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No, no, è cava!

In tutto questo, ho rinunciato.

Non vado più all’associazione che mi era sembrata una via d’uscita per il mio notorio problema di rapporti umani: ho la socialità di un orso in letargo. Non tutti se ne accorgono, ma è così. E, quel che è peggio, non credo neanche sia un problema!

Però ci ho provato, eh. Ho frequentato tutta l’estate, e quasi ogni giorno, le attività di questo covo di agenti immobiliari, counsellor di ogni tipo e creatori di startup, che cercavano soprattutto di procacciarsi clienti e cava in omaggio – disponibili entrambi al buffet di benvenuto.

“Mucho postureo”, sarebbe la definizione in spagnolo, simile allo “spararsi le pose” napoletano. È l’arte di darsi delle arie in nome del falso postulato: “Più sembro vincente, più lo sarò davvero”.

E sì, anche io ho creduto per un po’ al pensiero positivo, alla legge dell’attrazione ecc. Sono ancora convinta che, a cercare soluzioni invece di disperarci, nove su dieci le troveremo (“grazie arcazzo”, anyone?). E ci sembreranno provvidenziali, come ieri che uscivo da un noto magazzino con un mobile che pesava un quintale in più del previsto, e un “angelo” si è offerto di accompagnarmi al prezzo di un taxi normale. Miracolo! Che ci faceva un colombiano dotato di furgoncino, proprio all’uscita dell’IKEA di Barcellona?

Il bello è che nell’associazione che abbandonerò ho incrociato persone conosciute molti anni fa, quando ci consigliavamo libri di self-help. Ho dunque contravvenuto al dogma di farmi un quintale di cazzi miei, per amore del mio esperimento preferito: vedere che effetto hanno le scelte della gente nel corso del tempo! Infatti non ho potuto fare a meno di notare le posizioni dei conoscenti di cui sopra su queste parole chiave:

  • vittime & vittimismo: a me sembra che siamo spesso vittime di qualcosa, fosse anche di un malinteso! Riconoscere quando succede non equivale a gridare “al lupo al lupo”, ma è `piuttosto la chiave per risolvere il problema. E invece, stando a sentire questi ottimisti, le donne “fanno le vittime” quando denunciano, appunto, di essere afflitte da una differenza salariale documentabile, che non saprebbero colmare contando solo sulle loro capacità. Va da sé che le ultrà del pensiero positivo sono precarie quanto le più pessimiste, solo che non se lo dicono. I catalani, poi, “sono vittimisti a prescindere”: anche quelli che, invece dell’ormai proverbiale “Madrid ladrona”, si limitano a denunciare la scarsa separazione dei tre poteri, che confonde pure le presunte sinistre spagnole;
  • la paura: sentimento proibito. O diventa un’arma per “contrattaccare” (la vita, a sentire queste persone, sarebbe un’eterna guerra), o è una debolezza che non deve esistere. Non è mai una sensazione “amica” che è lì per avvertirci del pericolo, e che dovremmo ascoltare, assimilare, e magari tener presente, intanto che agiamo nonostante quella;
  • “Smarmella, smarmella tutto”: questa è la parte che mi dispiace di più. La rimozione dei problemi evidenti nella vita: ripeterti che sei superiore al collega promosso al posto tuo, o alla nuova fiamma dell’ex, senza chiederti perché senti tanto il bisogno di fare questo confronto. E sì, sono ruoli e problemi stereotipati perché, come intuirete, gli stereotipi sono pane quotidiano per chi deve fare l’enorme sforzo di rimuovere la tristezza dalla vita.

In effetti, nonostante la gioia rampante e l’entusiasmo d’assalto, quando si parla di politica i compagni d’associazione che mi lascio dietro sono i paladini del buonsenso, del “meno peggio, contro i barbari“: questione che non ha facili soluzioni, ma quello che mi colpisce è la rabbia. C’è una presunta ineluttabilità delle scelte, difesa con tenacia per apparire progressisti sì, ma non rivoluzionari. Il rischio è che la massima per cui il cambiamento più importante è quello interiore diventi un’ottima scusa per non cambiare nient’altro che se stessi (e a volte neanche quello).

Non fraintendetemi: i miei conoscenti ne hanno fatti, di progressi, in questi anni. La loro determinazione ha mietuto riconoscimenti e titoli di studio, e pagine in più di curriculum. Il fatto che questo non li abbia fatti uscire dalla precarietà non è colpa loro, ma è un sintomo dei tempi. Però, sospetto, è come se avessero passato il tempo a girare in circolo, senza mai allontanarsi troppo dal punto di partenza.

Che so, hanno aggiunto altri timbri sul passaporto, ma non mi parlano tanto dei bei paesi visitati, quanto della loro “intrepidità” nell’attraversarli. Ai figli che hanno o non hanno avuto accennano con convinzione arrabbiata, difendendo la loro scelta come se fosse l’unica sensata: allora, “legge della natura” e “condizionamento sociale” diventano termini assoluti e inappellabili. Ma quello che più colpisce è la totale rimozione dell’insuccesso. Magari, tra i presenti alla festa di turno, ero l’unica testimone di diplomi mai presi, o di relazioni sfumate, così sono loro i primi a mettere in mezzo l’argomento: solo per dirmi che “se lo sentivano fin dall’inizio”, che “investire” in quel progetto non li avrebbe portati da nessuna parte.

Dove li hanno portati, invece, i progetti nuovi?

Non troppo lontano, temo: però sono riusciti a convincersi che fosse la migliore delle mete possibili.

Hanno ragione! E secondo me lo resterà finché lasceranno il dolore fuori alla porta.

Quando gli permetteranno di entrare, forse sì che potranno andare dovunque.

O almeno, dove gli farà bene.

 

 (Scusate, non potevo esimermi!)

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Due giorni fa ho ricevuto una pre-stroncatura.

Cos’è? È quando un tipo simpatico che lavora per una grossa casa editrice ti avverte in anticipo che ti faranno male. Cioè, che la scheda del tuo romanzo, che per la seconda volta consecutiva è stato ignorato al loro megaconcorsone, non sarà proprio generosissima. Avevo conosciuto il tizio al buffet post-premiazione, a cui partecipo con religioso entusiasmo (in effetti ormai vado solo per quello): con la stessa gentilezza con cui quella sera mi passava le tartine, o mi reggeva un momento lo spumante, quello mi ha suggerito ora, via mail, che il loro concorso è per “letture da ombrellone”, non per il solito romanzo di formazione scritto l’altro ieri, con linguaggio trasandato, seguendo un soggetto scontatuccio anziché no. Colpevole, colpevole, colpevole: così mi dichiaro, signori della corte. In effetti l’ho terminato appena a febbraio, non ho lesinato sulle espressioni gergali, e in fin dei conti propongo una variazione sul sempiterno viaggio dell’eroe. Il fatto che sia un’eroina, e una che parte per non tornare, sembra cambiare poco le cose, anche se questi esemplari costituiscono solo un terzo della totalità dei “cervelli in fuga“: ma siamo “tutti uguali”, no? Insomma, sapevo a cosa andassi incontro, e sapevo anche che non si può piacere a tutti.

Questo non toglie che su quel manoscritto abbia fatto le nottate: a volte finivo all’una, da che mi ci ero messa alle otto del mattino. Poi l’ho riscritto daccapo, e ho mandato una nuova versione dopo il concorso, pregando la giuria di valutare anche quella. Insomma, ci ho lavorato su.

Il trucco, in tutte le cose, mi sembra essere: accetta che, per quanto ti ci sbatta, ti può andare comunque da schifo. Se non ti ci sbatti nemmeno, poi, che te lo dico a fare. Le botte di culo esistono, ma il punto è proprio questo: vai a prevederle!

Avevo ben presente questa lezione, quando ho accompagnato alle feste della Mercè – patrona di Barcellona – un entusiasta dei correfocs: sorta di sfilata di carri infuocati e, soprattutto, diavoli dai tridenti che sprizzano scintille. Ora, piuttosto che fingere di guardare i correfocs (se misuri meno di due metri, osservi giusto le riprese al cellulare di quelli avanti a te), per ammazzare il tempo mi sono messa ad ascoltare i commenti dei turisti delusi.

“È ‘na cafonata!” ha dichiarato uno, con accento romano.

Io ero combattuta tra spaccargli la faccia e dargli ragione, perché in generale le feste locali mi deludono sempre. Gli autoctoni che vi partecipano condividono ricordi d’infanzia e un senso d’appartenenza che eviterò di approfondire: ci ho scritto un altro romanzo, che stroncherete voi l’anno prossimo! Chi invece ci vede solo costumi a buon mercato, e versioni a tre punte delle stelle filanti, tende a pensare: “Bah”. Oppure, per rubare la definizione di un cuozzo in metro: “Pare ‘a sagra d’ ‘o casatiello a Sant’Arpino”.

Stessa cosa a fine serata, quando tornavamo da un “cinese per cinesi” nella zona di Arc de Triomf*. Lì accanto c’era un’installazione che riproduceva una sorta di giardino giapponese, con gli orari degli spettacoli scritti col gesso su una lavagnetta. Quando scoccava l’ora, quattro addetti integravano il gioco di luci che animava le piante gonfiabili, modellando “serpentoni” di stoffa con improvvisi getti di vento.

“Is that it?” ha urlato una ragazza con una birra in mano, a spettacolino finito.

Lì mi sono proprio arrabbiata, e mi sono sentita ancora più tormentata da una colpa inesistente: quella di aver pensato lo stesso! Però oh, quella gente non fa il lavoro dei professionisti dell’industria turistica, che poi si sta mangiando Barcellona.

Sono volontari che a questa roba ci lavorano anche un anno, rispettando misure di sicurezza da paura, con l’orgoglio di portare avanti una tradizione secolare, ma con mezzi moderni.

Ci ho pensato anche quando ho visto il documentario sull’ottava stagione di Trono di Spade, che per me, come forse saprete, è stata il perfetto esempio di operazione che, per accontentare tutti, finisce per fare schifo ai più. Però è lavoro: la truccatrice che vive mesi lontana dalla figlia, il disoccupato che ormai è chiamato fisso come comparsa, non hanno la colpa delle decisioni degli sceneggiatori. Hanno lavorato, e tanto, e lontano dal tappeto rosso degli Emmy.

Allora c’è questa situazione complicata, che diventa drammatica in caso di sfruttamento selvaggio: chi fruisce di un lavoro ha tutto il diritto di non apprezzarlo, ma è ingiusto sminuire chi quel lavoro l’ha portato avanti, dedicandogli tempo e devozione.

Forse, a ricordarcene, formuliamo anche giudizi meno taglienti, e ci rendiamo conto che siamo esseri umani, che provano a fare almeno una cosa buona nel tempo che hanno a disposizione.

Io le nottate continuerò a farle, sul mio manoscritto.

Magari è destinato a non piacere mai, come accade a me coi correfocs da undici anni a questa parte.

Forse il segreto è fare come quei diavoli che una volta all’anno mi cospargono di scintille: non dobbiamo scordare mai che, tra una cosa e l’altra, lo stiamo facendo per noi.

 

*Un altro particolare che mi sfugge come trapiantata, fin da quando mangiavo di tutto, è perché qualcuno, con un cinese autentico o un’areperia venezuelana a dieci minuti, voglia spendere il doppio per un menù fisso nella pretenziosetta Rambla de Catalunya… Ma, a parte che de gustibus, ricordo con gratitudine le feste del Raval, quando i commercianti locali prendevano d’assalto la coca, che pure adoro, e mi lasciavano biryani e gyoza: bene così!

skinner Gente, sono ancora reduce dalla fiesta loca della Notte di San Giovanni: pensate che alle undici e un quarto ero già sulla strada di casa, con in mano un doppio cartoccio di Maoz!

Ma prima ho ballato due ore come una scema davanti al palco della festa del Gotico. Quindi, ancora un po’ rincoglionita, approfitterò del meme qui sopra, che mi ha inviato l’autore di questo blog, per aggiornarvi su uno dei miei cavalli di battaglia: le cose che succedono quando nella vita non abbiamo abbastanza informazioni (cioè, sempre).

Ecco tre aneddoti freschi freschi.

  • Dieci di sera, tizio che urla al telefono mentre cammina verso l’uscita della metro. Lo scansiamo tutti, ripete cose come “Non venirmi più a cercare, io faccio un macello…”. Poco dopo aver riattaccato, l’arrabbiato travolge un’ignara passante, e poi se la prende con lei per l’impatto. Cornuta e mazziata, l’altra si gira con le mani aperte al cielo, come a chiedersi: “Cosa mi è appena successo?”. Io che so della telefonata “agitata” potrei spiegarle almeno in parte l’accaduto. Anche a me però mancano informazioni: salvo rincontrarlo, e spero di no, non saprò mai se quello stia sempre così scoppiato di suo. La passante, invece, decide di saperne abbastanza del tizio da non fargli troppo caso, e prosegue per la sua strada.
  • Presentazione del mio romanzo a Barcellona: viene un conoscente che non parla italiano, compra il libro e se ne va. Penso al generoso appoggio di un mezzo sconosciuto. Sei mesi dopo: il tizio è fidanzato ufficialmente con un’amica che doveva venire alla presentazione, ma aveva dovuto declinare all’ultimo momento. Questo è un classico esempio di “mancanza d’informazioni” incrociata: io non sapevo che il tipo cominciasse a frequentare la mia amica, lui non sapeva che alla fine non sarebbe venuta. Ci ho guadagnato una copia venduta, quindi grazie comunque.
  • Questa avrei voluto filmarla. Cena di gruppo, sabato scorso: sono attorniata da ben tre uomini con la camicia buona, e l’evidente proposito di rimorchiare. Mentre parlo con quello che siede accanto a me, alle sue spalle si profila una donna stupenda: “occhi da orientale” e capelli nerissimi, che le arrivano fino alle gambe esaltate da un bermudino. Il mio interlocutore si gira un istante, poi in una scena quasi comica torna a girarsi. Penso a un comprensibile colpo di fulmine – non è un caso che a mia volta stia parlando con lui, che è il più carino… Solo che, qualche minuto dopo, il tipo si “trasferisce” lunghi istanti al tavolo della donna e del suo accompagnatore: conosceva già uno dei due. Magari proprio lei: il più anziano dei suoi amici gli raccomanda di riferirle che il fortunato compagno sembra “noioso”. Quando chiedo al meno pettegolo dei tre commensali da dove provenga cotanta bellezza, quello sospira e risponde: “Che importa?”, ricordandomi il curioso concetto di “troppo bella per me”, che lascia le donne etero col dubbio (“Gli piaccio perché mi trova interessante, o mi ritiene abbastanza cessa per andare con lui?”). Alla fine i damerini si uniscono alla bella e al suo uomo e, il tempo di pagare il conto, spariscono senza salutare. A quel punto ancora non ho capito le dinamiche dell’incontro, ma ho abbastanza informazioni da non rimpiangere troppo la compagnia.

Ieri, prima di ballare due ore come una scema, ho conosciuto un’aspirante coach (ma voi dite sempre counsellor) che mi ha parlato di un gioco che fanno alla formazione: disposti in due cerchi concentrici, i candidati devono osservarsi faccia a faccia e, a rotazione, rivelare all’altra persona le loro impressioni, basate solo su aspetto fisico, abbigliamento, movenze. Il risultato è una macedonia di congetture a caso che possono avere due effetti: rivelare alla persona osservata aspetti di sé che non ha mai contemplato; rivelare alla persona che osserva aspetti di sé che crede di vedere nell’altro. Indovinate cosa succede più spesso.

Ed è quasi sempre così.

Io a ventun anni, più entusiasta e ingenua di adesso, acconsentii di malavoglia a farmi leggere la mano da uno che faceva l’espertone: mi disse che non ero molto intelligente, ma avevo una forte carica sessuale.

Le mie amiche stanno ancora ridendo, e la cosa a dirla tutta mi offende un po’.

Event Cover Photo

Da internations.org

Anche alla festa di ieri è venuto l’ubriacone.

Si presenta sempre a questo genere di eventi, organizzati da un’associazione sul terrazzo di un hotel, e una ragazza appena iscritta ci ha passato un brutto quarto d’ora. Quando è toccato a me, l’ubriacone andava distribuendo degli stuzzichini che aveva rubato alla cameriera.

“Dai, adesso è vuoto” gli ho sottratto con delicatezza il vassoio dopo avergli consegnato l’ultimo stuzzicadenti. “Dallo a me, che vado a posarlo”. E ho fatto cenno alla neoiscritta di accompagnarmi, se voleva svignarsela a sua volta.

“Wow, sei stata veloce ed efficace! Mi hai insegnato come ci si comporta in questi casi!” si è complimentata con un pizzico di amarezza: era avvilita per non aver trovato subito lei una via d’uscita. “Io mi limito ad arrabbiarmi” ha aggiunto infatti.

L’ho rassicurata dicendole che la sua reazione, che ho adottato tempo fa a Parigi, era anche meglio della mia “diplomatica”, e le ho sciorinato il curriculum di scappatoie che ho dovuto inventare con uomini molesti, quando ancora vivevo in Italia: dal fingere di bussare a un citofono al continuare a studiare imperterrita, su una panchina della stazione, col braccio di uno sconosciuto sulla spalla.

La ragazza, allora, mi ha raccontato le allucinanti esperienze che ha avuto con italiani, compreso uno che l’aveva prima fissata a lungo in modo imbarazzante, e poi trattata con maleducazione quando era stata lei a rompere il ghiaccio. Un altro la stava per schiaffeggiare perché lei aveva rifiutato le sue avances. “Ma che problema hanno?” mi ha chiesto, curiosa.

Le ho mostrato i cartelloni dedicati al Pride, stile “Più gay = più patata per noi”, e i commenti divertiti di amici più o meno quarantenni, che sdrammatizzavano. Le ho spiegato che incominciamo da poco ad aprire la mente, al di fuori dei soliti circoli, e questo è quello che ci tocca nella prossima decade, con tanto di inviti a “essere comprensive invece di lapidare” (fatti da chi si aspetta una medaglia anche solo per non mettere mani sul culo).

A beneficio di chi si chiede “E allora alle donne non possiamo dire più niente?” (qui un interessante prontuario in merito) voglio raccontare un altro aneddoto sulla serata di ieri, perché la più grande sorpresa non è stata l’ubriacone.

È stata il tizio che mi aveva fermata per strada.

Che due mesi fa era qui “di passaggio”, e invece a sorpresa era ieri alla festa.

Quando questo qui mi aveva fermata per strada, una sera d’inizio aprile, non mi ero offesa né niente: non mi stava trattando come una che credeva di poter chiamare “Bbbeibe” su due piedi, quando magari avrebbe impiegato venti “Excuse me” e trentacinque “Sorry” solo per chiedere l’ora a un uomo. Era stato franco: aspettava un amico e mi aveva vista, mi aveva trovata carina e si era chiesto se fossi disposta a fare due chiacchiere, o prendere un caffè con lui. Preferiva gli incontri in carne e ossa a Tinder, e devo dire che con me sfondava una porta aperta. Era anche divertente, così gli avevo sottoposto il test che faccio in questi casi: gli avevo dato il mio nome completo, pronunciato due volte in italiano senza nessun “aiutino”, e gli avevo detto: “Trovami su Facebook”.

Non mi aveva trovata. L’aneddoto sarebbe rimasto incastonato nelle memorie di questa primavera bizzarra, se non fosse stato per l’incontro di ieri sera, e la scoperta: “l’intrepido” era di una timidezza incredibile.

“Come ha fatto a fermarti per strada uno che manco stacca gli occhi da terra?” si è chiesta la neoiscritta, messa a parte della situazione.

Be’, adesso ho un’informazione in più, che forse c’entra e forse no. L’amico che era con lui, un assiduo di queste feste, fa il counsellor specializzato in questioni amorose. Conosco poco questo genere di trattamento, ma mi pare di capire che preveda esercizi ad hoc, del tipo, che so: “Vai in giro e invita la prima che ti capita a prendere un caffè”.

Coincidenze?

Boh. Forse è vero che del resto del mondo non sapremo mai abbastanza.

 

La colonna sonora della festa – brano non proprio “estivo”, ma c’era vento…

L'immagine può contenere: una o più persone, folla e spazio al chiuso

Foto presa dall’evento che nomino (e linko) nel testo

Dieci giorni dopo la presentazione di Airport Tales, siamo passati letteralmente all’Airport Party, che è davvero il nome del veglione notturno organizzato all’Aeroport del Prat da chi, come me, di tutti i giorni per tornare a casa ha scelto proprio questo 21 dicembre, con in giro cosucce tipo: Pedro Sánchez che la sera prima conferiva con Quim Torra e oggi tiene il Consiglio dei Ministri dello Stato spagnolo; i compagni dell’indepe di casa che si sono già beccati qualche manganellata nelle numerose manifestazioni previste; i più mattinieri, o nottambuli, di loro che bloccano da ore alcune delle arterie fondamentali per la viabilità.

A mia difesa devo dire che ero convinta di partire il 22, e domani mi sarei recata all’aeroporto senza sospettare nulla, se la Vueling non mi avesse illuminato sulla situazione – e sul suo bisogno urgente di traduttori madrelingua:

Gentile cliente,

Dovuto allo sciopero convocato in Catalogna per venerdí 21 Dicembre, e sempre con l’obbiettivo di offrirle il migliore servizio, le consigliamo di recarsi in aereoporto con piú anticipo rispetto a lo abituale per poter realizzare il check-in e imbarco con piú tempo.

Ringraziamo la Sua fiducia e ci scusi per i possibili problemi creati da fattori totalmente estranei alla compagnia.

Distinti saluti

Team Vueling

 

“Rispetto a lo abituale”, dunque, mi sono avviata alle 3.50 del mattino in cerca della mia compagna designata di sventure, anche lei in partenza per Napoli, che ahimè si è vista rubare al volo il cellulare da un ragazzetto che, trovandosi lei nel mio amato Raval, deve aver fatto casa e puteca.

Che dire: l’importante per me è che siamo atterrate sane e salve, benché in ritardo, e che io, mentre scrivo queste brevi parole, abbia già all’attivo due cestini alle scarole del panificio Javarone.

Volevo solo informarvi che nel gruppo continuano gli aggiornamenti, anche utili, che la festa c’è stata sul serio, e che è vero anche che mentre loro festeggiavano, dei loro coetanei sono stati manganellati dalla polizia per il difetto di essere repubblicani.

Questi ultimi forse considereranno quelli del “party” nel seguente modo: guiris, capitalisti, gentrificatori, parassiti e, stando a dei manifesti che ho letto nel Raval, anche assassini e fills de puta (se, oltre al reato di ascoltare pessima musica, attribuiamo loro lo spopolamento progressivo del centro a beneficio di stranieri con soldi che fanno vita a sé).

Lo so perché, specie adesso che ho comprato casa, mi sono vista attribuire tra il serio e il faceto quasi tutti gli aggettivi di cui sopra, e adesso mi dichiaro anche colpevole di aver apprezzato questi ragazzi che hanno fatto buon viso a cattivo gioco, accampandosi in aeroporto, e socializzando nella “Lingua dell’Impero” (anche se spulciando trovate ragazze catalane che si rammaricano di non essere andate).

Mettiamola così: si vede che ognuno ha le battaglie che si merita.

Per fortuna ne abbiamo qualcuna in comune. Penso a quelle. E un po’ anche al pane cafone che divoro adesso.

 

 

Ieri sera tornavo in auto coi miei da Napoli, dove avevo ritirato questo premio, e volevo chiudere col botto: visitare l’allummata di San Sossio! O Sosio, per i puristi: ma, nella terra in cui “babà” si pronuncia con quattro o cinque “b”, una sola “s”, e per giunta sonora, mi sembra un po’ sadica.

Il patrono della mia ridente cittadina mi aveva già omaggiato – lui a me – con due giorni di festa della pizza, grande scusa per passeggiare tra effluvi di olio e basilico, e contemplare le luminarie, insieme ai tacchi argentati delle preadolescenti di una scuola di ballo.

Ieri sera non mi restava che chiedere ai miei, carichi di pergamene e souvenir del concorso, di lasciarmi all’incrocio con il Corso, perché proseguissi a piedi nell’abito tutto volant in cui mi ero insalsicciata per l’occasione (fortuna che non metto tacchi!).

Che bello, comincia il concerto, ho pensato una volta in piazza, mentre mi facevo strada tra bambini che correvano, e qualche papà che mi guardava allibito.

E invece no: stava solo provando il suono, la vincitrice di Sanremo canta Napoli, accompagnata alla chitarra dall’artista locale che era anche l’autore della sua canzone. Peraltro provavano con una cosuccia da niente: Tu si’ ‘na cosa grande, di Modugno.

Mentre la bellissima cantante l’intonava, con una pronuncia che mi ha fatto dubitare delle sue origini siciliane, ho scoperto una cosa strana. Della piccola folla che si era assiepata davanti al palco, ero l’unica a cantarla insieme a lei.

Eppure ricordo bene i miei anziani, ormai tutti scomparsi, che alle feste di famiglia imploravano noi nipoti di togliere i Queen e mettere “le canzoni napoletane”, cioè Murolo e Aurelio Fierro. Loro sì che le intonavano, Era de maggio e Reginella (di solito preferivano il repertorio malinconico), e Mimmo Modugno, rispetto a quelle canzoni lì, era roba recente. Ma i presenti di ieri sera, compaesani di ogni età, si limitavano ad ascoltare.

Magari sono io a fare sempre la spettatrice gasata: anche nel buffet seguito alla premiazione, avevo accompagnato con entusiasmo il duetto che intonava La garota de Ipanema, e una versione molto “Elvis” di ‘O sole mio.

Però una folla intera cantava con me, tre mesi fa, in una Piazza Dante intasata dai fan del noto Alessio, chiamato a cantare all’inaugurazione di un negozio. Ero pure l’unica a non conoscere i testi!

E allora Alessio sì, e la canzone classica no?

Generazioni che cambiano, dinamiche che cambiano: cantiamo quello che ascoltiamo più spesso. O così mi sono detta.

E in fondo ci sta. Io, dopo un’infanzia passata a parlare italiano, mangiare hamburger e ascoltare musica in inglese, ho deciso a sedici anni suonati di approfondire quella parte d’identità che per certa classe media, dalle mie parti, “fa brutto” riconoscere come propria.

Da allora, come “napoletana di ritorno”, ho scoperto una piccola grande verità: se non puoi essere una cosa, la studi. E diventi più realista del re, come me che insegno regole del catalano agli autoctoni che le ignorano (e che ricambiano col catalano che si parla sul serio). O come gli europei “folgorati dall’India” che, il Giorno della Terra, suonano il sitar in tuniche bianche, mentre gli indiani passano con buste di plastica tra il pubblico per recitare un unico mantra: “cervezabeer, cervezabeer…”.

Invece, magari, i ragazzi col turbante che ieri sera si perdevano tra le bancarelle erano più napoletani di me.

È difficile da spiegare, io napoletana mi ci sono sentita tardi. A Napoli ci sono arrivata dopo, anche se ci sono sempre stata.

Però ho cantato con fiducia quel brano scritto da un pugliese, ed eseguito in quel momento da una siciliana.

Perché Napoli è generosa, mi sono detta, accoglie tutti.

Perfino i suoi.