Archivio degli articoli con tag: gatta

Ecco qui (scorrendo dal basso) le puntate precedenti.

Alcuni nomi e fatti sono stati alterati per questioni di privacy, ma le cose sono andate più o meno così.

Requiem per una gatta

Mi avvertono solo al mattino.

Sto scendendo le scale in fretta perché ho rimediato una sostituzione: un amico che insegna italiano ha avuto un’emergenza in famiglia, e ha affidato a me l’ultima lezione del corso. Già pregusto il viaggio in treno come una pendolare qualsiasi, e la sala professori in cui mi saluteranno con cordialità: la nuova “collega”. Forse dovrei insegnare italiano a tempo pieno…

La mia allegria, però, si infrange due piani più sotto. Il piccolo tunisino non mi guarda più con la curiosità che riserva alla “donna sola” nell’attico. Si sente molto importante a darmi la notizia, e allo stesso tempo ha timore.

La gatta è precipitata dal terrazzo condominiale.

Il pensiero mi stordisce. La sera prima ho sentito dei rumori provenire proprio dal terrazzo: il mugolio di un cane, e una voce familiare che provava a rabbonirlo. Quella voce, una volta, era gentile anche con me. Il ragazzino non è soddisfatto dei dettagli che mi ha fornito, come se avesse fatto i compiti a metà: purtroppo, si giustifica, “il signore che comanda nel palazzo” ha cambiato ancora la serratura del terrazzo comune, il che impedisce a chiunque di accedere al “luogo del delitto”.

All’improvviso non voglio più prendere il treno. Inutile fingere che sia solo il dolore a paralizzarmi: comincio a temere sul serio per la mia incolumità.

I miei genitori mi telefonano al ritorno dalla lezione, che ho tenuto con finta allegria. Mamma simula la nonchalance di quando è preoccupata davvero: adesso che vengono a trovarmi, promette, cercheremo insieme una soluzione.

Quale? Le case a Barcellona vanno per “momenti storici”, e in questo qui è impossibile trovare un buco in affitto senza un contratto di lavoro, o senza una di quelle caparre impossibili che, con una scusa o l’altra, non vengono mai restituite per intero. Ho trentadue anni, cazzo. Possibile che per trovare casa abbia bisogno di mamma e papà?

Della coppia che teneva la gatta, trovo solo il ragazzo che lavora da casa: non ha dubbi su chi sia il responsabile. 

Quando gli hanno riportato la gatta in fin di vita, ha scavalcato in un istante il muricciolo che lo separava dal terrazzo condominiale. Sul parapetto, tra i cavi tagliati delle antenne, c’erano escrementi. Eppure la gatta aveva sempre usato la lettiera: perfino io le facevo trovare in terrazzo una scatola di scarpe con dentro dei sassolini. Se l’è fatta addosso mentre “qualcuno” la tratteneva per buttarla giù, afferma il ragazzo. È un tipo alto e robusto, e il suo fidanzato è molto simile a lui: possono permettersi di provare una rabbia perfetta. Io a quella devo aggiungere anche la paura.

Un giorno scoprirò che i gatti precipitano e basta, se non ci sono reti a proteggerli. In quel momento non ne so nulla, né saprò mai se la spedizione notturna dell’uomo col mastino fosse una coincidenza, proprio quella notte. Così decido di far installare un gancio alle ante del terrazzo: per un po’ ingannerà l’ansia. Avrò più tempo per correre fuori se sento un tremolio prolungato di vetri.

Invece non trovo niente per placare il rimorso.

L’ultima volta che la gatta era venuta da me, l’avevo cacciata via. Si era messa a miagolare sotto la mia finestra in una delle notti che passavo a piangere, da quando Bruno se n’era andato. “Lasciami in pace!” avevo urlato fin dai primi miagolii, ma lei non voleva saperne di star zitta, e neanche io. Avevamo ingaggiato una gara assurda a chi urlava di più, lei sotto la luna, io nel buio perfetto. Non avevo le forze di alzarmi e aprire la porta sul terrazzo: volevo solo cancellarmi dal mondo, quella maledetta gatta non aveva il diritto di rificcarmici dentro.

Adesso è lei che non c’è più.

A lunedì per il seguito!

Se vi piace ciò che scrivo, date un’occhiata al mio Sam: non glielo ricordate, ma ha vinto un premio proprio figo.

Pubblicità

Ecco qui (scorrendo dal basso) le puntate precedenti.

Alcuni nomi e fatti sono stati alterati per questioni di privacy, ma le cose sono andate più o meno così.

La gatta e la luna

Non ci riesce.

Per lasciarmi si ingarbuglia in un’ora inutile di discussioni, che ci vede finire sul letto solo per parlare.

Sono io a gettare la spugna.

“Vuoi chiuderla qui?”.

“Sì!” grida lui.

Lo grida come quella donnina in camicia da notte gridava di essere prigioniera, la sera che doveva sancire l’inizio del mio grande amore. Il mio soltanto, a quanto pare, perché per Bruno è durato una settimana scarsa: proprio non riusciva a sopportarmi un giorno di più.

Come una malata, mi sottraggo alla luce. All’inizio, a farmi uscire di casa ci sono gli impegni allo Spazio. Riesco perfino a collaborare con Bruno a una rassegna cinematografica, omaggio improvvisato a un regista italiano appena morto. La prospettiva di vederlo comunque riesce a calmarmi un po’ l’ansia, ma a rassegna finita mi sento riavvolgere dal buio. Fortuna che, con quello, torna la gatta.

Aveva iniziato a intrufolarsi in casa mia passando per il terrazzo condominiale, che ora l’uomo col mastino ha chiuso agli umani. Di solito lei si piazzava su un lettino che mantenevo nel ripostiglio, per poterci dormire se avevo ospiti. L’unica volta che si era acciambellata addosso a Bruno, lui l’aveva accarezzata con un certo imbarazzo, poi aveva dichiarato che puzzava. Mi aveva incuriosito la combinazione tra le sue carezze impacciate e gli improperi che le dirigeva.

Subito dopo la rottura, me la sono presa con la gatta e col suo sguardo curioso: come si permetteva di intrufolarsi nel mio dolore? Un giorno ho provato a farla scendere dal lettino, e le è bastato allungare un artiglio per regalarmi un fiorellino di sangue. Alla fine mi è sembrato che scappasse via per pietà, quasi intenerita dalla mia impotenza. Da allora, mentre affondavo la testa nel cuscino per smorzare le urla, sentivo le sue zampine pestare forte il terrazzo condominiale, riportandomi a un mondo di suoni. Quella presenza lì, potevo accettarla.

La gatta ritorna una notte che sto piangendo.

Sono distesa sull’amaca che mi sono fatta montare in terrazzo, e non so con chi parlo: ti manifesteresti un momento, chiedo al buio, o ti devi sempre far pregare per tutto?

È proprio a quel punto che sento un richiamo acuto: quasi un grido alla luna, che la gatta osserva dal davanzale di mattonelle. Poi c’è un tonfo di zampette, e uno strusciare ovattato che si interrompe solo quando sento un fagotto sotto la mia schiena, nel punto in cui la stoffa azzurra dell’amaca sfiora il suolo in pendenza. Da lì la mia ospite non può certo guardare la luna, ma la cosa non sembra importarle. È come se non avessimo mai litigato, come se in tutto questo tempo mi fosse rimasta accanto.

Decido che è un segno, perché mi serve crederlo. Ecco che mi sono ridotta ad aver bisogno di un segno. Ma ne ho abbastanza dei pasti che sto saltando, delle notti che passo sull’amaca a piangere e parlare in diretta con Dio.

La gatta sarà il mio nume tutelare, uno scudo felino contro il mio primo mito di fondazione: Partenope che non riesce a sedurre Ulisse, e per questo si lascia morire. Ho abbandonato quella storia sull’altra sponda del Mediterraneo, ma non è servito. Sei tua, mi dice il mito, finché non incroci il desiderio di un uomo. In quante ci abbiamo creduto, e per quanto tempo?

Eppure sulle spoglie di Partenope sorge una città.

A lunedì per il seguito!

Se vi piace ciò che scrivo, date un’occhiata al mio Sam: non glielo ricordate, ma ha vinto un premio proprio figo.

la-lloronaC’era una volta una donna che piangeva.

Viveva da sola in una casa ai confini del bosco, nessuno ricordava più da quanto né perché. Il suo volto era senza tempo, aveva tutte le età del mondo.

E piangeva.

I taglialegna che passavano fuori la sua capanna la sentivano fin dal mattino presto. Una volta una vecchia si avventurò per il bosco a prendere certe erbe che crescevano sotto gli alberi, per propiziare il matrimonio di sua nipote. Erano erbe che si coglievano con la luna piena, se no la pozione non funzionava e la sposa avrebbe partorito una nodosa radice. La vecchina conosceva la storia della donna nel bosco, non ricordava da quanto, ma quando se la trovò davanti, un’ombra lunga e sottile sotto i raggi argento che illuminavano la soglia della casupola, si spaventò di quanto fosse umana. Si aspettava una fata, una strega, un essere deforme. No. C’era solo una donna senza età né storia né perché che piangeva tutte le sue lacrime.

– Sono venuta a cogliere… – cominciò la vecchia.

Ma l’altra rispose con un urlo lacerante che la fece scappar via, così non fece più il decotto e la nipote fu contenta lo stesso.

Tutti quelli che passavano fuori la casa del bosco, in realtà, osservavano la donna e tiravano dritto senza capire.

Il villaggio vicino era un posto tranquillo, senza grandi avvenimenti, nel bene e nel male. Era come se la donna del bosco si fosse assunta l’incarico di piangere per tutti. Di gioia o di dolore, questo non si capiva, e forse non era importante. Nel villaggio avevano tutti il sorriso di plastica di chi niente spera perché non sa sperare. Si svegliavano presto per lavorare, mangiavano i prodotti che coltivavano e andavano a letto presto. E gli andava bene così.

La donna del bosco sentiva per tutti. Ma quando qualche forestiero si avvicinava per chiederle se avesse bisogno di aiuto, dopo un po’ se ne andavano tutti, scoraggiati: la donna non sapeva più parlare, conosceva solo il linguaggio delle lacrime.

Una notte, però, venne una gatta.

Era una gatta bella grassa, di quelle nutrite bene da qualche vecchietta senza figli. Solo che chi la nutriva non era vecchia, e la stava cercando dappertutto. Ma lei era una gatta, non capiva che se qualcuno ti dà da mangiare poi si aspetta che resti sempre lì. Lei le cose le faceva perché voleva farle, quando voleva farle. E stavolta voleva andare a curiosare nella capanna della donna nel bosco. Magari c’era qualche pezzo di lardo scordato in cucina apposta per lei. Le fu facile aprire la porta, sempre socchiusa, col bel musetto grigio, ma dentro ci trovò solo un alto tavolo (be’, per lei era altissimo), su cui erano disposte nodose radici di zenzero, un mucchietto di foglie con sopra un lenzuolo logoro, e la donna del bosco rincantucciata in un angolo, che tanto per cambiare piangeva.

Non aveva neanche sentito la gatta entrare, quando si videro alzarono la testa tutte e due. Coi suoi occhi che vedevano al buio, la gatta osservò attentamente la donna che piangeva, le vide i profondi occhi neri, il naso gonfio come le labbra, i solchi che scavavano le guance senza tempo né storia. Era una gatta paurosa e indolente, che preferiva scappare quando non le tornasse utile restare in un posto.

Ma stavolta rimase. Ascoltò a lungo quello squittio animale tanto simile a quello dei topi che cacciava, e rispose miagolando. Era l’eterna nenia delle gatte in calore.

La donna s’interruppe, il fiato corto. Non lo faceva mai, ma… A quel punto avrebbe dovuto cacciare l’urlo come con la vecchina della pozione, o i taglialegna, o chiunque venisse col sorriso di plastica a chiederle se le servisse qualcosa, ma non fece niente.
Anzi, no, una cosa la fece. Un’altra cosa che non faceva da secoli.

Aspettò.

E la gatta tornò a miagolare seria e attenta. Allora la donna si alzò di scatto e corse verso l’animale. La gatta non indietreggiò. Cominciò a grattarsi un po’ il dorso con una zampetta. La donna incespicò nel tavolo, rovesciò la sedia e si gettò a terra accanto alla gatta. Ora le vedeva bene gli occhi d’argento, che brillavano nella penombra. E vide che capivano.

Allora raccontò la sua storia alla gatta, quella storia che in paese nessuno ricordava e che la gatta ascoltò paziente, singhiozzo dopo singhiozzo, come faceva ogni giorno coi segreti del mondo, come il fruscio delle foglie, quando le rivelavano che avrebbe piovuto. Alla fine fece un leggero sbadiglio e si acciambellò nel grembo della donna, attenta a evitare le parti inzuppate dalle lacrime, che i gatti odiano l’acqua.

La donna saltò un po’ sorpresa, poi si mise ad accarezzarla lentamente, finché non si addormentò. Allora la depose sul mucchietto di foglie e uscì fuori.

Le restava un’ultima cosa da fare.

Andò alla fossa nel retro della capanna e riprese a piangere, in quel suo strano modo sospeso tra gioia e dolore.

Pianse come mai aveva fatto prima d’ora, perché era l’ultima volta.

Pianse finché il volto non si fece lacrime, così come il corpo, le vesti, i piedi, finché non diventò le sue lacrime, e quelle diventarono acqua sorgiva e lei sorgente, e la conca diventò un ruscello fresco che cominciò a scorrere via, fino al villaggio.

Fu allora che venne la bambina.

Quella che nutriva la gatta. Venne all’alba.

Aveva cercato la bestiola tutta la notte, e aveva perso le speranze. Ma vedendo quel fiume scendere fin sotto casa sua aveva capito che la gatta doveva aver combinato qualche guaio. Si spaventò un po’, a entrare nella capanna, come tutti aveva sentito parlare della donna del bosco.

Ma quando si affacciò nella stanzetta illuminata dal sole, vide la bestia dormire così placida e beata che si arrabbiò moltissimo. Si sfilò uno dei suoi stivali rossi e glielo tirò.

La gatta fece un balzo, come se fosse già stata sveglia tutto il tempo ad aspettare.

– E adesso torniamo a casa – brontolò la bambina. – Aspetta che beva un po’ dell’acqua qui fuori e ci mettiamo in cammino. E guai a te se scappi di nuovo.

Detto fatto, andò alla conca e bevve.

Era acqua fresca, leggermente amarognola ma dissetante. La bimba dispose le mani a formare una piccola conca e diede da bere anche alla gatta, che guardava il fiume con l’indifferenza sorniona con cui guardava ogni cosa. Ma stavolta bevve con tanta avidità che in breve cominciò a solleticare il palmo della mano della bimba con la sua lingua rasposa.

E la bimba iniziò a ridere. Prima piano, poi sempre più convulsamente, finché non le uscirono proprio le lacrime e si rotolò sul prato con la gatta che lasciava fare.

Scese a valle rotolando e ridendo, poi si mise in piedi, tutta sporca di fango e graffiata dai rovi, e corse e rise, con la povera gatta arrampicata sul suo collo che emetteva piccoli miagolii di protesta, più rassegnata che stizzita.

Così conciate arrivarono al villaggio, dove le cercavano ormai da tempo.

Immaginatevi lo stupore nel vedere la bimba sana e salva, e sgnignazzante come dopo il migliore scherzo del mondo. Le dissero di smettere, un po’ spaventati, ma lei niente.

Finché la gatta non le morsicò un po’ l’orecchio, delicatamente, e allora smise.

Ma il riso le rimase negli occhi. E chi la guardava in volto non poteva fare a meno di accorgersi di quella risata interna, incredibilmente contagiosa.

A poco a poco, tutto il villaggio ne fu contaminato.

Qualcuno si lamentò, qualcuno scosse la testa. Quella gioia portava con sé la sua sorella gemella, la tristezza, nessuna delle due andava in giro senza l’altra, e se lasciavi aperto loro l’uscio non sapevi mai quale sarebbe entrata per prima.

Ma il paesino senza emozioni imparò a piangere ridendo e ridere piangendo.

E la capanna vicino allo strano fiumiciattolo che scaturiva dalla terra diventò la meta preferita dei bambini che giocavano a nascondino, e il mormorio dell’acqua a volte veniva sommerso dall’eco delle loro risate.