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Image result for 'nu jeans e 'na magliettaSto cercando di capire: ‘sto caos generale, che “mi rappresenta”?

Alla lettera, proprio: che volto ha per me?

Perché ieri, a uno scambio linguistico, una giovane avvocatessa catalana mi faceva notare: “Anche in Spagna, il governo è un casino”. Ok, e che dovrebbero dire gli amici emigrati in Inghilterra? Però, riguardo la nostra telenovela parlamentare, perfino un’amica politologa, interpellata sull’autogol di Salvini, replicava: “Sarà stata la droga”.

Quindi, prima d’incontrare l’avvocatessa, cercavo un riscontro privato che avrei fissato nella memoria come esempio di questi tempi confusi e (ben poco) felici. Devo dire che non ci è voluto molto.

Un’oretta prima dello scambio linguistico, avevo abbandonato il gruppo di una pagina Facebook in fondo simpatica, di nostalgici di un momento della TV della mia infanzia, pieno di caschetti biondi, di “cunfiette” (cioè di sparatorie), di bomboli con le salsicce che si freddavano al ritmo di canzoni molto nasali.

Da piccola una coppia di zii, amanti del jazz, mi aveva detto che un giorno avrei capito cosa c’era che non andasse, in quella roba lì, e tanto tempo dopo continuo a vederci un problema solo: il possibile rinchiudercisi come se fosse l’unico mondo possibile, un ricordo nostalgico di gioventù a cui ci afferriamo citazione dopo citazione, rimpiangendo soprattutto il programma erotico che tagliava le “inquadrature sporche” (dico spesso che di Rocco ho visto sempre e solo la faccia!). Il nome somiglia molto a quello della chat del gruppo che aveva stuprato una turista inglese a Sorrento, ma il programma, che aveva parodie fantastiche, sostituiva ben altri… programmi: quelli scolastici. Infatti costituiva tutta l’educazione sessuale che fornissero alla nostra generazione – a parte qualche frettolosa spiegazione della prof. di Biologia per metterci in guardia dall’AIDS.

In ogni caso, non accuso certo quello se un amministratore della pagina, e non un utente, ha postato un meme con una presentatrice modello Barbie, capelli gialli inclusi, immortalata accanto a un tizio con una capigliatura simile, e la barba scura. Il meme, in un napoletano senza vocali, recitava: “La ragazza che mi piace” (sotto la Barbie), “La ragazza che mi chiavo” (sotto la barba). Cinquantacinque like, finché non ho smesso di contare, per una narrazione che sì, ho ascoltato in altre lingue, ma mai così pervasiva: in questi gruppi impazza la presentazione come male necessario dei “purpi”, versione ittica dei “cessi” nazionali. Ragazze considerate brutte, che i poveretti della situazione sono tenuti a portarsi a quelle serate in cui si entra solo in coppia. Anzi, come suggerisce il meme, sono addirittura “costretti a chiavarsele”, forse per prescrizione medica, o perché schiavi della loro “prorompente virilità” (scusate l’ossimoro). In tempi meno magri si sarebbero limitati ad abbatterle a colpi di sfottò, magari seguendo gli stessi standard hollywoodiani che non sarebbero generosissimi coi tanti di loro che sono alti un metro e una vigorsol, sfoggiano stempiature precoci, e hanno perlopiù il fisico estivo delle braciole tenute troppo tempo a soffriggere.

Fatto sta che qualcosa della loro educazione (in realtà, tutto) gli ha fatto credere che anche così potessero giudicare ragazze pronte ad affermare di “amare gli uomini con un po’ di pancetta”, oppure “soprattutto simpatici”, da tenere a bada con un controllo ferreo del cellulare: d’altronde, uno stipendio di commessa in certe zone può anche non superare i 600 euro, e questo passa il convento.

Credo esibisse una biondina nella foto profilo quello che, commentando il meme di cui sopra, si chiedeva sempre senza vocali: “È meglio una pecora nera, o una nera a pecora?”. O forse la biondina la vantava il tizio che gli rispondeva che lui non aveva dubbi sulla risposta, ma i sardi magari non sarebbero stati d’accordo.

Prima di uscire dal gruppo li ho invitati a sfogarsi piuttosto con una pastiera, che la torta di mele mi sembrava un po’ esterofila, oppure ad accettare una volta per tutte il noto invito di un filosofo di Gomorra.

Poi mi sono chiesta cosa m’innervosisse tanto: quella gente m’interessa? Mi sembra interessante sotto un qualunque profilo, intellettuale o fisico o almeno umoristico?

No, mi sono risposta, in realtà sticazzi.

E allora cosa mi turba dell’episodio?

Beh, che nessuno dicesse niente. Che nemmeno per il commento sulla nera a pecora e sui sardi ci fossero rimostranze di qualsiasi tipo, almeno per un quarto d’ora, e non parlo certo di un intervento dell’illuminato amministratore che aveva postato il meme iniziale. E sì, queste cose si verificano anche nelle pagine più caciare in altre lingue: ma lì, come anche in pagine nazionali con più iscritte, una persona o due finiscono per intervenire, fosse anche per denunciare un sentore di obsoleto, stantio. Immobile.

E so che eppur si muove, e meno male: sempre più spesso ci rendiamo conto che dagli anni dei cunfietti sono successe tante cose. Perlopiù brutte, secondo i più nostalgici, ma sono successe.

Godiamoci pure i caschetti biondi, anche quando i loro proprietari imbiancano bene e senza tradirsi, ma teniamo presente che da allora le tinture sono migliorate assai.

E non solo quelle.

(Il mio medley preferito di tutti i tempi, scusa Freddie)

 

 

 

 

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Related image In certi giri che frequento ogni tanto, più “pane e puparuole” di quelli soliti, mi sono imbattuta spesso in un tipo carino, pieno di allegria, e buon conversatore finché non gli ho detto in cosa consistesse il mio dottorato, e cosa fosse il GENDER!11!1!

A quel punto ho scoperto grazie a lui che le femministe sono una banda di matte piene di odio, traduco testualmente, che non hanno idea di ciò che dicono.

Siccome il discorso proseguiva su toni simili via messaggio, ho fatto l’unica cosa possibile: ho risposto “Ok”, e ho mandato una faccina sorridente.

È da tempo che ho imparato a scegliere bene le mie battaglie.

Soprattutto, ho scoperto che raccogliere la spazzatura emotiva altrui non beneficia nessuno, e sporca tutti.

La regola vale soprattutto sui social: capisco la rabbia e lo stress, ma si scrive “Disattiva le notifiche” e si legge “Strada per il Paradiso”.

Quando il problema non sono i commenti ma i post, di solito segnalo e amen. E se si tratta di giuste cause, mi chiedo cosa si possa fare di concreto invece che accapigliarsi.

Ieri da ignorante in diritto internazionale chiedevo su questa pagina se nel caso di Carola Rackete potessimo fare qualcosa “dal basso”: a quanto pare a stare in difetto è l’Italia, e non la Capitana. Anche se i soldi che ti spillano in giro per convalidarti il titolo di Dottorato Europeo mi hanno insegnato che ogni stato fa il cazzo che gli pare, in barba alle norme comuni.

Però, in casi più urgenti dal punto di vista della sopravvivenza, si può sperare nell’attenzione che colpevolmente manca al resto.

Intanto che aspettavo pareri autorevoli, una tizia aveva avuto il tempo di commentare cose tipo: “Perché non li ha portati in Olanda, fanno quello che vogliono in casa nostra, non capisco come ragionate…”. Invidio quelli, admin compresi, che si sono presi la briga di risponderle nel merito. Io ho dichiarato che avevamo una cosa in comune, cioè il “Non capisco come ragionate”, e che continuavo ad aspettare “il parere di un esperto”. Che finalmente ha battuto un colpo:

Un ricorso Cedu da parte di gruppi di “cittadini” o associazioni sarebbe molto probabilmente dichiarato inammissibile; il sistema della Convenzione Edu e della Corte Edu prevede la possibilità del ricorso individuale di un soggetto (uno o più soggetti) che sia vittima di una violazione di un diritto protetto dalla Convenzione. Bisogna quindi essere vittima diretta, indiretta, potenziale o futura affinché il ricorso possa essere preso in esame. Discorso diverso merita invece il Comitato dei Diritti Umani delle Nazioni Unite di Ginevra che ammette la segnalazione da parte anche di NGO che abbiano conoscenza diretta dei fatti (e non solo in base a quanto riportato dai mass media)…

Adesso ci tocca capire che farcene di tutto questo.

Avete qualche idea? Soprattutto, conoscete gente addetta ai lavori che ne abbia?

Perché vedete, io ho dovuto aspettare vent’anni di studi, lauree master dottorati e articoli scientifici, per scoprire da un parere esperto che ero solo una pazza piena d’odio.

 

 

L'immagine può contenere: una o più persone, folla e spazio al chiuso

Foto presa dall’evento che nomino (e linko) nel testo

Dieci giorni dopo la presentazione di Airport Tales, siamo passati letteralmente all’Airport Party, che è davvero il nome del veglione notturno organizzato all’Aeroport del Prat da chi, come me, di tutti i giorni per tornare a casa ha scelto proprio questo 21 dicembre, con in giro cosucce tipo: Pedro Sánchez che la sera prima conferiva con Quim Torra e oggi tiene il Consiglio dei Ministri dello Stato spagnolo; i compagni dell’indepe di casa che si sono già beccati qualche manganellata nelle numerose manifestazioni previste; i più mattinieri, o nottambuli, di loro che bloccano da ore alcune delle arterie fondamentali per la viabilità.

A mia difesa devo dire che ero convinta di partire il 22, e domani mi sarei recata all’aeroporto senza sospettare nulla, se la Vueling non mi avesse illuminato sulla situazione – e sul suo bisogno urgente di traduttori madrelingua:

Gentile cliente,

Dovuto allo sciopero convocato in Catalogna per venerdí 21 Dicembre, e sempre con l’obbiettivo di offrirle il migliore servizio, le consigliamo di recarsi in aereoporto con piú anticipo rispetto a lo abituale per poter realizzare il check-in e imbarco con piú tempo.

Ringraziamo la Sua fiducia e ci scusi per i possibili problemi creati da fattori totalmente estranei alla compagnia.

Distinti saluti

Team Vueling

 

“Rispetto a lo abituale”, dunque, mi sono avviata alle 3.50 del mattino in cerca della mia compagna designata di sventure, anche lei in partenza per Napoli, che ahimè si è vista rubare al volo il cellulare da un ragazzetto che, trovandosi lei nel mio amato Raval, deve aver fatto casa e puteca.

Che dire: l’importante per me è che siamo atterrate sane e salve, benché in ritardo, e che io, mentre scrivo queste brevi parole, abbia già all’attivo due cestini alle scarole del panificio Javarone.

Volevo solo informarvi che nel gruppo continuano gli aggiornamenti, anche utili, che la festa c’è stata sul serio, e che è vero anche che mentre loro festeggiavano, dei loro coetanei sono stati manganellati dalla polizia per il difetto di essere repubblicani.

Questi ultimi forse considereranno quelli del “party” nel seguente modo: guiris, capitalisti, gentrificatori, parassiti e, stando a dei manifesti che ho letto nel Raval, anche assassini e fills de puta (se, oltre al reato di ascoltare pessima musica, attribuiamo loro lo spopolamento progressivo del centro a beneficio di stranieri con soldi che fanno vita a sé).

Lo so perché, specie adesso che ho comprato casa, mi sono vista attribuire tra il serio e il faceto quasi tutti gli aggettivi di cui sopra, e adesso mi dichiaro anche colpevole di aver apprezzato questi ragazzi che hanno fatto buon viso a cattivo gioco, accampandosi in aeroporto, e socializzando nella “Lingua dell’Impero” (anche se spulciando trovate ragazze catalane che si rammaricano di non essere andate).

Mettiamola così: si vede che ognuno ha le battaglie che si merita.

Per fortuna ne abbiamo qualcuna in comune. Penso a quelle. E un po’ anche al pane cafone che divoro adesso.

 

 

Image result for freddie mercury live aid Una volta ce l’avevo io, adesso mi sa che tocca a voi.

O meglio, la “pelle fina” (espressione che in più lingue denota un’alta suscettibilità) devono avercela quelli convinti che, se penso che il culo di un’attrice non dovresti imburrarlo “a sorpresa”, sto insinuando anche che hai le capacità di regia di mio cugino al filmino della comunione. Oppure ce l’ha quella che a cena, l’altra sera, mi ha spiegato che ci sono due femminismi: il suo e quello finto (tipo il mio). Infatti la prostituzione va abolita e quella femminile è “una questione di classe”. Ne deduco che la condizione della regina Elisabetta sia equiparabile a quella della mia barista lesbica coi capelli afro. Ma non ho osato chiedere.

E io? Su Facebook raccontavo la mia crisi a uno sconosciuto reduce da una rottura, e un tizio ha commentato: “Dagliela, così state meglio entrambi”. Non sono più abituata a questo genere d’ignoranza: i miei alunni catalani, che sono ingegneri e non studiosi di genere, fanno notare loro a me quando un paragrafo del libro di testo è sessista. Comunque ho commentato che al massimo “lo prendo”, e se si sente generoso ci pensasse lui, la vita è piena di scoperte inaspettate. Poi ho disattivato le notifiche dell’intera pagina, il tenore era quello e ho di meglio da fare.

Cosa? Quasi sempre, il minimo indispensabile: se il New Yorker la pensa come me su quella storia del burro (che peraltro non ho mai esternato!), basta prendere le distanze dall’italiana offesa che… “tanto-voi-ci-avete-Trump” (tempo impiegato: tre minuti d’orologio). O basta spiegare alla mia nuova maestra di femminismo – quella della regina Elisabetta – che qualcosina ne saprei anch’io (tempo: dieci secondi), prima di girarmi dall’altra parte e godermi la serata.

Per farla breve, devo proprio riesumare un classico di qualche post fa:

Segnalo anche l’analisi di un classico del tutto diverso, Radio Ga Ga dei Queen, su cui non ho affatto la pelle fina: oggi non amerei il gruppo con l’intensità dei miei dodici anni! Però il mio maestro di canto preferito osserva che quel domatore di folle che è stato Freddie Mercury eseguiva alla perfezione tutte le tecniche del mestiere, senza mai chiedersi: “Come sto andando?”. Lui era lì, nella canzone, nei movimenti, nell’interazione con pubblico e gruppo: allora il suo corpo (temprato da anni di pratica) lo seguiva con gli strumenti adeguati per portarlo dove voleva.

Ecco, forse dovremmo smettere di concentrarci sulla nostra esibizione e focalizzarci sulla causa: la difenderemmo meglio. Poi, con il tempo e l’energia che avanzano, potremmo davvero dedicarci a noi.

Stretta è la soglia, larga è la via…

Che volete da me, non riesco a essere nostalgica.

Magari avrei voluto che i miei vent’anni fossero stati sereni come i trenta, questo sì. Ma sto dormendo da due giorni di fronte alla mia antica facoltà, e tutto quello che riesco a pensare è: “Cosa posso prendermi, oggi, da Napoli?”.

Va detto che la città è generosa, a parte gli “smoothies” a 3.50 per un bicchiere pieno a metà.

Per esempio, mi è piaciuta l’offerta del sindaco di accogliere la nave Aquarius. L’ha appena fatto anche la sindaca di Barcellona, sto a posto.

Nella mia facoltà ho trovato questa scritta che percorre le pareti di quella che per me, una volta, era solo l’anticamera della biblioteca: “Ognuno di noi deve dare qualcosa, in modo che alcuni di noi non siano costretti a dare tutto”.

La vita, tipo. Per garantire il consenso a qualche politico senza scrupoli, e regalare una sensazione illusoria di sicurezza a chi pensa che i problemi arrivino dal mare.

Peccato che invece vengono da stanze chiuse, spesso molto vicine, in cui chi ha molti soldi decide come fare per mantenerli, costi quel che costi.

E chi non ne ha abbastanza da “stare quieto” cerca capri espiatori alla sua portata. Storia vecchia. Ho letto su Facebook:

“Sono calabrese, ero disoccupato e ho provato a raccogliere arance, ma uno mi ha detto che lavoro, in quel frutteto, non ce n’era. Era tunisino”.

Una volta spiegai a un collega catalano che i ricercatori italiani in Catalogna erano tanti perché, nelle nostre università, non c’era  lavoro. “Be’, neanche qui ce n’è!” aveva sbottato lui, non troppo scherzoso. Temeva gli rubassi il posto. Sapete com’è finita? Quel posto non l’ha avuto nessuno dei due. È stato eliminato per mancanza di fondi.

“Il sindaco di Napoli si sta solo facendo pubblicità, marciando su un fatto di cronaca”.

Un amico mi dice che è dal secondo mandato che il sindaco di Napoli sembra fare pochi gesti plateali, e molti cambiamenti di facciata. Non so se sia vero, spero di no. So che, pubblicità o meno, un bambino nato in Catalogna ora è anche napoletano, e che intanto l’offerta di accogliere la nave c’è.

Certo, vorrei che tutto ciò fosse “normale amministrazione”.

Alcuni di noi lo vorrebbero.

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#soffritemi!

Sulla pagina che modero eravamo cinquemila un anno fa. Per la fine di questo ottobre, invece, prevedo che arriveremo a quindicimila.

All’inizio andava tutto bene: qualsiasi richiesta di informazioni da parte di italiani ancora in Italia veniva o ignorata o accolta da quelli che davvero volessero aiutare. Man mano che aumentava il numero degli iscritti è successo ciò che già capitava da tempo in gruppi più numerosi: gli sfottò a ogni domanda già fatta, i consigli scoraggianti, i commenti razzisti o sessisti. Non mancano infatti i simpaticoni che se la prendono con la “moderatrice-maestrina” perché si permette di cancellargli commenti tipo “Sei troppo brutta per dividere la stanza con te” (che pretese).

Tutto questo perché? Se avete guardato The Experiment lo sapete. Gioco di ruoli, immedesimazione.

Senza dover per forza citare sempre gli “imbecilli” di Umberto Eco e i “webeti” di Mentana, ci sono fior di studi su come il web mostri il nostro lato peggiore. Resta il sospetto che, anche a spegnere pc e cellulari, il materiale umano quello è.

Quello abbiamo, quello esportiamo.

Non solo in Italia.

Anzi, è interessante vedere cosa succede negli altri paesi, o almeno sulle loro bacheche (che, per quanto non amiamo ammetterlo, sono parte integrante della quotidianità di tanti). Ho scoperto un post contro il consumo di alcool, scritto da una bella ragazza statunitense: nei commenti una donna si dimostrava purtroppo intimidita dalla sua avvenenza e le garantiva che, se sei madre, bere è l’unico rimedio al carico fisico e mentale costituito dai figli. E giù centinaia di like, mamme che commentavano entusiaste facendo a gara a chi bevesse di più. Scenario diverso, quindi, dalle nostre mamme pancine, ma ecco il rapporto tra maternità e alcolismo nel mondo anglosassone, spiegato in un solo post.

Oppure, una dichiarazione di Anne Hathaway sul congedo retribuito di maternità e paternità riceveva il commento di una repubblicana: “Non devo pagare io per le decisioni altrui. Quando voglio fare beneficenza faccio volontariato”.

Ripeto: il materiale umano quello è. E somiglia paurosamente ai suoi politici.

Scrivo “paurosamente” perché, secondo me, la paura è la chiave. La paura di essere attaccati come maschi alfa nel proprio diritto a sindacare sulla bellezza delle donne. O la paura di non essere accettate se a un certo punto proviamo a condividere le attività di cura con il nostro compagno, e allora meglio bere e difendersi dalla pressione estetica attaccando quelle che ci intimidiscono.

L’umanità ha una paura esagerata che ne mina le potenzialità, e questo si riflette su tutti i fronti. Come affrontare quella e i suoi derivati (disinformazione, ignoranza, intolleranza…)? Vedo poche strade, ma ci sono.

  • L’istruzione, che comporta sempre il rischio di piegare gli alunni all’ideologia dominante di chi formula i programmi scolastici: ma che, se punta a “insegnare a pensare” come fanno tanti amici docenti, può portare in sé gli anticorpi al suo stesso morbo.
  • La cultura nel senso più ampio possibile, che qui a Barcellona diventa spesso partecipazione: nelle numerose associazioni culturali e nei centri civici c’è gente che considera “più polizia” una priorità rispetto a “più asili”. Ma c’è anche chi discute, decostruisce, rispedisce i pregiudizi al mittente. Correggersi a vicenda è una buona alternativa all’aizzarsi a vicenda, e, a quanto visto, è un’alternativa possibile.
  • E poi l’esempio, che lo dico a fare. Come il falso Gandhi, no? Sii il cambiamento che vuoi vedere nel mondo. Ammesso che lo voglia, difficilmente convincerò qualcuno a farsi femminista o vegano, o tifoso del Napoli. Almeno non a parole. Allora parlo il meno possibile e tratto le persone come meritano, sperimento ricette a modo mio, e canto Maria Nazionale fuori al Bar Azzurro di qua. Ok, penserete che quest’ultimo sia un autogol, ma solo perché non mi avete mai sentita.

Insomma, ci tocca lavorare col materiale che abbiamo, e vale anche per noi stessi, con le nostre paure e limitazioni.

Ma va fatto, e presto, quindi… Che aspettiamo?

Risultati immagini per write a letter Sì, l’ho letto, l’articolo in cui si dice che io non sono Millennial, ma un’altra cosa. Per sopraggiunti limiti d’età e per aver conosciuto il mondo prima di Internet.

A dire la verità, io mi sentivo solo fortunata.

Non tanto per le prime rughe e qualche svogliata battaglia persa in partenza con la forza di gravità (che per fortuna con me ha poco da attaccare, le piace vincere facile?).

Ma per aver potuto sperimentare le due cose, i due mondi. Per aver avuto accesso a Internet ai 18 compiuti, e aver imparato in fretta, senza però aver conosciuto solo quello.

Non lo dico per fare “gnegnè”, e de che?

Lo ricordo solo per dire la mia, che è: ragazzi, va bene così.

L’avrò già raccontato, ma a quindici anni aspettavo le lettere di un ragazzetto, un “amico del mare”, che viveva letteralmente dall’altra parte d’Italia. Sì, le lettere.

Per fortuna non mi si filava di striscio, quindi non è che fossi angosciata dalla distanza che separasse chissà che grande amore. Aspettavo placida quelle due-tre settimane che ci metteva la lettera ad arrivare. Quant’era lunga l’Italia prima di Internet. Ma tanto speravo in un felice epilogo al prossimo incontro estivo.

Ovviamente sarebbe andato una chiavica anche quello, ma allora non potevo saperlo.

Tornata dalle interrogazioni di Latino e Greco, controllavo la cassetta della posta. Quando era vuota, non c’era altro da fare che chiedere a nonna, al piano di sopra, già sapendo che probabilmente non aveva controllato (anche perché ormai ci pensavo io!). Quando era piena, avevo imparato a infilare la mano nella cassetta in modo da estrarne il contenuto senza dover usare la chiavetta arrugginita da prelevare in casa, beccandomi una sgridata per il piatto (quasi sempre pasta al sugo) che si freddava.

Spesso erano bollette e corrispondenze varie. Ogni tanto, invece, riconoscevo la grafia panciuta del mio corrispondente e centellinavo il contenuto della busta, che il giorno dopo, in caso di frasi più gentili delle altre, avrei portato in classe per un “parere esperto” delle compagne.

Dopo avervi raccontato tutto questo non mi crederete, forse, se ammetto che questa facilità di comunicazioni di oggi mi piace quanto e più di quell’attesa.

Ma che vi devo dire: sono stata contenta di poter fare gli auguri in tempo reale al mio antico corrispondente, quando gli è nato il primo figlio.

Innanzitutto, senza Facebook non ci saremmo mai ritrovati, e Nuovo cinema Paradiso sarà molto romantico sullo schermo, ma una chiavica da vivere, secondo me. A meno che non abbiamo bisogno di melodramma per ravvivare una vita che troviamo noiosa.

Io per fortuna provo a vivere nella pienezza anche senza quello, e, come già per ricordi più recenti, sono proprio contenta di aver trasformato un’illusione/delusione adolescenziale in un divertente scambio di aneddoti calcistici (tifiamo per squadre rivali e minacciavo di mandare al pupo una tutina con su scritto: “Dopo 9 mesi di silenzio stampa, finalmente pozzo gridare FOZZA NAPOLI!”).

Quindi va bene così. Andava bene l’attesa, va bene sapere.

Non credo di pensarlo solo perché li ho sperimentati entrambi da giovanissima, al contrario dei Buongiornissimo che tuonano contro la tecnologia alienante (di cui però sono utilizzatori compulsivi).

Ma è proprio che sforzarsi di ricavare il meglio da qualsiasi situazione non è mai un esercizio ozioso, per quanto ingenuo possa sembrare.

#Provare #per #credere.

 

Risultati immagini per emoticon urlo di munch L’autrice del sottovalutato The Hunger Games dice di aver tratto ispirazione, per il suo reality all’ultimo sangue in una distopia postatomica, dallo zapping che faceva durante la Guerra del Golfo. Zap! Bombe. Zap! Quiz a premi. Zap! Femmine nude. Zap! Cocciolone con un occhio nero. No, scusate, quella era la mia infanzia.

Però è vero che tutto quanto accade al mondo, su uno schermo di qualsiasi dimensione, diventa un po’ il Cabaret di cui parlava Liza Minnelli.

Anche il post improvviso su facebook della mamma disperata per il figlio malato, o il messaggio della signora che ha perso i suoi averi nel terremoto e cerca urgentemente lavoro a Barcellona, “con tutta la famiglia”.

Ma quando il dolore è racchiuso tra le pareti strette di una chat, puoi sempre ridurlo a icona e tornare alle tue cose. Finché non toccherà a te lamentarti di una rottura sentimentale, un licenziamento, e qualcuno potrà ridurre a icona anche te.

Ricordate le chat simultanee di MSN? Io in una organizzavo una birretta per la sera dopo, in un’altra spiegavo a un ventenne idealista perché non potevamo proprio stare insieme, e in una terza chiedevo informazioni per lasciare l’Italia per sempre.

Così come ci vedrebbe il Dio dei social, dal suo software celeste come lo sfondo di Windows, diventiamo tanti pixel perduti nell’etere, tutti uguali e tutti diversi, nessuno più importante degli altri o particolarmente differente al momento di scrivere LOL, o mettere l’emoticon con la lacrimuccia.

Forse Facebook ci ha smascherato il segreto di Pulcinella: in due o tre cose ci assomigliamo così tanto. Una di queste è la paura. Di essere uguali a tutti gli altri.

Ebbene, per me questa paura è sollievo. Se qualcuno potrà ridurre la mia vita a icona, un giorno potrò farlo anch’io.

E pensare davvero, secondo un’elegante espressione preinformatica, ai cazzi necessari.

 

Risultati immagini per silenzio

Non sapevo neanche se l’avrei pubblicato, questo post.

Diciamo che l’ho scritto per chiarire due cose a me stessa.

Quando si diffuse il video di cui tutti stanno parlando in queste ore non sapevo se, come ipotizzavano i giornali che ora piangono, fosse la trovata pubblicitaria di una escort. Col senno di poi mi faccio qualche domanda sulle loro fonti, ma allora speravo avessero ragione, perché quel filmino lo stavano guardando davvero in tanti. Come studiosa di genere ero anche combattuta su un quesito che mi pongo spesso: per meglio capire la società in cui vivo, devo guardare anche quello che non mi va, se suscita reazioni collettive così forti?

Allora come oggi, mi sono risposta “anche no”. Per me il criterio di decisione è questo: guardare aggiungerebbe qualcosa alle mie informazioni sull’accaduto? Ho bisogno di vedere un video su una fellatio per capire perché stiano sfottendo la donna che vi compare? Ho bisogno di assistere a una decapitazione pubblica dello Stato Islamico per sapere che fanno schifo? No, vero? E allora non lo faccio.

Qui sotto, invece, rifletto su alcune questioni che secondo me dovremmo affrontare più seriamente:

  • il rapporto con la morte. Secondo me togliamo al suicidio la sua enorme parte di coraggio, trasformando chi lo compie in una vittima “costretta” dai fatti. Credo che ci si possa limitare a dire che quella pressione sociale, la suicida, non doveva subirla;
  • il rapporto con le questioni di genere. Demonizzare il GENDER ha il suo prezzo. Noto un certo bipolarismo nel trattare questioni come libertà sessuale, poliamore, fedeltà e tradimento, in una società come la nostra che cambia lentamente e in modo contraddittorio. C’è chi sta trasformando una ragazza ripresa durante un rapporto sessuale in una sorta di simbolo della libertà femminile, minacciata dai maschi. Non da quello che ne ha tradito la fiducia, ma dai maschi in generale. Come se il video fosse stato guardato solo da loro. Prossimamente rifletterò un po’ sulla pia illusione che il sessismo sia appannaggio unico degli uomini etero. Credo anche che non sia del tutto vero che un uomo nella stessa situazione venga incensato e diventi un eroe. Lo diventerebbe per una buona parte del pubblico, certo, ma quante donne lo stigmatizzerebbero per aver “tradito la compagna”, rivelandosi “il solito porco”? Ecco, nonostante le tentazioni di rivalsa sul doppio standard che ancora ci affligge, mi piacerebbe che il “fatti i fatti tuoi” fosse bilaterale. Perché una non ha bisogno di diventare un’eroina da dopo morta perché si dica che, semplicemente, fosse una donna come tante, che non doveva subire questo trattamento;
  • il rapporto con la nostra cultura. Purtroppo casi del genere non avvengono solo in Italia, d’altronde l’espressione slut shaming non è stata partorita dal bizzarro inglese di Renzi. Un’icona pop (mi pare di capire che lo sia) come Selvaggia Lucarelli ha postato un caso emblematico di bullismo mediatico avvenuto ad altre latitudini, anche se in circostanze molto diverse da queste. Secondo me inscrivere l’Italia in questo fenomeno mondiale, invece di soffermarci su una possibile anomalia nostrana, ci aiuta a capire meglio il problema, piuttosto che lanciare accuse generiche alla nostra ipocrisia, o alla Chiesa cattolica che ci domina ancora: tutto vero, ma andiamo oltre questa critica, esiste un’Italia che si muove (anche fuori dai suoi confini fisici), che lotta per i diritti civili, per la libertà sessuale. Iniziamo da quella;
  • il rapporto con la coppia. Mi permetto una riflessione generale. Tempo fa, sulla pagina facebook L’ISIS minaccia c’era una frase che mi ha colpito:”Diremo alle vostre donne in quale motel giocate a calcetto ogni giovedì alle 19″. O qualcosa del genere, non trovo il post. Fiumi di like, commenti scherzosi ambosessi che implorassero pietà. Di recente è uscito Perfetti sconosciuti, un film in cui Kasia Smutniak invita tutti i partecipanti a una cena tra amici a posare il loro telefonino al centro tavola, e a leggere ad alta voce qualunque messaggio arrivi. Il fatto che un mio coetaneo rimasto in Italia possa rabbrividire a questo pensiero mi ha davvero, ingenuamente, sorpreso. Ecco, per me se dobbiamo arrivare a mentire su grande scala ai nostri partner per fare quello che vogliamo dei nostri genitali, forse dovremmo ripensare la nostra idea di relazione. Non ho una soluzione, ma all’ambiguità intuisco di preferire il famoso “nessuno è di nessuno” che ora mi ripete il mio ragazzo, e che professavo anch’io, alla sua età. Sono certa che si possa declinare nel modo che più ci sia congeniale;
  • il rapporto con la colpa. Le autodenunce degli uomini in queste circostanze (“siamo fatti così, ammettiamolo, siamo bastardi” ecc.) mi ricordano altre assunzioni di responsabilità collettive. Penso al “noi occidentali”, che crea un fantomatico Oriente omogeneo, sottomesso e totalmente dipendente dalle nostre vicende. O alle pur comprensibili accuse al genere umano come “peggior specie vivente”, da parte di benintenzionati colleghi vegetariani che però non riservano la stessa arbitrarietà agli altri animali. Nonostante le buone intenzioni, temo che queste operazioni finiscano per portarci fuori strada. Prima di tutto perché hanno un pericoloso valore catartico: chi si autoaccusa pensa spesso di essere autorizzato a proseguire nei suoi errori, come se “confessare” portasse l’assoluzione (vogliamo forse ispirarci alla Chiesa?). E poi secondo me colpevolizzarsi anche per chi fa quello che noi cerchiamo a tutti i costi di evitare (se non lo facciamo è un’altra storia) è controproducente. Prendersi delle responsabilità, sì che aiuta. Aiuta cominciare (o continuare) a non fare noi quello che ci renderebbe oppressori. E fare tutto il possibile (che è poco, purtroppo) per non diventare oppressi;
  • il rapporto tra le nostre convinzioni e la nostra storia personale. Un episodio come il suicidio di questa donna, purtroppo, rischia di diventare una sorta di specchio, in cui ciascuno vede riflesso ciò che più gli preme trovarci. Chi odia i social (però li usa) tuona contro il potenziale distruttivo della rete e rimpiange il “riserbo di una volta”. Chi ha avuto brutte esperienze con gli uomini approfitta di un problema culturale reale (la disuguaglianza di genere) per attaccare l’intera categoria. Chi ne ha avute con le donne, che ve lo dico a fare. Chi ha problemi col femminismo denuncia la colpevolizzazione di tutti gli uomini (e come si è visto sopra sono d’accordo, ma vedo troppa confusione su cosa sia femminismo). Quelli del “se l’è cercata“, poi, ora si attestano su un prudente “è stata ingenua”.

A proposito di andarsela a cercare, riguardo a un altro episodio terribile una ragazza su facebook commentava più o meno: “In un mondo in cui non posso essere me stessa, non voglio vivere”.

Io invece non voglio vivere in un mondo in cui, a essere se stesse, si rischi o la pubblica gogna o l’idealizzazione, solo perché nessuno sa farsi i cazzi suoi.

 

cangrejos Passeggiando vicino casa, ho scoperto che un ristorante a me noto esibisce un numero notevole di granchi, in un acquario installato da poco all’ingresso.

Ho scattato la foto che vedete e l’ho pubblicata su una pagina di vegetariani e vegani a Barcellona: volevo sapere se il rapporto tra dimensioni della vasca e numero occupanti fosse legale e sapevo di rivolgermi a persone interessate a tali questioni.

Nell’intento di aiutarmi, un utente ha rigirato la mia domanda a un gruppo che definisco impropriamente “generalista”, uno di quelli cioè che uniscono la gente in base non a interessi comuni o affinità specifiche, ma a parametri più casuali come la loro provenienza geografica, o la città di residenza (e la pagina in questione unisce entrambi).

Volevo condividere con voi i risultati di questo sondaggio. Non perché pretenda che vi stia a cuore la sorte dei granchi schiaffati negli acquari barcellonesi (anche se lo auspicherei), ma perché temo che qualsiasi questione vagamente specifica di vostro interesse godrebbe di un’accoglienza simile.

C’è gente che ha scritto unicamente per ironizzare. E di questi, lo so, è pieno il web. Messaggio di fondo? Che i problemi sono BEN ALTRI. Non ho controllato se i commentatori di questo genere fossero già iscritti all’evento in solidarietà con i terremotati, con oltre 500 interessati e 200 partecipanti, che ho contribuito a organizzare. Spero di sì.

Qualcuno scriveva roba tipo “E allora i passeggeri stipati in metro?”, qualcun altro “E le sardine?”. Roba che Vanessa Incontrada medita di tornare a Barcellona per aprire la succursale di Zelig.

Ci sono stati poi quelli pratici, per la serie “tanto anna muri’ “. Premetto che la gente non dev’essere vegetariana per pretendere un trattamento etico per gli animali. Anche perché ci sono leggi, contraddittorie quanto si vuole, che lo garantiscono fino alla macellazione. Ci sono campagne a cui aderiscono anche non animalisti.

Ma è una considerazione che non sembra tangere i commentatori, anche fuori dal gruppo. Il più arguto consolava un membro appena bannato ponendogli come esempio il mio post (pazienza se, come si diceva, non fosse davvero “mio” ma una condivisione), e ironizzava su quest’ “anima pia” preoccupata per granchi che “nel giro di due minuti” sarebbero stati cotti e mangiati.

Un’altra più lungimirante ha previsto, per la cottura, due giorni.

Questa è stata la parte che mi ha lasciata più perplessa: il curioso cocktail di disinformazione, unita alla pretesa di parlare lo stesso.

Ora, io so di non sapere. Sospetto, ed è un’illazione, che i granchi siano destinati soprattutto a una più rara clientela cinese, e che comunque la polpa in scatola usata in dosi omeopatiche risulti più economica e salvaguardi l’acquario come attrazione del locale.

Ma appunto sospetto, ipotizzo, dubito. Le persone che commentavano erano invece SICURE di quello che dicessero, basandosi su informazioni nulle.

Insomma, so di aver fatto la scoperta dell’acqua calda, ma non avevo mai avuto l’occasione di verificare: appellandosi involontariamente al “grande pubblico” (il gruppo ha circa 16.500 iscritti) si ottiene spesso un chiacchiericcio inutile, con qualche occasionale informazione interessante.

Io non ho avuto tanta fortuna: una sola domanda, decontestualizzata, ha ricevuto decine di commenti ironici e benaltristi e nessuna, sottolineo nessuna, informazione utile.

Devo concludere postumamente con Umberto Eco che Internet ha il torto di dar voce ai cretini? No, quella posizione continua a sembrarmi un’evocazione di lesa maestà al diritto di parola degli intellettuali (quella del cretino che ha la stessa voce in capitolo di un Premio Nobel è grandiosa).

Il rischio di dare un microfono virtuale a tutti è anche questo, un inutile accumulo di opinioni al posto d’informazioni valide.

Ma quando finalmente mi sono rivolta al gruppo animalista più grande di Barcellona, non ci hanno messo niente (considerata la notte di mezzo) a indirizzarmi a un’associazione che potesse rispondermi.

Visto? Basta rivolgersi alla gente giusta.

Internet, sparando alla cieca, coglie anche quella.