Archivio degli articoli con tag: Freddie Mercury

Image result for freddie mercury live aid Una volta ce l’avevo io, adesso mi sa che tocca a voi.

O meglio, la “pelle fina” (espressione che in più lingue denota un’alta suscettibilità) devono avercela quelli convinti che, se penso che il culo di un’attrice non dovresti imburrarlo “a sorpresa”, sto insinuando anche che hai le capacità di regia di mio cugino al filmino della comunione. Oppure ce l’ha quella che a cena, l’altra sera, mi ha spiegato che ci sono due femminismi: il suo e quello finto (tipo il mio). Infatti la prostituzione va abolita e quella femminile è “una questione di classe”. Ne deduco che la condizione della regina Elisabetta sia equiparabile a quella della mia barista lesbica coi capelli afro. Ma non ho osato chiedere.

E io? Su Facebook raccontavo la mia crisi a uno sconosciuto reduce da una rottura, e un tizio ha commentato: “Dagliela, così state meglio entrambi”. Non sono più abituata a questo genere d’ignoranza: i miei alunni catalani, che sono ingegneri e non studiosi di genere, fanno notare loro a me quando un paragrafo del libro di testo è sessista. Comunque ho commentato che al massimo “lo prendo”, e se si sente generoso ci pensasse lui, la vita è piena di scoperte inaspettate. Poi ho disattivato le notifiche dell’intera pagina, il tenore era quello e ho di meglio da fare.

Cosa? Quasi sempre, il minimo indispensabile: se il New Yorker la pensa come me su quella storia del burro (che peraltro non ho mai esternato!), basta prendere le distanze dall’italiana offesa che… “tanto-voi-ci-avete-Trump” (tempo impiegato: tre minuti d’orologio). O basta spiegare alla mia nuova maestra di femminismo – quella della regina Elisabetta – che qualcosina ne saprei anch’io (tempo: dieci secondi), prima di girarmi dall’altra parte e godermi la serata.

Per farla breve, devo proprio riesumare un classico di qualche post fa:

Segnalo anche l’analisi di un classico del tutto diverso, Radio Ga Ga dei Queen, su cui non ho affatto la pelle fina: oggi non amerei il gruppo con l’intensità dei miei dodici anni! Però il mio maestro di canto preferito osserva che quel domatore di folle che è stato Freddie Mercury eseguiva alla perfezione tutte le tecniche del mestiere, senza mai chiedersi: “Come sto andando?”. Lui era lì, nella canzone, nei movimenti, nell’interazione con pubblico e gruppo: allora il suo corpo (temprato da anni di pratica) lo seguiva con gli strumenti adeguati per portarlo dove voleva.

Ecco, forse dovremmo smettere di concentrarci sulla nostra esibizione e focalizzarci sulla causa: la difenderemmo meglio. Poi, con il tempo e l’energia che avanzano, potremmo davvero dedicarci a noi.

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Risultati immagini per the crown Al liceo avevo un professore che non voleva portarci alla gita fuori porta (la “visita guidata”, avrebbe corretto lui), tradizionalmente prevista ogni anno.

Ci aveva “ereditati” in quinta ginnasio, per lui eravamo dei perfetti sconosciuti rivelatisi più problematici del previsto (pure lui, però, richiedere proprio la classe fighetta… Io almeno non me l’ero scelta!).

Come tutti i progetti sfumati, il suo non fu un rifiuto netto alle nostre sollecitazioni. Andò per tappe.

Il primo sintomo fu un temporeggiamento inutile: e la responsabilità di portarci in treno, e l’incresciosità d’interrompere il programma, e la necessità di una lezione introduttiva…

Finì che al primo sciopero a cazzo di cane (e al liceo se ne fanno tanti che insultano la pratica dello sciopero) ci eliminò la gita, non senza un sorrisetto soddisfatto.

Così succede, secondo me, con le cosiddette sconfitte e i progetti abortiti: difficilmente avviene tutto in una volta. A perdere si comincia piano, e il sintomo più evidente è uno stallo. Un blocco. Da che correvamo velocemente verso la meta, rallentiamo. Impercettibilmente, inesorabilmente. Fino, in qualche caso, a fermarci del tutto.

Che sia una relazione bloccata alla prima decisione importante, un’attività fermatasi al secondo cavillo burocratico, un trasloco sfumato alla terza visita ad appartamenti troppo cari (non infrequente, a Barcellona), succede sempre la stessa cosa: il mondo gira e noi ci fermiamo.

Per me è la parte più frustrante: ci accorgiamo gradualmente che l’entusiasmo iniziale diventa un continuo attendere, posticipare, valutare costantemente pro e contro di qualcosa che, intanto, non aspetta noi.

A volte davvero ci blocca la paura di non riuscire, ed è un peccato. Almeno in questo sono d’accordissimo con Giorgio Nardone: se non affrontiamo le nostre paure, tendono a realizzarsi quelle, al posto dei sogni.

Altre volte, semplicemente, il progetto non ci interessava quanto credessimo, o non abbastanza per il lavoro che comportasse. E non c’è niente di male, a cambiare idea. Magari è meglio farlo con un taglio netto, invece che con uno stillicidio.

Quando si verifica il primo caso e quando il secondo? La dose di onestà intellettuale che ci aiuta nella cernita è così grande che andrebbe assunta quotidianamente, tipo sciroppo per la tosse.

Per una volta, però, sono d’accordo con la Regina Madre, in The Crown. La protagonista (Elisabetta II) insiste per affidare al marito l’organizzazione della sua incoronazione. Sua madre, parlandone col segretario reale, commenta:

– La regina deve imparare la stessa lezione dei giovani condottieri.

– E cioè? – chiede l’altro.

– Deve imparare a perdere! – rispondo io dall’altra parte dello schermo, sentendomi saggia.

– Deve capire quali battaglie vadano combattute e quali no – replica invece l’ex sovrana.

Per una volta, Dio salvi la Regina. E ci guardi dalle cause perse.

Comunque in quel caso l’ha spuntata Elisabetta.

Anche se, in un concorso tra regine d’Inghilterra, sappiamo benissimo chi vincerebbe.