nel consegnarmi le chiavi. Il notaio si è limitato a sorridere, mentre io programmavo anche quest’ultima corsa in agenzia, per recuperare la chiave mancante. Tre stanze da letto, e mi tocca dormire sul divano. O forse no: forse userò il lettino da campo, ancora disseminato dei peli della gatta.

Le stanze sono vecchie e arcigne come le ricordavo, ma è facile scegliere la meno brutta in cui accamparsi: ha il parato stinto, ma a fiorellini azzurri, e un balconcino che affaccia su uno di quei vicoli troppo vicini alla Rambla, che si riempiono di piscio il fine settimana. Ricordo che è venerdì.

Sono le undici quando immergo le bacchette nei vermicelli da asporto, presi nella catena di wok cinese che ho appena scoperto sul vicino carrer de Sant Pau. Il televisore lasciato come un relitto in salone è un modello antico, sull’unico canale visibile una bella donna sulla cinquantina descrive con voce suadente il significato di una carta, La Temperanza. È quella che vorremmo tutti, ammicca la maga guardando in camera.

Il cellulare mi si illumina proprio mentre lo sto spegnendo, rannicchiata nel lettino da campo. Il messaggio di Bruno è così breve che, per leggerlo tutto, non devo neanche aprire WhatsApp. Sei sveglia?

Sono quasi le due.

Mi scopro a spegnere il cellulare, senza rispondere.

A mercoledì per il seguito!

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Qualcosa che non ho visto

Adesso mi tiene addirittura per mano.

Lo fa quando siamo in strada, non sempre però. La “relazione”, come ora la chiama anche lui, torna a essere un chiaroscuro definito dalle assenze: condividiamo la passione, non i problemi. Al massimo sono io ad accollarmi i suoi, le ansie per quei soldi persi che gli guastano le ore. Lui però mi offre riparo a casa sua, quando l’uomo col mastino mi manomette il contatore dell’acqua e devo scendere sei piani a ripristinarlo. Il mio terrazzo resta chiuso: non c’è più la gatta ad acciambellarsi sotto l’amaca, e passata l’estate comincia pure a far freddo.

A un certo punto devo ammettere che l’euforia da fine estate è finita. Le scartoffie per comprare casa nuova non finiscono più, e il ciclo non torna. La Petulante mi sciorina ancora la storia del corpo che capisce le cose prima della mente: c’è qualcosa che mi mantiene bloccata proprio ora che tutto si muove, qualcosa che non ho visto e non voglio vedere. Io sulle prime penso che farei bene a non vedere più la Petulante! Per smentirla mando a Bruno un messaggio molto schietto, insolito per la mia nuova tappa “strategica”: può farmi il favore di venire con me a visitare casa nuova? Vorrei un suo consiglio su certi cambiamenti da realizzare…

La replica è quasi telegrafica: è tornato a non avere tempo.  

Finisco io a casa sua una sera che siamo entrambi a un concertino in zona. Mi piace che Bruno dia per scontato che dormirò da lui, ma sembra quasi che succeda solo perché “si è fatto tardi”. Mi rimprovero subito per quei pensieri tetri, ma il giorno dopo sto già recuperando il mio spazzolino dalla tazza sbreccata in bagno. Non so neanche io perché lo faccio: ho ancora qualche asso nella manica, cazzo!

Nottetempo gli scrivo una lunga fantasia scaturita da un libro di filosofie orientaliste: una roba che, più che erotica, finisce per risultare mistica o allucinata.  

Il suo silenzio dura così tanto che risulta umiliante, dopo un messaggio del genere. Siamo tornati davvero a quel punto lì? Come se i mesi passati, i chili che ho perso, le tiritere della Petulante e i trucchetti della Strategica fossero solo un sogno. L’unica cosa a segnare il passo del tempo resta quella finta estate, che ormai scivola via nell’autunno profondo. Mi sento di nuovo al punto di partenza, e non è vero: quest’anno passato dietro a Bruno non tornerà più, come le energie e l’amore che gli ho sacrificato. Come l’amore che ho perso per me.

La risposta arriva di notte, ed è di quelle lunghe che accompagnano i suoi no.  

“Disconnesso”: così si definisce. Lo è per “circostanze” che non mi sta a spiegare (e io penso subito a un brutto scontro con l’amico del prestito). In ogni caso, in quel momento non gli sembra giusto “valicare i confini dell’amicizia”.

L’amicizia.

Ancora una volta, il corpo è il primo a reagire: sopraffatta dagli ormoni del ciclo bloccato, scoppio a piangere senza neanche accorgermene. Subito dopo, però, la logica ha il sopravvento. A scombussolare Bruno sarà stato senz’altro l’autunno, col suo “ritorno alla normalità”! Ci siamo rivisti in condizioni inconsuete per entrambi, a fine estate, ed entrambi siamo stati risucchiati dalla ricerca di un lavoro o di una casa. L’incertezza di ogni giorno ha preso il sopravvento.

Sì, non è il caso di preoccuparsi. Bruno a volte ci mette un po’, ma torna sempre.

A lunedì per il seguito!

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Luce

Adesso gli è tutto più facile.

Me lo spiega tranquillo, mentre chiacchieriamo tra le lenzuola sfatte. Una volta si rallegrava perché con me era riuscito ad abbassare gli standard. Adesso che quasi diventavo pelle e ossa, deve riconoscere che è più semplice andare con una ragazza che “gli piace pure”.

Mi si mozza il respiro, come ai vecchi tempi. Non commentare, mi ripeto. Lui dice tante boiate, ma poi finisce per fare la cosa giusta.

Me lo ripeto anche allo Spazio, mentre pianifichiamo la serata di beneficenza che sarà l’evento principale dell’autunno. A un certo punto, a Bruno viene chiesto in tono un po’ irridente se “in questo momento” lui stia con qualcuna, e lo sento esitare un istante solo prima di rispondere a bassa voce: “No”.

Sciocchezze, per una volta la situazione è sotto controllo! Sto meglio, sto comprando casa, è tornato Bruno. La Petulante non mi incanterà con le sue storie sull’ascolto del corpo, anche se ho questo formicolio alla pancia e il mio ciclo è bloccato. Finisce che ho un ritardo di due settimane, e so di non essere incinta: Bruno è ancora più maniacale di me nell’evitare rischi. Di certo sono i nervi per la casa, e per le scartoffie di un titoletto universitario che, nei miei piani, mi farà rientrare in sordina nel mondo accademico. Ho ingaggiato a mia insaputa un falso traduttore giurato, e quando ho scoperto l’inghippo ho dovuto far ricorso a un’agenzia online. È ufficiale, l’Europa unita è una baracconata anche per chi ha il passaporto giusto: omologare un titolo di studio è un’esperienza massacrante, e pure costosa.

Ma chi se ne frega di queste minuzie! Dopo la nuova frenesia che ci ha presi, Bruno “passa” meno spesso, ma a intervalli costanti. È una cosa buona, vero? Darsi una calmata, crearsi una routine. È quello che fanno le coppie normali, come… come noi. All’improvviso non sono più un’ospite occasionale a casa sua, e una mattina, in bagno, sto per recuperare lo spazzolino dalla tazza sbreccata che ne contiene vari, poi la mia mano si ferma. Se lo lascio lì è più comodo, no? Mi chiedo pure se dirglielo o no, poi mi rispondo che certe cose è meglio farle e basta, che a ragionarci su si fa peggio.

Anche il suo modo di parlarmi delle ragazze è cambiato: non si dilunga troppo negli apprezzamenti, oppure evita proprio. Ridiamo insieme del fatto che la passione ritrovata abbia, come risultato inedito, quello di farci aguzzare la vista: anche io noto di più i bei ragazzi in strada! Un pomeriggio lui mi spiega che in un bar vicino casa sua, che organizza spesso eventi e scambi linguistici, ha conosciuto una ragazza pallida e biondissima che vuole imparare l’italiano. Bruno mastica qualche parola nella lingua della ragazza, ma vorrebbe approfondire, così loro due si sono dati appuntamento nel bar al prossimo evento. La mia testa sul suo petto si irrigidisce, ma lui non se ne accorge. È soddisfatto dell’opportunità, e non ha fatto apprezzamenti sull’aspetto fisico della ragazza biondissima: quando mai me ne ha risparmiati, su una che gli piaceva? E poi, non ho più niente di cui preoccuparmi.

È domenica e il sole inonda il letto stropicciato. In quella luce perfetta lo scopro a osservarmi: le sue iridi hanno una sfumatura dolce che non gli ho mai visto.

“È un piacere guardarti” confessa.

E allora mi godo la luce sulla pelle umida, e gli occhi di Bruno. Mi nutrirei solo di quelli, di lui.

A venerdì per il seguito!

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Qualcosa è cambiato

Da pupa.it

I risultati arrivano troppo presto.

Sul momento me li godo e basta, senza pensarci troppo: la Terapia Breve Strategica funziona! Il primo giorno passo in rassegna le cose più frivole che farei “se Bruno non esistesse”, come la metto tra me e me, e finisco per ripescare un vecchio lucidalabbra dall’armadietto in bagno. L’odore fruttato mi mette subito allegria, e decido di abbinare il colore a un vestito carino.  

Un giorno mi dirò che quella terapia così bizzarra dà risultati immediati, ma non duraturi. Lo ammettono anche i fondatori nei libri che ho divorato: bisogna lavorarci sempre, nonostante la sensazione immediata di star meglio. Così ogni mattina, davanti allo specchio, scelgo l’azione più piccola che farei come single. Ogni mattina mi scopro a uscire di casa canticchiando.

Stavolta invito Bruno da me perché non ho altra scelta. Ho mandato un messaggio collettivo nelle varie mailing list: è il mio onomastico, e ora che compro casa cerco anche qualcuno che occupi quell’attico al posto mio, per accelerare la restituzione della caparra…

Ma chi voglio prendere in giro? Desidero solo festeggiare il mio ritorno alla vita, al cibo. Tanto Bruno si dichiara subito in forse perché “ha da fare”, e per una volta penso che sia meglio così. La possibilità di vederlo placa sempre la mia ansia, ma se non viene continuerò con gli esercizi della Strategica, senza il rischio di interferenze.

Infatti alla festicciola mi diverto. Anche l’uomo col mastino si mantiene lontano dal mio muricciolo, come se quello fosse il suo regalo per me. Con certi amici cerchiamo su Google i titoli dei porno che parodizzano film famosi: Natural Porn Killers, Apocalypse Climax… Mi si scioglie il trucco dalle risate, e non me ne frega niente: i miei lividi sono ormai invisibili, ed è bello sfottere un genere che, nelle versioni più apprezzate allo Spazio, sembra fregarsene del piacere femminile. Riderci su in quel modo è un toccasana, e i melodrammi del passato non mi sembrano neanche più tristi o sciocchi. Sono solo inutili.

Bruno mi telefona verso l’una di notte: era a un incontro letterario a leggere racconti suoi, si è liberato solo adesso. Si trova dalle parti di casa mia, può ancora “passare”?

La festicciola è finita. Il mio vestitino di raso nero è tornato nell’armadio, mi sto struccando. Perché rischiare? D’altronde non ho più nulla da temere, sono immune al nostro psicodramma! Vero? Ci metto un po’ a replicare.

“Passa pure, ma sappi che mi troverai in pigiama”.

Tie’! Neanche lo accolgo all’ingresso: gli faccio trovare la porta socchiusa, mentre arrangio in cucina un piatto di avanzi. Dopo che avrà mangiato ci farò due chiacchiere e lo spedirò a casa.

A sorprendermi è il silenzio. Quando lo sento buttarsi sul divano, nell’eco dei suoi movimenti avverto una lentezza nuova. Allora esco dalla cucina col mio piatto di avanzi.

Mi basta un’occhiata per capire che qualcosa è cambiato. 

A lunedì per il seguito!

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Strategie

Alcuni nomi e fatti sono stati alterati per questioni di privacy, ma le cose sono andate più o meno così.

La soluzione è nei libri.

Me lo ripeto quando i miei sono ormai ripartiti, e posso passare il resto dell’estate in biblioteca. La gatta mi ha salvato: voglio che la sua morte assurda serva a ricordarmi che la vita è troppo breve, per passarla a frignare!

E il mio ritorno alla vita è stato sempre un ritorno ai libri. Per questo credo che “usare il cervello” risolva sempre tutto. Quando non l’ho fatto sono diventata solo un corpo, a uso e consumo di Bruno e della sua noia. La Petulante si inalbera: non funziona così! A mettermi nei guai è stata proprio l’ostinazione a non ascoltare anche il corpo… La Petulante è sempre più stronza.

E poi non mi risparmia certo i suoi tentativi di farmi ragionare, che espone in questi termini: se Bruno si innamora solo di quelle che trova strafighe, e io non sono poi ‘sto dieci, con chi me la voglio prendere? Sc-scusa? Ma sì, insiste lei, è che esco fuori dai suoi schemi! Lui si immaginava a mangiare torte nuziali a tre piani, e a un certo punto si è ritrovato davanti un bel dolcetto che non si aspettava di gradire… Insomma, concludo, sono una crostatina del Mulino Bianco. Mi chiede qué es eso.

A me “crostatina” non l’aveva detto ancora nessuno.

Meno male che Paul Watzlawick, di cui divoro la bibliografia, mi spiega che la realtà è solo una storia che ci raccontiamo. Se a un certo punto ci crea problemi, basta cambiare narrazione.

Manco a dirlo, in biblioteca sequestro tutti i testi sulla Terapia Breve Strategica (TBS), fondata da Watzlawick con un allievo italiano, e scopro subito che a Barcellona esiste un “centro di TBS”, il cui sito web è dotato di indirizzo mail: lasciate il numero e vi chiameremo.

La terapeuta mi telefona proprio mentre sto in biblioteca, e nella mia corsa indiavolata verso il bagno (per poterle parlare ad alta voce), mi faccio ripetere tre volte il suo nome. Il mio stato confusionale deve allarmarla: non viene spesso a Barcellona, si affretta ad avvertirmi, ma niente paura! La sua non è mica una terapia convenzionale, una seduta o due al mese basteranno, se lavoro bene…

Solo questo, mi doveva dire. All’appuntamento mi presento armata di fogli A4, con stralci del mio diario e un’antologia di conversazioni selezionate tra me e Bruno. Mi aspetto di ritrovarmi in una clinica o un centro medico, e invece finisco in uno studio legale riadattato per le sedute, davanti a un donnone di mezz’età che tra me e me già chiamo “la Strategica”. La vedo incenerire con gli occhi le mie scartoffie, prima di iniziare la tortura per cui la pagherò: cosa credo di ottenere, esordisce, con quella relazione sballata? Dovrei sapere che i maschi sono fatti per reagire a certi stimoli, ed è inutile provare a instillarglieli noi…

Oddio, fa sul serio? Se a qualche uomo fa comodo sentirsi l’appendice del suo pene, non sarò certo io a reggergli il gioco! La Strategica è colta alla sprovvista dalla mia conoscenza del metodo, e allora mi allarmo un po’: non ti arrendere, la imploro con gli occhi, prova ancora a farmi fessa e contenta.

Allora lei mi assesta una domanda trabocchetto: sei intelligente o sei stupida?

Sono stupida, ovvio! Se no, mi chiedo, cosa ci farei in uno studio legale riciclato, a farmi prendere per il culo da una che mi vuole riprogrammare la mente in dieci sedute? E neanche ci riesce, a quanto vedo…

Ma ormai sono lì, tanto vale spiegare che con Bruno le ho tentate tutte. Ho provato a “rispettare i suoi tempi”, e dopo sei mesi ero ancora un passatempo da concedersi dopo il bucato. Allora ho imposto i tempi miei, e sono stata mollata dopo neanche sette giorni di montagne russe. Quando ho provato io a chiudere, è tornato. Quando ci ha provato lui, è tornato. E io, dopo un po’, non sono stata più in grado di mandarlo via.

La Strategica ascolta tutta la tiritera, poi si gioca l’ultima carta. Prima di stare con lui ero single, vero? Non sono mai stata con lui, borbotto a mezza voce: quell’unica settimana “ufficiale” è stata una farsa… Diciamo che ero single, insiste la poveraccia. Come stavo, prima?

Benone, mento. Dovrei spiegare che avevo fame, e non sapevo neanche io di cosa.

“Allora” prescrive lei “pensa ogni giorno a cinque azioni che potresti fare da single, quindi esegui la più semplice. Dopo una settimana eseguirai le due più semplici. Ci vediamo tra tre settimane”.

Finalmente! Esco da lì con ottanta euro in meno (sul web mica c’era scritto il prezzo…), e una formula magica a cui aggrapparmi: non chiedevo altro che dei compiti da fare, delle azioni che dipendessero solo da me. Voglio solo riprendermi un po’ di controllo. Non capisco neanche come funzionerebbe, questa roba, e a dirla tutta dubito che funzioni.

E invece mi accorgo subito che è un trionfo.

A venerdì per il seguito!

Se vi piace ciò che scrivo, date un’occhiata al mio Sam: non glielo ricordate, ma ha vinto un premio proprio figo.

Ecco qui (scorrendo dal basso) le puntate precedenti.

Alcuni nomi e fatti sono stati alterati per questioni di privacy, ma le cose sono andate più o meno così.

Requiem per una gatta

Mi avvertono solo al mattino.

Sto scendendo le scale in fretta perché ho rimediato una sostituzione: un amico che insegna italiano ha avuto un’emergenza in famiglia, e ha affidato a me l’ultima lezione del corso. Già pregusto il viaggio in treno come una pendolare qualsiasi, e la sala professori in cui mi saluteranno con cordialità: la nuova “collega”. Forse dovrei insegnare italiano a tempo pieno…

La mia allegria, però, si infrange due piani più sotto. Il piccolo tunisino non mi guarda più con la curiosità che riserva alla “donna sola” nell’attico. Si sente molto importante a darmi la notizia, e allo stesso tempo ha timore.

La gatta è precipitata dal terrazzo condominiale.

Il pensiero mi stordisce. La sera prima ho sentito dei rumori provenire proprio dal terrazzo: il mugolio di un cane, e una voce familiare che provava a rabbonirlo. Quella voce, una volta, era gentile anche con me. Il ragazzino non è soddisfatto dei dettagli che mi ha fornito, come se avesse fatto i compiti a metà: purtroppo, si giustifica, “il signore che comanda nel palazzo” ha cambiato ancora la serratura del terrazzo comune, il che impedisce a chiunque di accedere al “luogo del delitto”.

All’improvviso non voglio più prendere il treno. Inutile fingere che sia solo il dolore a paralizzarmi: comincio a temere sul serio per la mia incolumità.

I miei genitori mi telefonano al ritorno dalla lezione, che ho tenuto con finta allegria. Mamma simula la nonchalance di quando è preoccupata davvero: adesso che vengono a trovarmi, promette, cercheremo insieme una soluzione.

Quale? Le case a Barcellona vanno per “momenti storici”, e in questo qui è impossibile trovare un buco in affitto senza un contratto di lavoro, o senza una di quelle caparre impossibili che, con una scusa o l’altra, non vengono mai restituite per intero. Ho trentadue anni, cazzo. Possibile che per trovare casa abbia bisogno di mamma e papà?

Della coppia che teneva la gatta, trovo solo il ragazzo che lavora da casa: non ha dubbi su chi sia il responsabile. 

Quando gli hanno riportato la gatta in fin di vita, ha scavalcato in un istante il muricciolo che lo separava dal terrazzo condominiale. Sul parapetto, tra i cavi tagliati delle antenne, c’erano escrementi. Eppure la gatta aveva sempre usato la lettiera: perfino io le facevo trovare in terrazzo una scatola di scarpe con dentro dei sassolini. Se l’è fatta addosso mentre “qualcuno” la tratteneva per buttarla giù, afferma il ragazzo. È un tipo alto e robusto, e il suo fidanzato è molto simile a lui: possono permettersi di provare una rabbia perfetta. Io a quella devo aggiungere anche la paura.

Un giorno scoprirò che i gatti precipitano e basta, se non ci sono reti a proteggerli. In quel momento non ne so nulla, né saprò mai se la spedizione notturna dell’uomo col mastino fosse una coincidenza, proprio quella notte. Così decido di far installare un gancio alle ante del terrazzo: per un po’ ingannerà l’ansia. Avrò più tempo per correre fuori se sento un tremolio prolungato di vetri.

Invece non trovo niente per placare il rimorso.

L’ultima volta che la gatta era venuta da me, l’avevo cacciata via. Si era messa a miagolare sotto la mia finestra in una delle notti che passavo a piangere, da quando Bruno se n’era andato. “Lasciami in pace!” avevo urlato fin dai primi miagolii, ma lei non voleva saperne di star zitta, e neanche io. Avevamo ingaggiato una gara assurda a chi urlava di più, lei sotto la luna, io nel buio perfetto. Non avevo le forze di alzarmi e aprire la porta sul terrazzo: volevo solo cancellarmi dal mondo, quella maledetta gatta non aveva il diritto di rificcarmici dentro.

Adesso è lei che non c’è più.

A lunedì per il seguito!

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Dove non muoiono le sirene

È il matrimonio a farmi decidere.

I futuri sposi con cui ero stata a cena dopo l’esposizione ci ospitano in costiera per le nozze, e con altri italiani a Barcellona volo fino a certe montagne a strapiombo sul mare, che fanno da sfondo al paese dello sposo.

Sono montagne del Sud Italia, brulle e perfette, fatte apposta per ridicolizzare il mio dolore che passerà, come tutte le cose umane.

Al banchetto nuziale, i piatti destinati a me fanno il giro dei tavoli. Li cedo a chiunque con la scusa della mia transizione a una dieta vegetale, ma nessuno si meraviglia troppo: è un’altra stranezza di noi “stranieri per caso”, approdati alla cerimonia con tenute improbabili e un italiano atroce. Se da fuori sembriamo un’armata Brancaleone, vestita per tutte le occasioni e per nessuna in particolare, al nostro interno le differenze geografiche si notano eccome.

Io e l’altro napoletano abbiamo insistito per offrire una “busta” consistente (che abbiamo finito per versare da soli, senza rivelarne l’importo generoso perché pareva brutto). Se ci svegliamo presto, scendiamo giù al villaggio a prendere i cornetti per gli altri, che magari preferivano solo il caffè. Io non è che mi svegli presto: in realtà non dormo affatto. Singhiozzando con la testa affondata nel cuscino, per non disturbare, riesco a chiudere gli occhi tra lo spuntare dell’alba e le sette in punto, quando suona la sveglia della mia compagna di stanza: dice che dal cellulare nuovo non sa spegnerla. E comunque lei continua a dormire come un sasso.

Al matrimonio, gli uomini del mio gruppo esibiscono cravatte sgargianti o camicie hippie, mentre noi donne sfoggiamo pagliaccetti fioriti, pantaloni lamé con lo spacco, e scarpe più o meno comode. Io sono in abitino lilla, e ho camuffato gli occhi gonfi in sfumature già minacciate dal caldo. Riuscirei quasi a mimetizzarmi con le invitate del posto, se non fosse per i capelli tagliati in una scalatura estrema, tipica di Barcellona, che addosso a me sembra un innesto malriuscito.

“Che problemi abbiamo?” mi viene da pensare a un certo punto. Non riusciamo ad appartenere a nessun posto, e ne facciamo un vanto. Le altre invitate si sono accentuate i ricci con la piastra, e i loro abiti da cerimonia occultano tacchi che toglieranno all’apertura delle danze, sostituendoli con le ballerine che nascondono sotto il tavolo.

Io non ballo, non mangio. A un certo punto mi apparto su uno scoglio, Partenope inappetente e sfatta dall’insonnia. Con gli occhi a quelle montagne logore riesco solo a piangere al cellulare con l’Amico, che non mi regge più.

“Veramente fai? Vai a goderti la festa!”.

Non ci riesco, spiego. E all’improvviso l’eco di quelle parole tra gli scogli mi paralizza. Ma è un momento: subito mi risollevo dalla mia posa di sirena spiaggiata, e mi rassetto il vestito.

Io che non riesco a fare una cosa? Inaudito, devo imparare!

Ecco che riappare l’urgenza di essere all’altezza, di coltivare un’immagine di me che non esiste ancora, ma deve esistere, o “è la fine”, anche se non so mai di cosa.

E invece è l’inizio. È marcio e sbagliato, ma è un inizio. Stasera mi va bene anche questo.

Finalmente mi giro verso quel Mediterraneo mite e aromatico, più familiare di quello che osservo dai moli odorosi di paella surgelata. Mi sono scelta una terra dove il basilico fatica ad attecchire, ma i mostri marini vivono felici, si innamorano e generano terre fertili. Forse le sirene muoiono solo in questo mare qui.

Dov’è che imparano a vivere, invece?

I festeggiamenti sono proseguiti senza di me. Su uno schermo allestito apposta per trasmettere video di amici lontani, un Bruno accaldato e quasi serio augura agli sposi di essere così felici da non crederci neanche loro.

Decido di rubargli quegli auguri, come se per una volta li avesse fatti a me.

A venerdì per il seguito!

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Ecco qui (scorrendo dal basso) le puntate precedenti.

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Sparire

Un’alternativa in 3D a YouPorn.

Per coniare la definizione ci metto diverse notti appannate, sospese sull’amaca tra le stelle e la gatta. Forse per Bruno sono stata soltanto l’unico corpo a portata di mano: roba da poco, ma questo passava il convento. Con un involucro del genere, era inutile perdere tempo a scoprire il contenuto.  

E invece “il contenuto” è difficile da rassemblare: devo rimettermi insieme pezzo per pezzo, e ne perdo tanti mentre l’estate inizia piano. Il paradosso è che il mio corpo inizia a somigliare a quelli amati da Bruno almeno in questo: nell’ostinazione a occupare il minor spazio possibile.

Chi mi incrocia per strada dice: “Stai sparendo”. Quel pensiero mi piace, e ormai mi nutro soprattutto di pensieri. I miei amici del Sud usano la parola “sciupata”, che mi riporta a una prozia con la fame di guerra che mi tampinava alle feste di famiglia, per vedere se mangiavo abbastanza (e intanto si nascondeva un dolcetto nella manica).

Non voglio nutrire la mia carne profanata, oltraggiata dal suo donarsi a qualcuno che ha risposto soprattutto con indifferenza e paragoni continui (e che amo ancora, nonostante tutto questo). Fasciata in vestiti sempre più piccoli, presi d’occasione, sono una Partenope di seconda mano, senza acque oscure ad avvolgermi. Per quello ci sono le stelle e i lamenti della gatta, che ha sempre fame. Io invece ingurgito quello che posso quando mi sento troppo debole.

Di conseguenza, visito sempre meno il panettiere sotto casa: un diciottenne magrebino che mi corteggia per ammazzare le lunghe ore davanti al bancone. Un giorno, insieme al cartoccio con la baguette precotta mi offre ridendo la sua compagnia. Posso addirittura scegliere tra lui e il suo collega, un coetaneo molto meno audace che lo osserva perplesso. Magari li preferisco entrambi, insinua il dongiovanni in erba.

Gli rispondo con un sorriso di plastica. Il cartoccio caldo resterà intatto, e il pane si trasformerà in un blocco di pietra. Come il mio corpo.

L’Amico di sempre mi segue da lontano, incapace di offrirmi altro che le sue interpretazioni: Bruno si è scelto per sé un copione che sfuma del tutto, con una donna vicino. Assento, ma non ci casco: la spiegazione più semplice è che in quel momento della sua vita non aveva di meglio.

Ma non riesco a essere cinica fino in fondo. Quel posto che conoscevamo solo noi, fatto di litigi e risate, lenzuola spiegazzate e carezze al mattino, quel posto io l’ho visto. L’ho abitato. Se Bruno si racconta che non è mai esistito, non sono io a perderci.

Lo rivedo alle feste di un quartiere che io detesto e lui ama: ormai fa caldo, e sono strizzata in un vestito taglia S, che comincia pure ad andarmi un po’ largo. Lui è con gente che non frequenta lo Spazio da un po’. Mentre chiacchiero a mezza voce con gli altri mi sento i suoi occhi addosso, e mi viene quasi da ridere: è dall’inizio della serata che non smetto di confrontarmi alle passanti. Questa gli piacerebbe più di me, quest’altra no...

Di lì a qualche giorno “passa” da me per questioni relative allo Spazio: mancano pochi mesi all’evento di beneficenza che dovrei coordinare. A un certo punto il discorso tra noi si fa teso, scivoloso. Sul letto ci finiamo soprattutto a parlare, finché non riassumo la situazione.

“Il problema è che io ti amo, e tu invece…”.

Non gli ho mai detto “ti amo”. La frase lo colpisce come un’accusa, come una faccenda domestica che non ha sbrigato come si deve. Mi spiega che un amico che era con lui alla festa di quartiere ha capito cosa c’era stato tra noi due. L’ha capito dal nostro… linguaggio del corpo.

“L’unico che sappiamo parlare” sorrido. “Perché mi guardavi in quel modo?”.

Ci pensa un momento, poi confessa:

“Stavo cercando di capire se eri molto carina oppure no”.

Un altro esame. Non mi dice se l’ho passato, forse per farlo dovrei sparire sul serio.

Per quanto ci provi, però, proprio non riesco.

A mercoledì per il seguito!

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