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Castelleres femministe, foto di Alberto Ruggiero

Vabbe’, almeno questo si sapeva in anticipo, no? Si è passati dal cercare la scheda elettorale a cercare il passaporto, come scriveva qualcuno.

Ma la mia frase preferita è stata quella di Lorenzo, su Facebook:

Quindi il prossimo parlamento sarà diviso tra chi sparerebbe agli immigrati in Italia, chi gli sparerebbe mentre sono in mare, e chi invece li vuole rinchiudere nei lager fuori dall’Italia. Apposto così.

Ho spento la Maratona Mentana in streaming su un fascista che si lamentava perché non aveva avuto risonanza mediatica, intanto che gli Hipster Democratici sfottevano Viola Carofalo perché non reggeva il vino quanto loro l’ape (la cosa inquietante era che, da presunta ubriaca, era molto più sensata dei commenti “sobri”).

Qualche ora prima, una “talpa” mi informava che uno dei miei colloqui di lavoro per tornare un po’ in Italia era destinato a priori al fallimento, perché già avevano una nomination vincente (per riagganciarmi alla notte degli Oscar: a proposito, figo, il #nomakeupmovement!).

Che vi devo dire: io a votare ci ho provato, è stato un pastrocchio da esportazione degno dell’epilogo toccato alle schede una volta in Italia.

Non mi resta che tornare all’8 marzo a Barcellona: grande! Come vedete dalla foto, qua in Catalogna ci si è anticipati già da domenica, con castells femministi come questo alla Festa di Sant Medir. Si prevede anche un discreto successo dello sciopero generale, quelle che non aderiscono non sempre sentono il bisogno di manifestare un’excusatio non petita rompendo le ovaie a quelle che lo fanno (a parte le solite note).

Tra l’altro, qui, le feste si celebrano come piace a noi, con virgole e distinguo che pure io fatico a seguire: quest’anno accusano di transfobia il classico triangolo fatto con le dita (che l’anno scorso mi aveva divertito, al massimo lo avevo visto in gloriosi documentari in bianco e nero), e la stessa festa di Sant Medir è stata criticata per il maltrattamento dei cavalli, per cui mi associo: più castelleres e meno cavalls!

Insomma vi prego, per l’ennesima volta: facciamo ponti. Anche perché noi che viviamo all’estero abbiamo due o tre cose da dire sulla tiritera “Manchi da troppo in Italia, non capisci che problema sono diventati gli immigrati”.

Innanzitutto, noi in Italia ci torniamo, mentre interlocutori di questo tipo non vengono da noi, non più di un fine settimana. Poi viviamo proprio in posti in cui l’immigrazione è più alta che in Italia, e noi ne siamo parte (basta con immigrati vs expat!): sappiamo quindi che ce la si può fare, nei quartieri multietnici in cui viviamo, dove capisci che è una questione di povertà e non di origine geografica.

Anche Super Mentana chiedeva alle comunità musulmane di “schierarsi contro il terrorismo“: prossimamente su questi schermi, anche le comunità italiane chiederanno scusa per la mafia (no, era uno scherzo: non vedo perché dovremmo se non siamo affiliati, discorso diverso per colpe storiche che il nostro paese non riconosce).

Quindi smettiamola di partire da un problema concreto (i nuovi flussi migratori) per arrivare a conclusioni assurde (ci vogliono massacrare tutti) con epiloghi tragici (massacriamoli prima noi).

E buon 8 marzo, che ne abbiamo bisogno.

 

 

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Risultati immagini per italian restaurant Avete presente quei connazionali che all’estero diventano più italiani degli italiani?

Questa è una possibile reazione alla sensazione scomoda di essere “gli stranieri”, quelli arrivati da meno di una generazione, che vengono confusi con ladri e scrocconi se scuri di pelle, o con turisti e speculatori se appena un po’ più chiari. Non so se preferirla o meno a quelli che s’illudono che tifando Barça e mangiando fideuà verranno prima o poi riconosciuti come autoctoni.

Un’altra reazione, forse ancora più frequente, è il conformismo. Accettare di entrare perfettamente nell’immaginario che i nuovi vicini hanno di noi. In questo ci sono cascata io a 22 anni, a Manchester, quando mettevo a palla Mambo italiano (una delle perle di un CD ricevuto in regalo), chiedendo alle mie coinquiline inglesi se lo conoscessero.

Voi avete mai ballato Mambo italiano? Appunto.

In tempi più recenti, organizzando tra italiani stanziali una conferenza sull’aumento degli affitti a Barcellona, le proposte vertevano su due impostazioni: 1) ci facciamo portavoce dei poveri Erasmus, costretti ad ambire alle stesse esose camere dei turisti; 2) proponiamo la solfa “siamo buoni nonostante il fatto di essere stranieri”, scusandoci implicitamente per i connazionali speculatori (come se un bidello musulmano di Southampton fosse chiamato a sconfessare gli attentatori di BruxellesNo, wait).

In entrambi i casi, l’idea era di accettare lo sguardo altrui. Guardarci con gli occhi di quegli autoctoni troppo impegnati a difendere il loro mondo minacciato dalla gentrificazione, per vederlo nella sua complessità: autorappresentarci, dunque, come eterni Erasmus in odore di speculazione edilizia.

Non importa da quanto viviamo in loco e quanto sia difficile ottenere un mutuo, senza genitori autoctoni a farci da avallo. Poco importa se non tutti, per scappare dall’esorbitante mercato urbano degli affitti, abbiano voglia di andare a fare “i forestieri” in un paesino di qualche migliaio di anime.

No, noi siamo gli stranieri e tali dobbiamo rimanere, se vogliamo almeno essere integrati.

Insomma, è positivo “immaginarci” per quello che vorremmo essere e utilissimo guardarci con gli occhi degli altri, per vedere la nostra vita e le nostre scelte da un’angolatura diversa.

Dagli immaginari altrui, invece, siamo liberissimi di prescindere. Non dobbiamo entrarci per forza, né prenderne obbligatoriamente le distanze.

Se tra un paio d’anni mi dovessi convertire definitivamente in una vaiassa con mestolo e capelli scarmigliati, che al confronto la Sophia Loren neorealista diventa Anne Wintour, siete liberi di abbattermi a colpi di calçots.

Se invece mi vedete andare in giro con la frangetta a metà fronte, usate pure le armi chimiche.

 

bodega Il problema de La Bodega è che non sai mai se hai fatto un affare o stavolta hai pagato un po’ troppo.

Intendiamoci, il padre di mia figlia è sempre onesto. L’Estrella Galicia te la serve fresca al punto giusto, il tradizionale vermut ha la giusta profusione di ghiaccio e agrumi (e l’olivetta), e la tapa de jamón arriva tagliata fine fine, con certe fette di pa amb tomàquet che so’ soddisfazioni. Forse il trucco è che si sta così bene che ordini un’altra caña, e un’altra, e un’altra (io no, mi ubriaco alla prima) e alla fine ti credo, che paghi come se fossi andato a qualche ristorante “squallor ma buono” dei paraggi. Ma vuoi mettere l’atmosfera?

Siedi intorno a tavolini di marmo, che un tempo reggevano macchine per cucire, e c’è una profusione di barili che fa sempre autenticità. Peccato per la folla, ma se vai un po’ prima scongiuri anche quella.

L’ultima volta che ci sono andata, poi, la sorpresa gliel’ho portata io, a questo guineano che è una festa solo dirgli hola, lavora 12 ore al giorno e chi lo ammazza, sta sempre in piedi contento come una pasqua. La sorpresa è una sua vecchia cliente che aveva lasciato Barcellona da un po’.

Ma siccome lei è più o meno impegnata, e non condivide la mia filosofia manichea “se non sono fidanzata sono single” (comodo pretendere fedeltà senza offrire impegno), ad andare in Brasile con lui ha invitato me.

Allora, per ridere e farlo scappare, gli ho risposto:

– Ok, ma sappi che voglio 5 figli!

Fa i salti di gioia! Dice perfetto, mi si siede vicino e comincia a interrogarmi. Ok, voglio fare la scrittrice, quindi resterei io a casa a occuparmi della prole. Equa distribuzione del lavoro domestico? Si può fare.

Il bello è che ogni tanto si gira verso la mia amica:

– Ma mi sta prendendo in giro? Io sono serio! È da quando ti ho vista le altre volte che ho avuto l’impressione che…

Che sappia, poi, che quasi sicuramente genereremo una femmina. Suo padre, nell’isolotto della Guinea Equatoriale da dove viene (“Sei venuto a Barcellona per lavorare 12 ore, come gli altri africani”, lo rimprovera la sorella), ha una quarantina di figli, e solo una decina sono maschi. Confesso che il suocero già mi evoca ricordi poco rispettosi. Ma lui stesso, aggiunge, ha generato 4 femmine su 5 figli.

Azz, sono già matrigna. La maggiore ha 19 anni, poi ce ne sono 2 nel villaggio, che lui ha lasciato 20 anni fa. Direbbe Troisi “Uno a 17 anni già l’ha fatto, ‘o sviluppo?“. Ma la birretta fresca scende giù che è un piacere, e mi viene da ridere.

Non è la prima volta che un collega estranger, ma uno da valigia di cartone e amara terra lasciata per fame, mi sorprende con questa filosofia semplice, vuoi un figlio, facciamolo e poi prendiamocene cura. Il massimo guru di questa corrente una volta mi disse “Problemo no es falta de comunicación, problemo es niño sin pierna“.

Da anni mi fanno riflettere sugli estrangers di lusso come me, i profeti del non so cosa voglio, e comunque che vuol dire ti amo? Ai loro problemi esistenziali e temporeggiamenti e infatuazioni adolescenziali, spesso riassumibili in un pratico “mi cago sotto di crescere”, e benvenuti nel club, ma a non provarci nemmeno non è che non cresci, invecchi e basta.

Questi aspiranti papà venuti dalla miseria, invece, hanno il grande difetto di prendere sottogamba tutti i problemi che non siano un niño sin pierna, come se il piatto a tavola e la tessera sanitaria (che ultimamente pure si fa sospirare) risolvessero problemi di comunicazione, divergenze politiche, culturali, come se essere vivi volesse dire solo essere in grado di sopravvivere.

Così faccio per pagare la mia Estrella, mentre lui già rigoverna e ci usa come scusa per cacciare gli ultimi habitué (che credono davvero che uscirà con noi). Niente soldi, offre la casa, in omaggio alla cliente prodiga che chissà quando torna.

Quanto a me, dice, la mossa lui l’ha fatta, ora è il mio turno.

Ma se la vita è una partita di scacchi, è da un po’ che ho imparato che un’ottima mossa è non fare esattamente niente, almeno quando già sai che hai fatto il possibile.

Al massimo poggiare i gomiti dove prima c’era una Singer e ordinare un’Estrella Galicia.

(quando le figlie nascevano in condizioni estreme)