Archivio degli articoli con tag: furto

Image result for house alarm meme Stanotte non ho dormito per la tempesta perfetta.

Poco male, però: almeno è vento. Come fai a prendertela col vento?

Pensate che, tra le amenità del mio ritorno in paese per le feste, c’era l’allarme.

Quella volta che riuscivo a prendere sonno… Zac! Scattava a orari comodi tipo le cinque del mattino, e buonanotte ai suonatori (e solo a loro). Proveniva da una casa vicina, ma capirete, nel dormiveglia il timore che suonasse da noi era duro a morire.

Infatti, nonostante i miei sfottò (“Sembriamo Fort Knox!”), riconosco che non è paranoia, quella dei miei e di altre famiglie in zona che cercano di proteggersi: c’è un lungo record di intrusioni, piante da giardino rubate, cantine private dei migliori vini… Un vicino, a suo tempo, ha sentito nei fumi del sonno la sua auto che si metteva in marcia, e si è reso conto un istante dopo che non era lui a guidarla. E non vi dico quando riescono a infiltrarsi direttamente in casa! Ricordo un ritorno post-cenone, con un’anziana che urlava legata dalla villetta di fronte, e delle ragazze che saltavano la cancellata per andarla a liberare.

Quindi ok, ben vengano questi allarmi, specie ora che sto riflettendo su quelli, più metaforici, che ci suonano quando ci mettiamo in brutte situazioni. Avete presente? Quelli da… “Io avevo detto che non avrei mai più condiviso un appartamento con inquilini scombinati, e invece questa casa è un disastro…”. Oppure: “Questa volta volevo una persona che mi rispettasse, e invece non mi risponde ai messaggi da un’ora!”. Ogni tanto è un ottimo segno, che ci suoni un’intera orchestra di campanelli nelle testoline recidive.

Però, appunto, quant’è sensibile quest’allarme che abbiamo interiorizzato? Perché vi confesso una cosa: la sirena che mi scoppiava nelle orecchie in paese, non erano quasi mai i ladri a farla scattare. Il più delle volte, si trattava di un colpo di vento. Esopo, sei tu? “Al lupo, al lupo”: lo stai facendo benissimo.

Riguardo ai campanelli interni, per quanto siano state brutte le esperienze pregresse, le faide ai coinquilini non dovrebbero scattare al primo bicchiere non lavato in cucina, e se non visualizza subito il WhatsApp non vuol dire che già non ci pensa più!

Se un allarme è troppo sensibile, passa da essere la soluzione a diventare parte del problema.

Infatti i vicini affetti da sensore… ultrasensibile, si allontanano solo per fare la spesa, sapendo che di lì a poco l’intero quartiere potrebbe ascoltare quella sinfonia estremamente monocorde, e solo perché un pipistrello sta cercando di socializzare con la telecamera di sicurezza.

Al che la domanda, non filosofica ma proprio pratica, è: a che servono gli allarmi?

A tenerci al sicuro! Ma quando diventano una minaccia alla nostra stessa mobilità, tanto che non osiamo allontanarci da casa – o, tornando alle metafore, dare confidenza a un nuovo amico – si verifica quel caso che Watzlawick spiega molto bene: la soluzione diventa il problema. Si trasforma in un feticcio che veneriamo di per sé: non fidarsi di nessuno al lavoro, decidere che un certo stile o un’espressione tipica qualificano un intero individuo… Invece dovremmo valutare, prima di tutto, se sono efficaci. Se servono a qualcosa.

Ma un allarme troppo sensibile non serve più a niente. Invece di farci star bene, ci complica la vita. È questo che vogliamo?

Stiamo alla larga, quindi, dalle paure feticcio. Ricordiamoci sempre perché facciamo le cose, che funzione hanno nella nostra vita.

Se no basta un niente a far scattare, rendendoli perfettamente inutili, i nostri costosi sistemi di autodifesa.

E adesso, ja’, fatemi dormire.

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Se rubo questi voglio l’assoluzione

La notizia è che Ángel Boza, membro della notoria Manada, ha provato a rubare degli occhiali da sole al Corte Inglés, e poi è scappato in auto, rischiando d’investire due vigilantes. La notizia si commenterebbe da sola, ma vorrei tradurre l’eccellente brano che ha postato Paula Marín, psicologa, sulla sua pagina Facebook:

“Credo proprio che esporre degli occhiali lì, come se niente fosse, sia un invito al furto.
Che cazzo, se non vogliono che nessuno se li prenda senza pagare, non li lasciassero sotto gli occhi di tutti, no?

Inoltre, qualcuno gli ha detto di non rubarli??? Qualcuno gliel’ha detto? Gli hanno detto chiaramente di NO? E allora??? Come volete che lui sappia, che non vogliono che li rubi???

E quelli della sicurezza, bisogna conoscere anche la versione di Boza, che non si può parlare per parlare. Adesso siamo diventati tutti giuristi?!

Lo sappiamo tutti, che ci sono denunce false, e magari quello che volevano era rovinare la vita a questo povero ragazzo, dicendo che ha provato ad investirli, però OCCHIO! Magari si erano piazzati lì in mezzo proprio perché volevano essere investiti, è anche vero che alla gente piacciono, queste cose, e poi si sono pentiti, hai visto mai li riprendessero le telecamere, e poi ovvio, per come vanno le cose oggigiorno, sicuro che hanno denunciato per farsi un po’ di soldi.

E questa storia di guidare senza patente, parliamoci chiaro, chi non ha fatto questo tipo di cose, qualche volta? Se fosse una donna sicuramente non direste niente, vi accanite contro di lui perché è un uomo.

E la presunzione d’innocenza, dove la mettiamo?

E dagli con la corsa dei tori a Pamplona, che questa è un’altra questione e non c’entra niente!

Conosco un tipo che è stato denunciato da un vigilante per tentato investimento ed è finito in galera, senza prove né niente. Ed è un bravissimo ragazzo e sono convinta che non ha fatto nulla!

Feminazi, siete solo delle feminazi”.

Risultati immagini per paral·lel barcelona Immagino che anche le vostre vite non scherzino, ma la mia è piena di aneddoti.

Alcuni sono campanelli d’allarme, surreali o, francamente, ridicoli: io che, si diceva, mi faccio un’ora di treno per insegnare un’ora e mezza; io che scopro che “lo scoop del momento” è che il tizio che frequento in segreto da un anno si è  innamorato di una nordica. Questi sono gli eventi che fanno scattare il “che minchia sto facendo?”, e cambiare vita.

Altri aneddoti, invece, sono come i sogni di Marzullo perché aiutano a vivere, e in effetti sembrano davvero sogni: come il Caruso del Paral•lel. In realtà il signore in questione, nel negozio di telefonia in cui l’ho conosciuto, non cantava le arie di Caruso, ma la canzone di Lucio Dalla. Sbagliava le parole, ma non avevo il coraggio di dirglielo. Eravamo lì per lo stesso motivo: il furto dei rispettivi cellulari. Solo che io l’avevo  presa con la filosofia di chi ha subito tre furti in un anno, e lui ne approfittava per mostrare le sue arti sceniche alla commessa. Così elargiva battute da varietà , massime sul senso della vita e citazioni del Siglo de Oro. Le canzoni erano in inglese, portoghese e, in omaggio alla commessa che manteneva un sorriso stoico, galiziano.

Dovremmo fondare il club dei “derubati del Paral•lel”, l’animazione sarebbe a posto.

Con la commessa che invece mi consegnava il nuovo cellulare (stavolta, assicurato) ci lanciavano sguardi tra il divertito e l’attonito, e la ragazza mi ha confessato: “Qui è successo di tutto, ma questo mai”.

Quando dice “di tutto” va presa alla lettera: tra gli ineguagliabili casi umani di caratura internazionale, io stessa, al primo furto, me ne ero andata sbattendo la porta e gridando “No puede ser!”. Mi avevano appena spiegato che non potevo bloccare la scheda in negozio, dovevo farmi prestare un cellulare…

Ora ho imparato che la fantastica via di mezzo tra negare il problema e farne una tragedia è concentrarsi: mi è successo questo, come lo risolvo? Quando lo faccio, come in questo caso, ritorno a casa con:

– la soddisfazione di un problema risolto in un’ora e mezza tutto incluso (anche l’offerta Orange per un cellulare più buono, che, senza furto, non avrei comprato mai);

– un mal di testa che per una volta, in barba ai rimedi della nonna, si può anche risolvere in dieci minuti con una pastiglina, che non casca il mondo;

– l’aneddoto impagabile del Caruso del Raval;

– la certezza granitica che, come dice mia madre, “questo e niente è una cosa”.

E, un volta che hai imparato a soppesare i “questo” e i “niente”, scopri che è proprio così.

 

Immagine correlata Ci credereste? Un giorno prima di tornare a Barcellona (in realtà due giorni prima, la Vueling mi avrebbe annullato il volo) mi ha contattata su Facebook un ragazzo italiano molto gentile, che mi ha spiegato che il mio portafogli era stato ritrovato. Privo dei quaranta euro che conteneva al momento del furto, ma con tutti i documenti a posto.

C’era pure il fazzoletto.

In realtà, con la storia del fazzoletto volevo far cominciare un romanzo, la cui unica parte autobiografica sarebbe stata questa: a una festa pasquale del mio paese, un tizio piuttosto eccentrico mi aveva chiesto due fazzolettini di carta. Era quindi corso verso le statue depositate sul sagrato della chiesa dopo essere state portate in corsa per le strade del paese, e aveva strofinato i miei fazzoletti sulla mano di Cristo.

Me ne aveva poi restituito uno, raccomandandomi di tenerlo da conto per i suoi poteri miracolosi. Infilandomi il talismano nel portafogli con un sorriso perplesso, avevo guardato la statua del Salvatore che fino a poco prima svettava sulle nostre teste, e mi ero chiesta come fosse avere “una visione d’insieme”.

L’idea mi era venuta il mio primo giorno di lavoro in azienda, ormai 7 anni fa, quando, mostrandomi alla parete una foto panoramica di Barcellona, il manager mi invitò calorosamente a soffermarmi sulla didascalia: in un’azienda, recitava il testo in inglese, sono in pochi ad avere una “visione dall’alto” dei progetti in corso. Chi non ha questa responsabilità deve limitarsi a fare il suo, con fiducia e buona volontà, anche quando non ne capisce il senso. Tralasciando il sottotesto un po’ nazi (e sballato: l’azienda tracollò in pochi mesi), mi è rimasta un’impressione relativamente positiva di quell’immagine.

Mi ha ricordato che quello che ci succede è imprevedibile, perché ci mancano sempre elementi del quadro generale. E, ammesso che ci sia qualcuno con una visione dall’alto, non sembra disposto a scattare una foto e a premere su “Condividi”.

Avrei forse potuto intuire che, nella zona del furto del mio portafogli, ci fosse un parco in cui buttassero la refurtiva dopo avervi tolto i soldi. Non avrei mai potuto sperare che il mio venisse ritrovato proprio in presenza di un ragazzo italiano che s’incaricasse di rintracciarmi.

Quello che invece posso fare sicuramente è provare, senza ossessionarmi né distorcere la realtà a questo proposito, a ricavare il meglio dalle situazioni che mi succedono.

Nelle due settimane in cui sono rimasta senza documenti e coi soldi contati mi sono messa a sperimentare ricette mai provate, con ingredienti economici e deliziosi.

Quando la Vueling, come dicevo, mi ha annullato il volo di ritorno a Barcellona, ho fatto pace con Flaubert, il cui libro mi aveva deluso, ed ero andata a visitare almeno la zona in cui sono ambientate alcune scene.  Ho trascorso il più bel pomeriggio parigino di sempre. Ancora una volta, dunque, grazie anche a Gustave.

In fin dei conti, a cercarlo bene, un “angelo protettore” si trova sempre.

E a me conforta, in un certo senso, non avere mai il quadro completo.

Lo lascio a Littlefinger, che dopo tremila spoiler finalmente posso ammirare nelle sue macchinazioni finali, e alle miracolose statue acclamate dalle folle nei miei ritorni in paese.

Tutto quello che ho io è un fazzoletto in un portafogli che, attraverso un’incredibile giro di circostanze, è ritornato fino a me.

(Continua)

 

Risultati immagini per woman wallet Un turista americano vuole aiutarmi con la valigia. L’Aerobus è appena partito da Plaça Espanya, prima tappa del viaggio che mi porterà a Parigi. Gli rispondo:

“No, thanks, they’ve just stolen my wallet”.

Mi hanno appena fregato il portafogli, con dentro i documenti per partire, e sono impassibile.

Cioè, non proprio.

È che annaspando nella borsa per riporvi il resto del biglietto appena comprato, ho capito subito che il portafogli fosse andato. Troppo voluminoso per non spiccare immediatamente tra le mie cianfrusaglie da partenza. Puntellando con il piede la valigiona che ero lì lì per stipare con le altre, do un’occhiata da lontano sul banchetto accanto all’autista.

Poi mi chiedo un istante se non sia stato il poveraccio seduto di fronte a me.

Infine capisco.

E mi verrebbe da ridere, se non fossi troppo occupata a urlare:

“Per favore, si fermi!”.

Le due spintarelle sul predellino, mentre ero in fila per il biglietto. Mi ero girata alla seconda, la zip della borsa lasciata aperta nel breve istante tra il prelievo dei 5,90 (pure le monete, avevo cercato) e un colpetto di assestamento alla valigia grande. Signora anziana, corpulenta, vestito azzurro maculato, sembrava avere difficoltà nel salire. Da brava bambina educata mi ero fatta da parte.

“Prego, dopo di lei”.

Aveva ricambiato il mio sorriso, vagamente lusingata. Come se nessuno le avesse mai dato la precedenza in vita sua.

Poi mi aveva invitato in uno spagnolo stentato a entrare per prima.

Senza seguirmi, inutile aggiungere ora.

Il mio portafogli in effetti era proprio un bel reperto da rubare: l’avevo rivestito col primo, patetico tentativo di fodera a costine fatta a uncinetto. Avevo pure sbagliato le misure, aggiunto all’ultimo momento un’appendice con le costine che andavano in un altro verso. Chissà se la ladra non stia già ridendo di me.

Anche perché non ha molto altro da fare. Il suo bottino è stato di soli 40 euro.

Va detto che l’autista ferma subito, con un compassionevole “Joooder”. Ma ancora una volta le sorti della mattinata cambiano sul predellino.

“Vacci, all’aeroporto” bisbiglia in tempo il passeggero in prima fila. “Sporgi denuncia al commissariato lì, ti danno un documento da mostrare al check-in e passi lo stesso”.

“Ma se non funziona non ho i soldi per tornare!”.

“Ma se ti ho dato 15 euro di resto!” ricorda l’autista, che magari mi aveva anche maledetto per l’esborso. E piano piano la memoria torna anche a me. La bustina col grosso dei soldi, ben nascosta nel bagaglio a mano, è intatta. Più che prudenza, era stata paura della commissione carissima che mi avrebbe inflitto la mia banca, per prelevare a Parigi.

In piedi con la valigia accanto al volante, ragiono meccanicamente. Bloccare la carta, subito. L’operatrice giusta la trovo al terzo tentativo, dopo due numeri sbagliati. Il servizio clienti di BBVA sembra avere problemi seri, ragazzi. Questa infatti, gridando al di sopra del rombo del motore, mi chiede: “Blocco anche il conto?”. Sono perplessa.

“Così nessuno va in banca a prelevare col suo documento spagnolo”, spiega.

Ah, già, nel portafogli c’era anche il Nie. Accetto riluttante proprio mentre la navetta ferma davanti all’aeroporto. Mi sono appena condannata a un mese a Parigi con un budget di 15 euro al giorno (l’ammontare dei soldi in borsa).

“A ver si hay suerte” mi saluta l’autista.

Non penso più, corro. Trovo il Commissariato. Spiego. A due poliziotte diverse, in spagnolo e in catalano. Nell’eternità che dura la trascrizione del mio verbale (ma perché ci vuole tanto?) mi organizzo: messaggio mio fratello al lavoro perché mi anticipi il versamento per la stanza, dopo la consegna delle chiavi; messaggio il mio ragazzo, in partenza anche lui, anticipandogli che al ritorno dovrà spedirmi delle cose con un corriere; messaggio l’amico avvocato che mi dovrebbe seguire la contesa con la vicina di sopra, il cui pavimento sta cadendo nel mio bagno; rassicuro l’inquilino, che ignaro di tutto vuole solo sapere quando tornerà a farsi la doccia, e lo avverto che potrebbe ricevere “entro quattro giorni lavorativi” una carta di credito per me. È subito solidale, nonostante la settimana senza docciarsi.

Ho di nuovo il tempo di pensare, e va bene. Perché sto bene. Mi hanno rassicurata subito, le poliziotte: col documento che ti facciamo riesci a partire. I soldi ce li ho e basteranno. I documenti si rifanno. Che mi manca?

Che mi mancava, più che altro.

Un motivo reale per partire. Ero assorbita da questo crollo in bagno, dall’irresponsabilità della vicina di sopra, dalle condizioni in cui devono vivere i suoi inquilini immigrati.

Adesso, invece, riuscire a partire è l’unica cosa che conta. Questo, strano a dirsi, è un passo avanti: ricordare quali sono le mie priorità.

Con quelle in mente mi metto in coda al check-in e ai controlli, sostenendo gli sguardi arrabbiati di chi scambia la mia confusione per un tentativo di saltare la fila. La gente si crede incredibilmente furba, nel sospettare che gli altri la vogliano fregare.

Io no, forse è stato questo a causarmi quest’inconveniente stupido.

Ma mi dispiace, la lezione è “Stai più attenta”, non “Smetti di fidarti”.

Perché nel casino che mi aspettava all’arrivo (pesca i soldi dalla bustina per l’RER, prendi la metro con le valigie, chiedi in francese la chiave nel bar dove te l’hanno lasciata, fatti i restanti 20 minuti a piedi…), in questo percorso a ostacoli che prima del fattaccio mi terrorizzava, mi aiutano in tanti.

“Voulez-vous que je vous aide, mademoiselle?”.

Uno mi porta la valigia per due rampe di scale. Un altro me la fa salire sulla metro, senza offendersi per la mia mano ferma sul manico accanto alla sua. Anche prima del furto, una ragazza con lo zaino mi aveva fatto affrontare senza colpo della strega le scale in salita della metro Espanya.

Senza un motivo, senza chiedermi soldi o il mio numero, senza guadagnarci nient’altro che gracias, thanks, merci.

La gente a volte non è affidabile, a volte sì.

E la mia vacanza è appena iniziata.

(Continua)

Risultati immagini per robbery funny Come non poche di voi fanciulle in ascolto, non ho dovuto superare la boa dei 30 per essere attaccata in strada.

La prima mano sulla patana l’ho ricevuta verso i 10 anni. Era un altro bambino. A 14 invece ho avuto l’onore delle attenzioni di un signore già brizzolato, sul micidiale R2 di Napoli. A 27 è stato un fanciullo di Forcella a dare un manrovescio sul mento, a beneficio dei compagnelli divertiti, alla studentessa intrusa nel quartiere.

Ricordo anche il pargolo, nel Raval, che correndo mi sbatte una mano sul culo per poi scappare all’impazzata, conservandosi magari questo tenero ricordo della sua infanzia: ah, le delizie di certa educazione sentimentale maschile, e pazienza per le involontarie protagoniste.

Insomma, quando l’altra sera, scendendo verso il Paral·lel, mi sono vista scippare il cellulare di mano, con tanto di maldestro strattone che mi ha regalato le labbra di Eva Grimaldi, la mia prima reazione è stata: “Niente di nuovo”.

La seconda reazione è stata: “Non ci posso credere”. Per farvi capire, tre anni fa ho provato a rottamare quel cellulare e quasi mi ridevano in faccia. Ricordo l’importo che avrei dovuto aggiungerci per comprare il modello più fesso: 90 euro.

La terza reazione, in ogni caso, è stata la più ortodossa: “Al ladro!”. L’ho pure ribeccato, giuro, sulla strada per il negozio di telefonia, dopo aver perso la speranza di acciuffarlo per… Picchiarlo? Sgambettarlo? No. Per convincerlo a ragionare.

“Garzoncello”, gli ho detto a una distanza di sicurezza che non mi permetteva altre reazioni, lì al centro della pista di biciclette del Paral·lel, “ti rendi conto che ti vado a denunciare per una cosa che non ti frutterà una beneamata ceppa e che a me, invece, serve assai?”.

Lui per tutta risposta ha annuito e, appena ha potuto, ha ripreso a correre.

Ma davvero, ero troppo esilarata da quella situazione assurda per tentare di usargli violenza o fargliene usare da passanti e polizia.

Il mio primo scippo, avvenuto a Barcellona alla faccia delle malelingue sulla mia città natale, mi ha fatto osservare un po’ di cose interessanti di me e degli altri:

  1. Tendiamo a immaginarci che “capitano tutte a noi”. Perché siamo noi. Magari fosse così, ragazzi: mentre a me capitava questo furto surreale avvisavano dell’aumento di scippi nelle metro di Gràcia e Diagonal. Quindi di me a questo ragazzetto non gliene fregava niente, potevo essere una nana in mongolfiera e mi avrebbe scippato uguale, se avessi avuto il cellulare in vista.
  2. Una cosa è l’ottimismo a tutti i costi e un’altra il “non tutto il male viene per nuocere”: erano secoli che avevo difficoltà con WhatsApp, con la linea, con Facebook. Adesso sono stata “costretta” dal caso a procurarmi un cellulare migliore. E considerando che nell’arco di 16 ore, con la mia fidelizzazione a Orange, l’ho avuto in rate mensili di 9 euro, non mi è andata niente male.
  3. In situazioni come questa non hai paura. Non hai tempo. Non rifletti. L’ho sperimentato nei contesti più disparati, dall’attesa terrorizzata di un esame importante all’adrenalina senza pensieri mentre lo tenevo, passando per una rottura sentimentale, in confronto agli strascichi successivi. Infatti in questo caso devo confessare che mi colpiscono più gli strascichi: questo senso d’ingiustizia mitigato dalla sensazione di aver reagito bene. Con un’arma in vista sarebbe stato diverso, suppongo. Ma non lo voglio scoprire.
  4. Tra le varie manifestazioni di solidarietà, non è mancata la benintenzionata che mi ha invitata a non uscire mai da sola la sera e farmi sempre riaccompagnare. Eppure mi arrivavano resoconti di uomini derubati anche 8 volte, e con conseguenze più violente di uno scippo “banale” come il mio. Non so se le donne siano le vittime più ambite, ma i miei amici rimasti malconci da questi scontri sono quasi tutti uomini. Approfittiamo di queste opportunità per essere più prudenti, non meno libere. E liberi, ovviamente.

Inoltre ho avuto modo di accorgermi di una cosa: non so chiedere aiuto. Cioè, quando sono tornata a casa il mio ragazzo mi ha abbracciata, consolata, anche se dichiaravo di stare bene, ma di lì a poco mi chiedeva la cortesia di spegnergli il fuoco sotto la pentola, intanto che si docciasse per uscire con un amico. Ho dovuto fargli presente io che forse ero più affaticata e scossa di quanto dessi a vedere (rincorrere un adolescente comincia a diventare stancante), e allora ha deciso di restare con me. Mi sarebbe bastato il gesto di chiedermi se ne avessi bisogno, e infatti abbiamo trovato un compromesso uscendo noi due, che volevo prendere aria. Ma è emblematico che, a furia di dare un’immagine forte di noi, gli altri finiscano per crederci, e finiamo per farlo anche noi.

Insomma, come ipotizzavo altrove, anche le rotture più drammatiche della routine possono portare qualche insegnamento. O farci vedere lo stesso mondo che percorriamo ogni giorno, credendo di conoscerlo a menadito, sotto occhi diversi.

E non sacrificherò la libertà e la gioia di ammirare la mia città alla paura effimera che possa succedermi qualcosa.

Che vivere sia pericoloso lo sappiamo tutti. Eppure.