Archivio degli articoli con tag: dolore
Papale Papale/ L'università un po' Tafazzi

E sì, scusate, ormai sono fissata con la storia degli obiettivi e dei bisogni. A ‘sto punto, se permettete, chiudo il discorso.

Lo faccio nel più classico dei modi: non dormendo.

Oddio, non è che l’insonnia mi capiti spesso, ormai: la melatonina fa miracoli! Però ci sono ancora due problemi che possono rompermi il ritmo circadiano, e pure le gonadi: l’apparecchio notturno per i denti, e il ciclo.

Per fare il botto, i due ostacoli devono combinarsi in qualche modo creativo, e deleterio per la mia salute mentale.

Quanto all’apparecchio per i denti: ricordate quando lo andai a ritirare in pieno lockdown, dopo trentadue giorni che me ne restavo tappata in casa? Avevo lasciato il compito di fare la spesa al compagno di quarantena, che al contrario di me aveva sempre l’urgenza di uscire. Quindi, dopo un mese passato ad attaccarmi come una cozza ai miei manoscritti (e al Kobo), me n’ero uscita vestita da marziana, con tanto di guanti di plastica e mascherina regalata da un vicino: mi aspettavo scenari da 28 giorni dopo! Invece mi ero ritrovata davanti stormi di uccelli installati in pianta stabile in plaça Urquinaona, e certi palazzi che, da vuoti, sembravano ancora più grandi.

“Mi raccomando” mi aveva poi ordinato il dentista da sotto la mascherina “il primo anno ti metti l’apparecchio ogni notte. Dal secondo in poi, l’importante è la costanza“.

Ricordatevi bene ‘sto fatto della costanza, perché io l’altra notte me l’ero scordato. Perché? Avevo un piccolo problema a fare da interferenza: certi crampi mestruali che, sul serio, sembrava che stessi per partorire in una notte sola tutto il mio odio. Verso chi? Beh, verso:

  • la ricerca: se fossero gli uomini la maggioranza mestruante, sarebbe già in commercio un’anestesia locale portatile che ti addormenta la zona per due settimane, premestruo compreso;
  • la ginecologia, che ancora nel 2021 consiglia il magnesio o l’impacco caldo (rimedi che, per usare un tecnicismo, me chiavo ‘n faccia); oppure la pillola, che oltre a gonfiarmi come un pallone idrostatico ha il curioso effetto di farmi guardare anche Kim Rossi Stuart (che come sapete è mio marito) con la stessa libido con cui osserverei un piatto di broccoli scaldati.

Insomma, intanto che covavo odio, e fissavo il vuoto con la panza in mano (quando le spinte allo stomaco non mi costringevano a trascinarmi in bagno), mi dicevo: “Oddio, mi sono dimenticata l’apparecchio notturno!”. Che, in quelle circostanze, sarebbe diventato una tortura che neanche i colleghi del buon diavolo Geppo, quando Satana è in forma.

Ma io stavo seguendo un regime scrupolosissimo: come da prescrizione, avevo indossato l’apparecchio ogni notte per tutto il primo anno, e da qualche mese lo facevo a notti alterne. Dunque, quella notte che stavo letteralmente con la panza in mano, stavo trasgredendo alla grande regola imposta da… Da chi? Da me.

Vi ricordate la costanza di cui parlava il dentista? Vi risulta che in qualche lingua si traduca in “una sera sì e una no”? Anche nelle riviste mediche online, gli articoli in inglese ‘mericano, che chissà perché ci risultano più autorevoli degli altri, parlano di portare l’apparecchio notturno circa tre volte a settimana. Ergo, magari due giorni di fila te li puoi anche saltare! Specie se ti ritrovi come unica invitata al grande festival dell’insonnia, che si tiene giusto in camera tua. Anzi, già che ci siamo: se l’apparecchio, piuttosto scomodo, è già efficace tre volte a settimana, perché devo aggiungerci io quella volta in più?

Ma niente, ero intrappolata nelle mie stesse regole, segno che per crearci dei bisogni inutili non serve desiderare una Mini Cooper, come scherzavo l’altra volta. Spesso vantiamo anche l’abilità di confondere il sacrificio col lavoro, e il solo fatto di consacrarci alla gettonatissima professione di Tafazzi (vedi sotto) equivale per noi a lavorare per il nostro bene.

“Eh, questo trenta me lo sono proprio meritato: ho fatto le nottate sui libri!”. Sì, ma era necessario? Nel senso, di mattina lavoravi? Se è così, massimo rispetto. Altrimenti, studiando due o tre ore al giorno per un mese, magari beccavi lo stesso voto. “Se bella vuoi apparire, un po’ devi soffrire”. A parte che la pressione estetica ha un po’ rotto, forse chi come come me odia i tacchi farebbe meglio a mettersi scarpe rasoterra e guadagnarci in sicurezza, piuttosto che camminare come se andasse sulle uova e rischiare anche di rompersi il muso.

Cosa voglio dire con tutta questa pippa mentale? Che soffrire non è un bisogno, né tantomeno un rimedio. Al massimo, in alcune circostanze, può essere un mezzo per raggiungere un fine: quello di raddrizzarmi i denti era uno sfizio che volevo togliermi da un po’, dunque l’apparecchio notturno è più che sopportabile, se ci manteniamo sulla formula “minimo sforzo, massimo risultato”. Quello che proprio non mi serve è seguire alla lettera una routine a giorni alterni che mi sono inventata io, quando un dentista vero e svariati articoli ‘mericani mi hanno fatto capire che non è necessario.

Ripetiamo insieme: il dolore innecessario non serve a un ca’. E sì che abbiamo bisogno di ribadircelo, con le nostre relazioni tossiche (davvero, cliccate sul link: è una pagina stupenda!), e le sciarpette che portiamo anche a maggio per ripararci da quella famosa malattia che esiste solo in Italia: il colpo di freddo.

Ah, le vette sublimi del sacrificio inutile: facciamone a meno, una buona volta. Lasciamole pure all’idolo qui sotto.

Pubblicità

Image result for fairy tale woman riding horse

Le manie di grandezza di quando ho il ciclo. Da: https://en.wikipedia.org/wiki/Rhiannon

Insomma, sono assediata tra il Natale e il ciclo.

Così, un giorno sì e uno no me ne resto a letto con Furia, Pegaso e Ronzinante. Che come avrete intuito non sono tre civette: smentiamo le malelingue che attribuiscono alle figlie di medico certi atti di zoofilia! Sono i tre cavalli che mi pestano il basso ventre fin da quando mi vengono i primi crampi premestruali, che un ginecologo ottimista, a suo tempo, ha paragonato alle doglie del parto.

Adulatore, hanno commentato gli equini. E hanno colto l’occasione per ringraziare del totale disinteresse verso fenomeni, sindrome premestruale e dismenorrea, che hanno il tremendo difetto di non riguardare gli uomini. Con i miei tre amicici correggo alle 6 del mattino, quando mi vengono a svegliare con una zoccolata a testa nei reni, gli ultimi capitoli del libro che pubblico ad aprile. Quando ho finito la revisione, circa cinque ore dopo, si vanno a fare una passeggiata nella bolgia qui descritta. Li raggiungerò presto, ma solo dopo un dormiveglia estenuato di mezz’ora.

Intanto, però, avrò sognato. O dormivegliato, che so io. Le cose di sempre: questo periodo, si diceva, è fatto di attese.

Ormai è pacifico che il tipo che doveva “farmi sapere” quando sarebbe andato a vedere quel film promettente ha perso, nell’ordine: il mio numero; la memoria; un’occasione! Oppure aspetta che la pellicola si proietti solo in un cinema d’essai sull’Everest, dove alla fine porterà ‘n’ antra zzzoccola (cit.).

Invece, dalla banca del prestito ipotecario mi fanno gli scherzi: mi chiamano che ancora sonnecchio con l’orribile maschera di nuvolette verde acqua, si presentano col tono di chi mi sta per dire qualcosa d’importante, e poi mi annunciano per l’ennesima volta che gli mancano documenti miei. Stavolta posso mandargli il mio contratto di lavoro? “Già ce l’hai nella richiesta di prestito, cara” rispondo più o meno “la tua collega sta ancora ridendo su quanto faccia schifo!”. “Ah, quand’è così grazie, buona giornata”.

Si è fatto attendere per i motivi sbagliati anche il WhatsApp dell’amico avvocato, troppo occupato per illuminarmi su un argomento a caso (il prestito ipotecario, giacché di cinefili rapiti dagli alieni non se ne intende), che infine mi risponde: Mission Impossible, ma parliamone a voce, uno di questi secoli.

Insomma, i miei dormiveglia premestruali e prenatalizi sono interessanti. Soprattutto quando mi chiedo chi me l’abbia fatto fare di interrompere la vita tranquilla, “no alarms and no surprises” (cit.), che mi succedeva fino all’anno scorso. Ne deduco che il corso di sceneggiatura mi ha fatto male, e maledico il prof. che mi ha insegnato il concetto di “rispondere alla chiamata“: succede quando la protagonista (cioè io!) decide di rompere la sua routine per intraprendere un viaggio che, in fondo, la porta alla scoperta di se stessa.

Però mi mancava questa, di scoperta: le visioni mistiche della mia mezz’ora di dormiveglia sono divise tra ah, se il passato tornasse (leggi “quello che rimpiango”), e ah, se la banca capisse che nel 2019 il tempo indeterminato esiste quanto Babbo Natale (leggi “quello che vorrei”).

C’è un grande assente: quello che potrei. Ovvero, quello che potrebbe essere, che potrei scoprire e godermi se la smettessi di pensare a cose che non possono tornare, o che non sono del tutto nelle mie mani (semmai sono in quelle, forse afflitte da paralisi temporanea selettiva, del tipo del cinema!).

E pare una grande banalità, ma non è facile essere abbastanza attenti a quello che ci circonda, annusare l’aria e carpire opportunità, fossero anche riassumibili in quella di goderci ciò che abbiamo.

Ebbene sì: ci vuole lavoro anche per quello. Ci vuole un’attenzione che, se siamo impegnati a concentrarci sul nostro passato, o su un futuro ideale, non avremo mai la forza e il tempo di mettere insieme.

Per questo, secondo me, le cose sembrano succedere più facilmente quando crediamo nelle coincidenze, o in un destino benevolo: siamo attenti a tutto per carpire chissà che nesso, e invece, secondo me, lo vediamo solo noi. E finché ci è utile va bene, il cervello si allena a trovare risorse non ovvie. Poi, però, rischiamo l’errore di crederci troppo, e finire per fare autentiche minchiate perché “i segni c’erano tutti” (quelli della nostra demenza, senz’altro!).

Però ci resta l’attenzione. E si coltiva con tempo e pazienza, come tutto il resto. Non lasciandoci distrarre neanche da quello che siamo sicuri di volere, più di quanto non ci lasceremmo rovinare una bella passeggiata da Google Maps. A volte, la fretta di raggiungere la nostra meta ci toglie la curiosità di esplorare i dintorni.

A me, nel giretto lungo che poi ho fatto al posto della spesa – ho depistato pure i cavalli! – è successo di vedere il consueto suonatore africano del Parc de la Ciutadella, che strimpellava uno strumento a corde che come vedrete sotto si chiama kora, mentre cantava canzoni in un francese fiorito. Stavolta, però, era in compagnia: accanto a un connazionale che danzava in onde dinoccolate, s’era messa a zompare in maldestre imitazioni una schiera di bambini biondissimi e pallidissimi, che seguivano entusiasti il ritmo.

“Voglio vedere come balli, Barcellona!” gridava il suonatore, arrotando le erre.

Devo dire che adesso lo voglio anch’io.

Soprattutto, voglio proprio vedere se riesco a stare al passo.

L'immagine può contenere: cibo

La Parlata Igniorante supera se stessa! https://www.facebook.com/laparlataigniorante/

Allora, a Capodanno a Barcellona si va in piazza con dodici acini d’uva e si aspettano i rintocchi della mezzanotte.

A ogni rintocco s’ingoia un acino (sì, uno per mese). Chi lo fa ogni anno mi giura che finisce con la bocca piena d’uva, e va in giro sputando semini.

Io ve l’ho detto, così dal prossimo Natale mi venite a trovare voi: se ogni anno devo venire al paesone per ammalarmi, grazie ma ho altri progetti per le feste.

Però chi sta da una settimana tra le stesse quattro mura ha tanto tempo per fare riflessioni sceme, e una è sul dolore. Considerata l’importanza di tali quattro mura nella mia storia personale, mi sto riferendo a tutto il dolore possibile: da quello per l’ultimo torroncino papabile che ti fa sparire tua cugina, a quello perché la casa di sotto è disabitata da un po’, ormai.

Sul dolore sono noiosa, penso sempre che la via più efficace sia conviverci. Grazie al ca’, direte voi, ma ad arrivarci ce ne vuole. Avete presente da bambini, quando seduti a tavola al cenone simulavamo noncuranza dopo aver ricevuto un roccocò nelle gengive da nostra sorella? (Basta con le armi bianche, proibiamo i roccocò). Ecco, in quei casi quanto ci mettevamo ad abbandonare tutto l’aplomb inglese per metterci a frignare senza ritegno?

E invece nelle feste il dolore deve avere un posto speciale, secondo me: quello defilato ma fisso del parente non invitato che tanto a tavola si siede lo stesso. Come la pietruzza nel cappelletto di altri Natali più nordici, che si lasciava lì a ricordare che la festa prima o poi finisce e torna il dolore (poi dice che siamo un popolo sadico).

Ecco, funzionerebbe così con tutto, e il Natale è la tipica festa caciarona, cafona qb e lunga a sufficienza da ricordarselo.

Allora, ci vediamo Una poltrona per due e salutiamo col pensiero quello stronzo del capo, che non ci ha detto se a gennaio ci rinnovava il contratto o no.

Litighiamo per chi debba scendere a ritirare il pacco spedito da zia Cassandra, e intanto salutiamo via il secondo anno passato senza riuscire a farci il mutuo.

Guardiamo la bambola di nostra nipote e ci chiediamo se sia poi così saggio metterle in mano solo bambole, e solo a lei, che magari da grande si sente menomata se non ne fa una in carne e ossa, e metti che viene pure un’altra crisi, oppure ancora non si è trovata la quadratura del cerchio tra smettere di seguire le tradizioni e sposarsi con le bambole gonfiabili.

Un giorno la troveremo, però. La quadratura del cerchio, o la ricetta degli struffoli perfetti.

Sarà più facile trovare il guanto destro che zia Gioconda ha fatto a Michelino, perso a un certo punto tra il terzo secondo e il quarto contorno.

Ma vedrete che uno di questi Natali salta fuori anche quello.

Nessun testo alternativo automatico disponibile.

Di Francisco Goncalves, fotografo, “immigrato”. Come me.

Come sempre il problema è l’impotenza.

Non poter fare assolutamente niente.

È la prima cosa a cui dovresti rassegnarti, e l’ultima che accetti. Anche perché alla fine qualcosa di buono da fare lo trovi, se vuoi. Se riesci a non abbandonarti alla disperazione che sfocia in rabbia che sfocia in razzismo che sfocia in una battaglia sui social tutta da dimenticare. Se invece vedi come puoi donare sangue, quali notizie utili puoi diffondere, e ti prepari in silenzio (un minuto, per la precisione) ai giorni a venire.

Io ieri pomeriggio ho deciso di abbracciare pienamente l’impotenza, e il fatto che non avrei ricevuto notizie certe chissà per quanto ancora, e di uscire di casa dopo un’estenuante ora a rassicurare tutti. Tanti mi volevano viva, e li ringrazio. Tanti volevano morto qualcun altro, e non credo serva.

Così mi sono detta: oggi è un buon giorno per andare in banlieue. Era tempo che volessi farlo, sapendola relativamente vicina. Ora o mai più.

Ci sono riuscita?

Col cazzo, mi ha sorpreso la pioggia a Pantin.

Troppo tardi perché il mio incedere furioso nel lungo abito fiorito, e l’ambiguo scialle nero gettato sui capelli alle prime gocce, non attirassero l’attenzione dei ragazzi divertiti. Potevo essere una Fantine in sottana, una Samira confusa con le braccia da fuori, o una turista italiana che non si faceva i fatti suoi.

E niente, quindi: pioggia, saracinesca accogliente di fronte a una pasticceria maghrebina, Pantin.

Ogni tanto veniva qualcuno a rifugiarsi vicino a me, colori diversi, accenti diversi.

Aspettavamo in silenzio il momento di riprendere la fuga sotto le grondaie, presi dalla stessa voglia di restare asciutti, tornare a casa, scansare un raffreddore.

L’essere umano è così prevedibile, quando funziona bene.

Il Pantin l’avevo visto con Gavino, almeno ai margini.

Gli avevo chiesto notizie sulla gentrificazione a Parigi, per riferire poi a Barcellona, e lui mi aveva portato lungo il canale una volta squallido all’estremità di questo comune, che adesso però si sta facendo fighetto, con case da vendere a peso d’oro e bar fatti apposta per strizzare l’occhio ai turisti che vanno al Parc de la Villette.

Ma se ci si arriva passando sotto il Boulevard périphérique, i Quatre Chemins della scritta sulla metro mi ricordano sorprendentemente i Five Points di Gangs of New York. E le sigarette di contrabbando vendute a mezza voce, se è per questo, mi sanno tanto di Forcella. L’unica differenza è che nel mio vecchio quartiere napoletano non bisogna essere nati altrove, o figli di nati altrove, per essere poveri.

Quando è spiovuto mi sono avviata anch’io, il ritmo bangla di un ristorante pakistano mi scacciava via ogni perversa tentazione di cantare canzoni italiane di lacrime e pioggia. Anche perché la seconda stava scemando e le prime non riuscivano a scendere.

Ovviamente mi sono persa, approdando davanti a una sopraelevata e a un negozio chiuso con attaccata fuori la storia dell’Abbé Pierre, “l’Insorgente di Dio”. Prima di morire nel 2007 aveva denunciato l’operazione vergognosa di ghettizzazione, e speculazione, che interessava le banlieues.

Lo stomaco era stretto e per principio contrario ho deciso di aver fame.

Non è molto lusinghiero che il kebabbaro sotto casa abbia sgamato subito la mia origine al pronunciare “felafel”. Ma perché non ce li hanno mai, da queste parti? E ja’, a Barcellona li offrono i pakistani, è come se io vendessi strudel.

A proposito, i miei vecchi vicini del Raval come staranno, quando finiranno le lacrime e caleranno gli avvoltoi? Bene, speravo. Barcellona fa almeno questo: il passaporto non tanto te lo guarda, se la rispetti.

In ogni caso, mi dicevo reggendo la melanzana d’asporto con uno strano couscous a sostituire il basmati dello shawarma, a me non importa più dove succedano, queste tragedie.

Prima di tutto perché sono giorni che passo tra soldati armati di mitragliette: ieri su Avenue Jean Jaurès erano quattro e volevo scansarmi, a costo di strisciare contro il muro, ma un ragazzo nero vicino a me gli è passato giusto in mezzo, e io non volevo essere da meno. Dopo sì che piangevo un po’.

E poi perché Napoli, Manchester, Barcellona, mi si susseguono sottopelle senza soluzione di continuità, senza confini coi posti che vedrò o che non vedrò mai.

Nella grande città che mi si dipana in testa, certe cose succedono sempre sotto casa mia.

Perché è ovunque.

 

Risultati immagini per broken vase funny  Insomma, avrete capito che ultimamente mi succedono disavventure la cui soluzione rientrerebbe facilmente nella categoria prevete ricchione, un rimedio tutto partenopeo che si utilizza come extrema ratio.

Ma ecco insorgere in me quel tentativo, a volte un po’ insano, di “ricavare qualcosa di buono in tutto il brutto che mi succede”. Stavolta ho ascoltato volentieri la petulante vocina costruttiva, perché in quest’occasione mi è sembrata una buona consigliera.

L’idea è: compenserò ogni colpo della sfiga con qualcosa di buono.

Che so, pensavo di cambiare casa definitivamente ed è in atto una seconda bolla immobiliare? Conferenzina! Con esperti nel settore che aiutino a capire, e la speranza di reclutare tra il pubblico chi abbia i miei stessi problemi.

Mi hanno negato l’accesso a un secondo dottorato, per meno di un punto di media? Oh, io un dottorato già ce l’ho, vediamo se mi accettano così a collaborare col dipartimento. Magari faccio le stesse esperienze senza dover scrivere un’altra tesi.

La lezione privata mi slitta di un’ora perché l’alunna ha scordato le chiavi al lavoro? Fantastico! Anticipo il mio dopolavoro al Buenas Migas, con scone ripieno e bibita intrugliosa. Così dopo la lezione filo subito a casa, che piove pure.

Insomma, compensare i dispiaceri piccoli e grandi, vedere se dalle loro ceneri ricaviamo almeno lisciva, per lavare via la sfiga.

È una bella operazione da fare, sempre che si verifichi una condizione: accettare il dispiacere per il calcio in culo che è. Non cercare di sotterrarlo nella “compensazione” che ci siamo inventati. Altrimenti, invece di essere costruttivo, diventerà un’ossessione. Come la vendetta che possiamo covare contro un collega che è stato ingiusto con noi, una fidanzata che ci ha lasciati all’improvviso, un parente serpente che si sia “messo di traverso” in questioni ereditarie.

Perderemo anni a roderci per la giustizia che pretendiamo di ottenere (che è diverso dal riconoscerci vittime d’ingiustizia). Finiremo per procurarci vendette effimere che non compensano la perdita d’autostima, perché quella possiamo sanarla solo noi. Capendo che un colloquio andato male non ci rende degli incapaci, al massimo può spronarci a formarci di più. Che una rottura sentimentale ha più a che vedere con fattori esterni, che con quei quattro errori che in ogni caso, a partire da questo momento, tenteremo di non ripetere.

Quando cercheremo una compensazione, invece che una vendetta, potremo davvero ottenerla.

È quello che ho scoperto con la crisi che ha provocato la “svolta” un po’ niuegge a questo blog: il desiderio che lo schifo che stessi vivendo mi procurasse qualcosa in più dei due pantaloni di taglia “skinny” che adesso giacciono inutilizzati nell’armadio.

È un po’ come le maledizioni degli antichi dei greci: non possono essere cancellate, ma si possono controbilanciare con un dono.

Tiresia maledetto da Era non potrà mai recuperare la vista, ma grazie ad Apollo avrà il dono del vaticinio.

Ecco, io non ci ho mai visto meglio di quando ho smesso di esigere vendetta, e ho cominciato a  concedermi il perdono.

Risultati immagini per zaino invicta anni 90 su una spalla sola

Omaggio ai ’90 di skuola.net

In spagnolo i bagagli emotivi indesiderati si chiamano anche “mochilas”, zaini. Non bisogna, dicono, “portare il peso degli zaini altrui”. O caricare troppo i propri.

L’altro giorno mi è piombato addosso un Invicta da versione di greco in prima liceo, vocabolario Rocci incluso. Ero a una specie di colloquio di formazione, in una società in cui bazzicavo da tempo. La mia prima esaminatrice, oltre alle ragionevoli considerazioni su mie reali mancanze, mi ha sciorinato con veemenza sospetta una serie di remore che sembravano avere molto più a che fare con la sua vita e i suoi dubbi, che con la mia reale situazione.

Fatto sta che il suo giudizio è stato determinante nella mia esclusione dal progetto. Ho scoperto dopo che pagavo la sua diffidenza verso la mia prima formatrice. Troppo tardi.

Nello stesso giorno, su una pagina che amministro, sono stata bersagliata dal sarcasmo gratuito di un misterioso filantropo che dà sempre consigli su come trovare alloggio a Barcellona (tramite lui, ovviamente), e insulta chi gli faccia concorrenza in generosità, magari davvero gratis. Bannato al primo accenno di minaccia (tipo un meme che verteva sul darmi fuoco, “e non è una battuta”). Il mondo è troppo piccolo per i traffichini.

Per me l’esaminatrice e questo poveretto sono due facce della stessa medaglia. Succede in famiglia, nelle relazioni e, manco a dirlo, sul lavoro: l’altra persona vede in noi chissà quale aspetto di sé, o appioppa a noi i suoi problemi. Oppure, più semplicemente, ci troviamo nel posto sbagliato mentre un iracondo sta scaricando sull’intero universo le sue frustrazioni.

In queste occasioni ci sentiamo delusi e un po’ traditi, anche quando abbiamo fatto i conti coi nostri reali demeriti personali.

Però mi sono salvata la giornata, in un modo che vi consiglio: ho ammesso da subito il mio dispiacere, con me stessa. Fateci caso: quando ci capita qualcosa di spiacevole il primo impulso è spesso di distrarci, non pensarci, magari sperando davvero di smussare un po’ il ricordo della brutta esperienza, se non di cancellarlo.

Mi succedeva da piccola quando sfogliavo un libro di medicina di mio padre e, tra le foto colorate di cellule tumorali (che per me erano solo cerchietti), appariva l’occasionale primo piano anatomico. Per fortuna non lo riuscivo a decifrare, ma lo correvo a “cancellare” immergendo la testa in un fumetto.

Adesso so che non è il metodo più efficace, anzi. Quello che ti spaventa, ti domina.

E allora ho passeggiato con questa sensazione d’ingiustizia e impotenza insieme, che pian piano andava prendendo corpo. Ho lasciato che la lenisse una sincera analisi delle mie personali mancanze, senza per questo negarmi la rabbia per aver pagato le conseguenze dei problemi altrui.

Man mano che ho fatto questo, ho sentito il peso alleggerirsi, a tratti svanire.

Pensate a quanto tempo mi abbia risparmiato l’operazione! La tristezza è lì comunque, che fingiamo di vederla o no, tanto vale non sprecare ore a nasconderla, affrontarla subito.

E saremo liberi di goderci tutto il resto.

feelingsNegare il dolore non significa non provarlo, anzi. Arriverà meno intenso, forse, ma arriverà. E intanto che gli avremo chiuso le porte, scopriremo che non ci sono filtri: alle emozioni si rinuncia in blocco, se cacci il dolore cacci anche la gioia.

C’era questo gioco, in un programma per ragazzi dei lontani anni ’80, che si chiamava l’Imperturbabile. Ovviamente, mi colpì molto quella parola lunghissima. Il gioco, invece, diventò parte della mia vita: si trattava di stare lì immobili e anaffettivi mentre il resto del mondo cercava di farci ridere, o comunque reagire a provocazioni di vario genere.

Ecco, credo che lo conosciamo in tanti e ci giochiamo senza accorgercene. Conosco la sensazione dell’aver provato troppo dolore in determinate circostanze e ripromettermi di non passarci più, mi è capitato da giovanissima con la morte di persone care che mi hanno portato a isolarmi emotivamente dagli altri. La reazione, come noterete, è esagerata: perché perdersi gli ultimi anni in compagnia dei nonni al pensiero che la fine di questo rapporto potrebbe essere vicina? (Segue potente grattata dei nonni in questione)

E perché entrare in una relazione mai soddisfacente solo perché l’ultima volta, quando è finita, credevamo di morire? Andarci coi piedi di piombo non ci farà forse soffrire uguale? Solo che lo faremo a spizzichi e mozzichi, e senza le soddisfazioni di goderci il bel tempo finché dura (e potrebbe durare a lungo, non ingannatevi).

Ultimamente, invece, mi sono sorpresa a scoprire che ho trovato comunque il modo di soffrire di meno, coinvolgendomi di più nella mia vita.

Prima negavo il dolore, prolungando solo la sua permanenza; ora lo accetto subito, e abbracciandolo mi do la possibilità di:

– mandarlo via prima;

– scoprire quello che c’è dopo.

E dopo, al di là del dolore, c’è tutto il resto. C’è la vita nonostante il dolore. La vita che è cambiata e ora è pronta a riprenderci a bordo con nuove lezioni o nuovi strumenti per far fronte alle lezioni future.

E allora invece che a rimanere immobili, giochiamo a ridere. A piangere. A sentirci vuoti, quando occorre. A sentirci pieni, quando abbiamo questa benedizione.

Ma facciamolo, o resteremo ai margini della nostra vita, campioni d’imperturbabilità che però hanno perso la strada di casa.

Farfalle in volo La testa tanta che vi ho fatto all’articolo precedente è funzionale a quanto volessi ipotizzare adesso.

Il passato, si diceva, è di per sé narrazione. Possiamo decidere di manipolarlo e interpretare gli eventi come più ci fa comodo, per illuderci di star bene. Finendo magari per ripetere gli stessi errori.

Oppure possiamo usarlo come trampolino di lancio per reinventarsi, o, secondo una metafora che mi piaceva di più, come un parto di cui svanisca il ricordo del dolore ma resti il frutto, una nuova vita.

Non so, il pensiero mi ha consolato molto, nella fase più dura della mia crisi. Mi sono detta che non avevo le forze di “scegliere come reagire”, al contrario di un caro amico che ha passato molto di peggio.

Ma che, se intanto avessi imparato a seguire quella parte di me che “mi aveva avvertito” e che avrebbe saputo evitarlo, non sarebbe stato invano.

Vari mesi dopo, posso dire che non è stato invano. Il dolore non è un ricordo vago, magari, ma quello che ne ho fatto è qualcosa di vivo. È una me in costruzione. Spero di riuscire sempre a farlo, sempre che ce ne sia la possibilità (che non tutti i dolori la concedono).

Però attenzione. Cambiamo il passato ascoltandolo, non rivivendolo. Ripenso al Grande Gatsby e alla vita sacrificata a realizzare un sogno ormai sfumato, infranto da tutte cose che non potesse controllare: le circostanze (la guerra) e il libero arbitrio altrui (Daisy che alla fine si lascia convincere a sposare un altro).

La sua ossessiva ricerca del passato si sarebbe anche tradotta nella felicità, se si fosse “accontentato” della vita reale, di una Daisy tornata a lui, ma dopo aver amato un altro, una donna diversa dal ricordo e dalla fantasia che avesse avuto di lei.

E ricordate Goethe, ne Le affinità elettive, che biasima le coppie che realizzano un amore di gioventù, illudendosi di far rivivere i vecchi ardori?

Ecco, quello è il modo più sicuro di non cambiare il passato. Di riaffermarlo nella sua irreversibilità, proprio mentre cerchiamo di ripeterlo.

Se la vita ci dà una seconda opportunità, e per fortuna non è raro, non buttiamola cercandovi una compensazione al dolore sofferto. Va bene che io decida di dare un senso al passato condividendo con voi, su questo blog, le cose che mi sta insegnando. Ma se sperassi di tornare alla vecchia relazione per cancellarne la rottura, farei un danno a me, all’altra persona, e manderei tutto a monte.

L’unico modo per riuscire, in questa fantascientifica ipotesi, sarebbe tornare alla relazione nonosante la rottura, e non a causa di quella.

Meglio accettare di esserci messi in una situazione assurda, ridicola, di aver lasciato che ci chiudessero in un angolo o di essercisi messi da soli (ne parleremo in seguito), che rimetterci nelle stesse condizioni per il desiderio egocentrico e impossibile di cancellare l’accaduto.

Se la vita vi dà un’altra opportunità, vi invidio come una bestia (sorrido).

Ma rispondete al pratico questionario con cui vi viene consegnato questo regalo.

Perché lo vuoi rifare?

Per cancellare il passato e ricominciare daccapo.

Non puoi, è già successo. Sei una persona diversa, l’altro pure. Perché lo vuoi fare?

Perché ho sofferto molto, e che si ripari al torto che ho subito mi sembra il minimo.

Davvero? E chi si è infilato in questa situazione? Perché non ti sei fermata prima? Credi davvero che riprendendo qualcosa con livore la faccia meglio? Ripeto: perché lo fai?

Perché mi manca.

Ti manca questa persona o quello che cercavi di realizzare attraverso di lui? Lo sguardo di ammirazione che tu non riesci a darti allo specchio? Un’ultima volta: perché lo fai?

Perché sento che va bene così.

Anche se il passato non si cancella, se sarà difficile, se non riuscirai mai a trovare in qualcun altro l’approvazione che non ti dai tu?

Sì.

Se è così, in bocca al lupo. Riusciteci anche per me.

zainopesanteIn tempi molto recenti (ok, 10 minuti fa) stavo sul letto a litigare col Padreterno. Che confidenzialmente chiamo Madreterna e da agnostica inside ancora devo decidere se è il mio amico immaginario, se è un riflesso di me o se è proprio quella forza che permea di sé tutte le cose. Fatto sta che ci stavo intavolando un negoziato che manco Ban Ki Moon: “Di’ la verità, ti piace vedermi strisciare per terra a chiedere pietà? E ja’, mica sei così venale da volere davvero i fioretti, i voti? Che devo fare perché tu mi dia quello che voglio?”.

Non che ciò che volessi fosse sta gran novità, non ingannatevi, i problemi non si risolvono subito, specie se li affrontate come me. Che ovviamente mi sono esaurita, mi sono messa a piangere tipo bambino a cui hanno scassato il giocattolo preferito, e una volta rovinati trucco e fegato ho deciso: ok, allora mi carreo il problema.

Carriare è un gran verbo, affine a carry in inglese, ovviamente. Dà proprio l’idea plastica di sollevare la zavorra e mettertela addosso, tipo zaino. Tipo abbracciare la croce, ma meno splatter.

Oggi pomeriggio ho fatto la scopertona che lo zaino ce lo dobbiamo carriare, ma indossare, proprio, non una spalla sì e una no come l’Invicta alle medie.

Parafrasando Mademoiselle Chanel: trascinati dietro i problemi e allo specchio vedrai quelli. Indossali e vedrai te.

Perché ho fatto rivoltare a Coco nella tomba? Perché, giustappunto, fino a poco fa allo specchio vedevo solo il mio problema. Lo vedevo dappertutto, negli occhi infossati, nelle labbra contratte… Una volta che mi sono detta “Ok, ho questo problema, vabbuo’? E me lo porto appresso”, le cose sono cambiate. Ho rivisto me.

Funziona come il dolore dell’articolo precedente. Una volta “indossato” il problema, smetto di passare il tempo a negarlo, o a cercare invano una soluzione, e vedo che nella vita c’è altro. E magari allora, a mente libera, quella soluzione la trovo pure.

Questo farebbe di me una sfigata passiva e fatalista? Uff, ma perché non capite che l’accettazione è tutt’altro? Forse perché non lo capisco manco io, e che sta parola, accettazione, la schifo troppo. In barba a tutti i maestri spirituali di sta ceppa.

Ma so che vuol dire una cosa diversa da quella che m’immagino, dalla rassegnazione: l’idea è riconoscere di avere il problema, di non avere una soluzione e decidere di portarselo appresso come uno zaino, di essere noi + il problema prima che il problema diventi noi. E noi siamo più grandi del nostro zaino, vero? Magari aiuta anche esaminarne il contenuto, vedere se c’è un indizio per la soluzione, qualcosa che ci può servire per il futuro (a volte un cazzo, ma è difficile che qualcosa nella vita non insegni proprio un cazzo).

Sappiamo benissimo che camminare zaino in spalla è una faticaccia, ma può essere utile. Una volta apertolo, osservato il contenuto, fatto una cernita, esserci liberati di quanto non ci serve, diventa un bagaglio invisibile, di cui un giorno lontano, quando ormai ci avremo lasciato solo le cose utili, potremmo perfino essere contenti.

Continuate a leggere. Zaino in spalla, però.

OLYMPUS DIGITAL CAMERAIn un libro che non cito, perché per il resto è pallosetto, ho trovato una metafora del dolore che mi piace alquanto: è come un ospite molesto ma educato, se gli presti attenzione a un certo punto si stanca e se ne va.

E invece non so voi, ma io ci ho passato la vita, a evitare il dolore. Vi è mai capitato di stare a lavorare fino a tardi senza accorgervi della fame, del sonno, della stanchezza? Normale, è il flusso. E di cadere come me ieri, fare un bel volo, prendervi una storta a mano e piede e accorgervi solo molto dopo di quanto male vi faccia? È fisiologico, se capissi una ceppa di anatomia umana ve lo spiegherei pure.

Ebbene, a me tutto ciò succedeva sistematicamente. Mi ero resa immune da tutto, e tutto per evitare il signor Dolore. Che non è di quegli ospiti che, trascurati, se ne vanno e ti tolgono il saluto. No, è uno di quei vicini recidivi che bussano e ti chiedono zucchero, e già che ci sono si siedono, e “Avete appena fatto il caffè? Sento l’odore”, e allora una tazzina, e un pettegolezzo sulla figlia della portiera… Non se ne va più.

Ma tra me e il dolore è una bella guerra a colpi di cazzimma, e il problema di queste guerre è che alla fine le dichiari a te stesso, quindi vinci e perdi insieme.

Il problema però è che trascura che ti trascura, il trascurato passa alle maniere forti. Pretende l’attenzione che non gli diamo, e lo fa per noi. Sì, per noi. Che sia fisico o meno il dolore assolve alla stessa funzione: segnalarci che qualcosa non va. Non è un problema in sé, è sintomo di un problema. Ed è ridicolo cercarcelo, ma se tocca, la manera più sicura di avercelo sempre tra i piedi è evitarlo.

Perché allora non è più come un ospite seduto in salotto. Diventa il salotto stesso. Diventa una stanza, enorme e brutta e buia e puzzolente, e lunga che non finisce mai. Ma la devi attraversare, è l’unica cosa da fare per non restare in un angolino della casa e anelare quello che c’è dall’altra parte.

Perché una volta attraversato, il dolore ti mostra qualcosa d’insospettato, in cui non credi più, mentre lo attraversi. Che esiste un dopo.

E non è il Paese delle Meraviglie, eh, è un dopo di quelli della vita, lontani dai paradisi artificiali che solo la nostra mente sa costruire.

Ma una volta raggiuntolo ti chiedi solo perché quel caffè al dolore non l’avessi offerto prima.