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Da mercurynews.com

Una cosa strana di qua è che non capisci se piove.

Te ne accorgi alle porte dell’autunno.

Guardi attraverso la vetrata di un bar, o di una biblioteca, e vedi gente che cammina veloce, ma solo due hanno l’ombrello. Certi autoctoni ci ridono su, accampano ragioni tipo che perdono l’ombrello, o che poi in realtà qui non piove tanto (maro’, un’ansia: tre giorni di nuvole di piombo e piove il quarto, magari col solleone).

Quando è successo ieri, e ho dovuto espormi alle gocce in infradito, ho capito che “l’inverno sta arrivando” (o meglio, è più vicino) prima ancora del solito segnale: lo Starbucks sotto casa aveva “uscito” la zucca. Perché, vedete, per me da piccola l’estate cominciava con la pubblicità della Coppa del nonno: adesso capisco che è autunno dal cartellone del Pumpkin Spice Latte. Lo so, ho una vita appassionanteMarcovaldo sarebbe fiero di me.

Poi vabbe’, c’è stato anche il gran cambiamento nel Wifi del coworking ultrafighetto – e gratuito, elemento determinante! – in cui mi rifugio per una traduzione che mi sta lacerando l’anima (confermo che voglio scrivere romanzi, non tradurre quelli che ho già scritto). Dai, ve la svelo: la password nuova è quella che vedete nel titolo. In cambio offritemi un macchiato. E non fate come la mia vicina di tavolo, che mi ha insegnato che quel trattino in spagnolo si chiama guión bajo, ma poi stava scrivendo “by by summer”!

Allora devo proprio rassegnarmi alla ripresa delle attività, alla paura di mandare nuovi scritti ad agenzie che li ignoreranno, e rivedere il famoso saggio sulla maternità da single sulla soglia dei quaranta, hai visto mai che a qualcuno possa interessare… Però sto ricavando una storia divertente, un potenziale romanzo, dalle candidature semiserie presentate da due aspiranti genitori, volenterosi di aiutare!

Ecco, se quest’estate ha segnato una svolta, non è stata sul profilo balneare, perché mi sa che anche quest’anno farò un tuffo solo al mio onomastico: al massimo ho messo un po’ i piedi in acqua a Marsiglia, tra bimbi arabi che giocavano felici. Invece, sulla questione che mi tormentava ho trovato ‘sta grande soluzione: rinunciare! L’inseminazione mi pare una mezza truffa, l’eterologa non fa per me, cercarmi un potenziale papà non m’interessa, e più decostruisco l’amore romantico e meno m’interessa… Inso’, è andata. Quest’estate mi ha insegnato a lasciar andare, per quanto possa lacerare l’anima peggio di una traduzione in spagnolo vrenzolo. Ma bisogna accettare che, a meno di miracoli last-minute, certe cose semplicemente non succedono.

E non è un “fallimento“, come scrivevo nel blog di una divorziata: il fallimento è quando non ti prepari per l’esame, non quando trovi il prof. stronzo che ti chiede un programma diverso da quello che porti. Il fallimento è quando non ce la metti tutta per fare almeno la tua parte, l’unica che dipende da te.

Io non sono una fallita, sono una naufraga. Naufraga di casa mia. A un certo punto mi sono trovata la casa allagata, e dovevo mettere in salvo tante cose, in poco tempo.

Ho fatto quello che ho potuto. Il resto toccherà affidarlo a questa brezzolina che comincia a pungere.

Che dire: metto a fare la zucca.

(Volevo prepararvi alla battutona del 30 settembre, ma mi sono commossa guardando il video: saprete che l’argomento mi appassiona).

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 “Stessa spiaggia, stesso mare”!

Solo che in spiaggia non ci vado, e no, ancora non ho visto i calanchi. Le città le visito con la metodologia René Ferretti, come sa bene chi mi rincorreva disperato con una cartina in mano, la prima volta che mi sono persa tra i vicoli di Barcellona.

Marsiglia è il secondo anno che la vedo da sola, stavolta in una vacanza fine a se stessa, senza altre tappe né motivi diversi da quello di conoscerla un po’ meglio. Ho già scoperto che – spoiler – non farebbe per me neanche se mi venisse sul serio l’idea di lasciare Barcellona, in cui resto non per passione, ma per inerzia: alla fine sto bene, perché andar via.

Tante cose vanno avanti così, e non capisco tanto chi preferisce la passione alla tranquillità, non in questo momento della mia vita. Se si possono conciliare, bene, se no tranquillità for ever.

Però Marsiglia ha un altro vantaggio: ero qui esattamente un anno fa, nel momento più fatidico della mia vita adulta, zeppo di tutti i cambiamenti possibili, nel bene e nel male.

Quelle vacanze dovevano essere eclettiche e affollate, e si sono rivelate solitarie a metà percorso. Dovevano essere una sorta di quiete prima della tempesta, e invece ecco arrivare fin dall’inizio i primi tuoni: anche in senso letterale, durante il mio piovoso soggiorno a Roma!

Un anno dopo sono qui a raccontarlo, e posso raccontare un’altra cosa: niente di quello che prevedevo per me “da lì a un anno” è successo, nel bene e nel male. Almeno, non è successo come me lo immaginavo. Le svolte risolutive non si sono confermate tali, gli errori commessi non si sono rivelati madornali…

Questo sì: resta in piedi il progetto. La rotta che avevo intrapreso era quella giusta, l’unico problema quando si fanno progetti è accettare che non si possono mai prevedere tutti i fattori in gioco, neanche a essere proprio Mago Mariano.

Nell’acquisto di una casa non si possono prevedere certi intoppi burocratici che, come si dice a Napoli, “ciaccano e ammierecano”, cioè ti complicano questioni che credevi semplicissime, mentre ne risolvono altre che ti assillavano.

In un lavoro complicato come quello di scrivere, non si può fare una diagnosi sulla salute mentale di chi si muove in quel mondo, anche se è facile prevedere che non sarà altissima.

Infine, nelle relazioni di qualsiasi tipo, la fregatura è che, quando c’è una crisi, ogni minima decisione (incontrarsi o meno, parlare prima o dopo, chiedere quei soldi o scordarseli) può avere conseguenze irrevocabili, e allora i piani lasciano il tempo che trovano e si procede sempre un po’ a tentoni. Anche quando si hanno ben chiari i propri desideri, e le cose che siamo disposti o meno a tollerare (che in questi casi, però, slittano sempre verso soglie inaspettate).

Tra eccessi di analisi e banalità assortite, forse l’unica grande soluzione è anche la più ovvia: se abbiamo in testa un percorso che ci convince, seguiamo quello, ma prepariamoci a sorprenderci, nel bene e nel male. Anche i viaggi organizzati al millimetro avranno sempre qualche fattore che sfugga al controllo.

Ma questi sono consigli miei, anche un po’ banali: seguiteli solo se vi “risuonano” nei corpi già abbronzati (come vi schifo!) e sudati almeno quanto il mio.

Altrimenti, se c’è una cosa che ho imparato in quest’anno, è: non seguire i consigli. Non fraintendetemi, ascoltarli è importante, specie se ci fidiamo di chi ce li dà, che magari ha anche assistito da vicino al problema che vuole aiutarci a risolvere. Però una cosa è osservare, e un’altra sentire, anche quando sembra che da soli non riusciamo a cavare un ragno dal buco (e povero ragnetto, meno male!). In questioni personali, la soluzione meno idiota che viene in mente a noi è quasi sempre meglio di una super-intelligente, escogitata da chi non è nei nostri panni.

Non so voi ma d’ora in avanti, almeno gli errori, li voglio fare da sola.

 

Cocktail verde con ombrellino: Midori sour, a base di liquore al melone

Da winedharma.com

Non “se”: il punto è “perché”, sono felice.

Grazie al ca’, direte voi: è agosto, e perfino la tua alunna più secchiona è attaccata come una cozza a uno scoglio o a un ventilatore.

Ok, ma per essere felici non basta NON fare qualcosa (tipo lavorare per due soldi). Anche se in effetti aiuta scrollarsi di dosso i progetti iniziati in modo leggero, e finiti tipo a ristrutturare la Grande Muraglia.

Vi do un indizio: si tratta di FARE, qualcosa.

No, ancora non ho comprato quella reggia sul mare con amaca in terrazzo, e Kim Rossi Stuart ignora sempre la mia esistenza (a meno che non ricordi con fastidio la quattordicenne che s’infilò dietro le quinte di un suo spettacolo…).

Per fortuna, però, sono diverse le cose che ci rendono felici, e una o due sono a portata di mano.

Oggi ho le prove che farne una ogni giorno cambia la vita, in meglio.

Perché sto scrivendo ogni giorno: mi costruisco da me i mondi che voglio abitare. Oppure metto su mondi orribili e ci mando ad abitare altri, che m’invento di sana pianta. La cazzimma dà le sue soddisfazioni.

Poi chiudo il quaderno o il foglio Word, e guardo un po’ in faccia il mondo mio: vi assicuro, ci guadagna. Di sicuro ci guadagna anche il bar dove vado a prendermi bibite sovrapprezzo intanto che scrivo tutta ‘sta roba! Ma sono soldi ben spesi: è una reazione a catena.

Infatti torno a casa più contenta, e più paziente verso mio padre, che quindi evita di chiedermi per la quinta volta come si dica “momento” in spagnolo (spoiler: si dice uguale). Allora mamma, non sentendoci litigare, sopporta meglio il caldo di questi giorni. Così non si mette a cacciare le farfalle che hanno trasformato la mia cucina in un luogo d’appuntamenti, e circolano in lussuriosi rombi a due teste che sfuggono ai nostri tentativi di fare da buoncostume.

Inso’, se anche uno solo di noi fa quello che ama, stanno tutti meglio, farfalle arrapate comprese: come suggerisce nonno Watzlawick, se introduci un elemento nuovo, l’intera situazione cambia.

Adesso tocca a voi.

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da buonissimo.org

Io ve lo dico: la Vueling è impazzita di nuovo.

L’indepe di casa è rimasto, appunto, a casa. Io, in un Armageddon di sportelli non funzionanti, ho lottato prima con un terminale automatico, e poi con un giovanotto piantonato da due russe in lacrime, che volevano essere spedite a Mosca. Il mio incredibile 1E, assegnato “last-minute”, è diventato 1A per la distrazione di una passeggera: dunque, primo finestrino a sinistra, in categoria lusso.

Ma il “trova l’intruso”, per le hostess, è stato fin troppo facile: ero l’unica sotto i 60 anni, avevo un vestito a margherite slabbrato dai lavaggi e due sporte della spesa, di cui una conteneva il Lenovo.

Insomma, la sensazione di non appartenenza che mi prende quando torno “a casa” è cominciata, comicamente, in aereo: ormai è un gioco, per me, scoprire cosa c’entro col posto a cui torno, e cosa proprio ci separa per sempre.

Come la villa antica che contemplavo ammirata al ritorno dai pomeriggi con le amiche: è diventata un Bed & Breakfast! A un quarto d’ora di treno da Napoli: mi hanno fregato l’idea, maledetti.

I pettegolezzi, invece, non cambiano mai: chi si è lasciato con chi, e chi (di solito donne) sta con qualcuno che “dovrebbe lasciare”. Mi fa ridere sempre un po’, quest’ultima idea di dire a una con chi deve stare, perché non funziona e fa sentire ancora più sola la tizia in questione. Che magari lo sa benissimo, che non dovrebbe starci, ma lo vuole fare per motivi assortiti, che c’entrano con l’amore e con… Whitney Houston (sì, proprio lei), che chiede a Kevin Costner se non ha mai fatto qualcosa che non avesse nessun senso, tranne “dentro di te, nel tuo stomaco”.

Se non è caponata, è amore romantico, ed entrambi vanno presi a piccole dosi: ma ormai il secondo l’abbiamo respirato con l’aria fin da piccole, ed è difficile capire perché non va.

Allora, quando un’amica sta con uno che la considera un’alternativa in 3D a youporn, o una minaccia alle sue convinzioni, parto con lei da quell’idea balzana per cui, se l’altro la disprezza, in fondo in fondo ha ragione. Finché una parte di lei lo penserà davvero, sarà difficile tracciare limiti.

E la forza che la può cacciare da quest’impiccio è come la presa per caricare il cellulare, in ufficio: da qualche parte esiste.

Tutt’è spostare mobili.

 

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Lo confesso: nonostante i buoni propositi, il telo da spiaggia per il dopo-lezione me lo sono portato una volta sola. A metà settembre. Con un cielo non proprio terso e una brezzolina che mi faceva accapponare la pelle. Così ho desistito e sono entrata, udite udite, da Starbucks, la cui soglia a Barcellona avevo varcato una volta sola, almeno per restarci.

Ma m’incuriosiva una serie di bibite reclamizzate come Pumpkin Spicequalcosa (ho sempre creduto nell’uso della zucca nei dolci). Anche se ora non ricordavo, delle bevande raffigurate all’entrata, quale volessi provare. Pumpkin Spice Cappuccino? Boh, affare fatto. Che poi affare per modo di dire, quattro euro e qualcosa un cappuccino?! Mi sono seduta a uno di quei banconi per avventori non accompagnati, con sei sedie disposte una accanto all’altra. Al di là del vetro che mi separava dalla strada, il retro dell’insegna che avevo letto all’ingresso pubblicizzava un Pumpkin Spice Latte. Ecco cosa volevo. Ecco.

Ed eccomi seduta davanti a una Barcellona quasi autunnale, con in borsa un telo da mare stropicciato solo dalla ricerca di un libro che, al contrario del cappuccino, trangugiavo avidamente. Il tempo che mancava alla partita del Napoli mi suggeriva che fosse già troppo buio, per le due ore legali spagnole. Insomma, sembrava un pomeriggio vero. Di quelli in cui la spiaggia non è un’opzione, la gente torna dal lavoro, i bambini dal doposcuola, e tutti pensano all’estate, invece di starci ancora immersi.

Allora ho formulato due riflessioni, una su settembre e un’altra sul Pumpkin Spice Cappuccino.

Quest’ultimo, è doloroso ammetterlo, pareggia quasi quelli del mio bar hipster preferito, con le stesse polverine magiche che si trasformano in tè spumoso. Devo rassegnarmi al fatto che se non vado dallo spartano Sirvent (“gelatai dal 300 a.C.”) non saprò mai “cos’ho nel bicchiere”. Comunque il bancone a cui ero appoggiata era appiccicaticcio.

Con settembre, invece, ci ho fatto pace. Ho ammesso che le nostre incomprensioni fossero dettate dalle mie aspettative su di lui, dalla mia ostinazione a vederci quello che non era più (agosto), invece di quello che potesse diventare (primi buoni propositi e ultimi gelati).

È come confrontare la vostra nuova fiamma col vostro ex. O, peggio, paragonare la vostra relazione reale con una immaginaria, che coltivate da secoli con qualcuno che non vi si fili proprio.

Mentre ad agosto perdoniamo tutto, dal caldo affollato ai fruttivendoli chiusi, di settembre ignoriamo il piacevole fresco, le gite meno sudate, le “pizzate” del post-vacanze, e guardiamo solo all’anticamera del freddo e del lavoro (anche se spesso, di questi tempi, o non l’abbiamo mai interrotto, o non l’abbiamo neanche iniziato).

Ci sono relazioni che si sono rotte per molto meno, progetti mandati alle ortiche da un cocktail similare di false aspettative e scarso senso della realtà.

Allora mi sono ripromessa di guardare anche settembre, e perfino Starbucks, con gli occhi giusti. E, dopo aver cercato invano di buttare il mio bicchiere monouso (ma almeno riciclano?), ho raggiunto un Bar Blau reso ancora abbordabile dagli ultimi assenti, e dalla nutrita concorrenza che trasmette la Champions. Ho riconosciuto i lunghi capelli delle napoletane, ancora raccolti in una cipolla anticaldo. Ho ammirato le abbronzature ramate a me interdette da una bisavola altoatesina, e lo sguardo color caffè di chi alle mie cortesie di sconosciuta risponde “gracias”, con l’espressione di mia madre che i miei occhi chiari non sanno imitare.

E niente, abbiamo pure vinto.

 Primo giorno di libertà!

Ovvero, primo giorno in cui:

  • non devo fingere di saper scrivere una tesina in spagnolo (per il catalano avrei un certificato che proverebbe il contrario, ma vabbe’);
  • non devo preparare lezioni serali per zombie che davanti alla concordanza nome/aggettivo rispondano “es igual”;
  • non devo mandare più a nessuno informazioni sul sit-in di oggi per Regeni (a proposito, se siete a Barcellona vi aspetto davanti al Comune! ).

In poche parole: sono libera!

E sono anche emozionata, in fondo, per il fatto di provare di nuovo la sensazione di libertà che a scuola dava giugno, un tempo il mio mese preferito: quel brivido onnipotente di poter fare quello che volessi, prima che diventasse noia e monotonia. E lo so, che adesso scatta Il sabato del villaggio, costruzione e parafrasi: l’attesa del piacere che è essa stessa il piacere (credeteci).

Con buona pace del grande Giacomino, questo cercherò di evitarlo: rispetto all’adolescente che accoglieva giugno in Palladium color panna (ma le trovo su Amazon?), ho ormai chiaro che, a non coltivarli, questi piccoli miracoli perdono interesse e bellezza.

Quando il tempo libero è raro sembra sempre l’unica cosa che conti. E allora perché finisce per annoiarci, di lì a poco? Forse perché lo usiamo male?

In quei mesi di giugno di Palladium e ultime interrogazioni di greco, mi affacciavo al balcone della mia compagna di studi e vedevo in strada le ragazze già libere, tutte agghindate anni ’90 con tanto di pantaloncino sotto la gonna, per montare in motorino senza casco.

Magari lavoravano nelle fabbrichette abusive di cui avrete letto in Gomorra, ma in quel momento mi sembravano le più fortunate del mondo, perché loro avevano l’aria libera, io Platone. E a 16 anni non c’è storia.

Adesso che so anche quanto valga il secondo, non lascerò che il tempo libero diventi routine, che l’abitudine mi privi del piacere di svegliarmi ogni giorno sapendo quello che ho: un mezzo, perché il tempo è questo, non un fine, una scatola vuota da riempire con cose che facciano bene a me e, possibilmente, ad altri.

È vero che tendiamo ad abituarci anche alla bellezza, ad annoiarci e passare avanti.

Ma come la pizza margherita col basilico fresco sopra, certe cose non dovremmo mai scordarci di che sapore abbiano.

E quest’anno, giurin giurello, non lo farò.