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Ecco un uso più che dignitoso dell’ananas! Da: https://www.wilton.com/brush-stroke-pineapple-cake/WLPROJ-8969.html

Oh, alla fine l’ananas dell’altra volta, sparato a caso su abiti altrimenti carini, serviva a riassumere questo: spesso m’illudo che qualcosa mi stia andando bene, e alla fine non è così.

Una sensazione familiare, vero?

Adesso in Italia lo chiamano #mainagioia!

Allora vi faccio una domanda: cosa succede quando già vi preparate a una bella delusione… e vi accorgete che stavolta non vi tocca?

Perché non tutti la prendono bene, eh.

Nel giro di due settimane sono riuscita a farmi insultare sui social sia da un papà che ha figliato per maternità surrogata, che da un giovane vegano. Perché? Beh, perché ero dalla parte di entrambi! E loro proprio non riuscivano a crederci.

Nel primo caso, argomentavo che una cosa sia battersi contro le mafie che controllano la maternità surrogata, e un’altra “insegnare a campare”, per esempio, alla moglie di un marine, che decide di dedicarsi a quello con la stessa “libertà” con cui decidiamo di lavorare in un call center per otto ore, e pagarci l’affitto vendendo cose inutili. Che aveva capito, il papà, di tutto questo? Che io volevo “insegnare a campare” alle mogli dei marines! Ammetto che il mio spagnolo non sia perfetto, ma posso ipotizzare che il babbino caro non fosse proprio un fulmine di guerra? O magari era così abituato agli slogan categorici di altre commentatrici, che ha infilato anche me nel calderone!

Nel secondo caso, provavo a smontare il cliché sui vegani salutisti con l’argomento più potente che avessi: la mia dieta! Infatti odio frutta e insalata, e mangiavo un sacco di pasta fino a cinque minuti fa (e in questi cinque minuti ho perso quasi due taglie, insieme a qualsiasi traccia di tette ancora riscontrabile sul mio corpo!). Ma niente, quello se ne esce con: “Come si permette lei di giudicarci? È vegana, per caso?”. Sì, coglione, è questo il punto! E capisco che l’Italia se ne cade di filosofi che ti muovono critiche del calibro di “Slurp, bistecca!”, ma il fuoco amico anche no, eh.

Vabbe’.

Un esempio più ameno dell’ostinazione a non accettare “una gioia ogni tanto” è quello di un’amica che, a proposito della sua nuova fiamma, mi faceva un discorso che Antonio Albanese aveva già previsto dieci anni prima:

“Ho il terrore di essermi innamorata di lui. Quindi dobbiamo chiuderla qui prima che la nostra storia si trasformi in sofferenza… Lo so, sembro egoista, vero?”.

Per la verità, in quel caso appoggiavo il commento finale di Albanese/Epifanio: “Ma che sei scema, oh?”.

Alla fine eravamo solo gggiovani, tutte e due. Perché anche io, quanto a pippe mentali, non scherzavo mica. Che ne so, ero a un passo dal realizzare il sogno d’ammmore dei vent’anni? Meglio spararmi qualcosa come undici anni a Barcellona, e mi sa che ci rimango addirittura! Oppure, nella prima casa di cui fossi “titolare” e non coinquilina semplice (il che, nel regno del subaffitto, è un passo gigante per l’umanità…), osservavo un compagno d’università crollato sul divano dopo il pranzetto d’inaugurazione, e mi dicevo: “Tutto qui? Dovrei essere più contenta, per quanto mi sono sbattuta ad arrivarci…”.

E a questo punto, miei due lettori e mezzo, avrete indovinato anche dove voglio andare a parare: niente ci andrà veramente bene, se non gli diamo il permesso! Se non ci diamo il permesso.

Con questo non voglio mettere pressione sulle vittime di sfiga cronica. Il fatto è che, dopo anni passati con la sindrome del gabbiano Jonathan Livingstone, siamo proprio fissati con l’idea che non sia possibile trovare… una gioia, appunto, o almeno una connessione estemporanea con qualcun altro.

Eppure, vivere nello stesso pianeta a rischio, e con lo stesso tipo di pollice, ogni tanto unisce più del comune odio per la pizza all’ananas, che comunque mi sembra un’ottima base da cui ripartire! Molto più della rabbia che siamo costretti a nutrire per l’aspirante genocida di turno.

Visto? Da qualunque parte la si guardi, l’ananas c’entra sempre.

(Buoni primi quarant’anni a una tizia che una gioia non ce l’aveva manco per sbaglio! Tant’è vero che è morta a trentaquattro…)

 

 

 

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La mia ghigliottina per tette personale!

Avete presente la storia per cui ci accorgiamo dell’aria solo quando ci manca?

Ecco, ieri mi sono accorta di avere le tette – almeno quella sinistra – quando ci è piombata sopra una porticina di legno massello. Le stelle che ho visto sono state per me la prova più lampante di essere provvista sul serio di questa parte anatomica!

Quando già era o amato o detestato – come una certa adolescente svedese su cui ci stiamo scatenando anche in Italia – Roberto Saviano raccontò in TV la storia di un tizio in gulag, che si fece non so quanti giorni di reclusione ai limiti della sopravvivenza: non aveva acconsentito a “dare la sua anima” a un carceriere. L’aneddoto, che non riesco a ritrovare, si chiudeva col tipo che sospirava: “E io che neanche sapevo di avercela, un’anima”.

Che combinazione! Io non sapevo di avere una tetta sinistra. Finché non ci si è schiantata sopra una porticina di quelle che si schiudono tirando un piccolo manico in alto: come una cretina l’avevo aperta solo a metà.

E mentre mi massaggiavo, jastemmando in napoletano, mi sono resa conto una volta di più dell’ingratitudine che ho nutrito verso questa parte del mio corpo, che da adolescente accusavo di non rientrare negli standard del mio contesto d’origine (dove, più che la coppa di champagne, si predilige con convinzione il proverbiale secchiello), e che credevo ormai ridotta a leggenda metropolitana adesso che non sto mangiando più come un bufalo (e qual è la prima cosa a sparire, in questi casi?!).

A quanto pare, tuttavia, non è svanita abbastanza per non “stroppiarsi”, come avrebbe detto mia nonna, di fronte a questa mannaia inaspettata, che mi ha punita per l’errore in cui cado sempre: per accorgermi di quello che ho, mi serve sempre un promemoria, fosse anche doloroso.

Ditemi la verità: non starete facendo lo stesso errore?

Io sono un disastro soprattutto con le cose che riesco a ottenere, piuttosto che quelle che mi ritrovo (o meno) in dotazione per default.

Per esempio, non vi sto a dire quanto ho studiato negli ultimi anni della laurea in Lettere – anche perché ero un po’ in ritardo con gli esami; però a ventidue anni, quando i voti contavano molto per vincere la borsa Erasmus, ho guardato ipnotizzata l’impiegato di banca che mi faceva frusciare davanti tutti quei bigliettoni, e ho sussurrato all’amico che mi accompagnava:

“Questo che vedi è l’equivalente di un anno e mezzo sui libri”.

Mai convertire un pezzo dei tuoi vent’anni in carta stampata! Ma il mio amico aveva passato lo stesso periodo in modalità cicala (e se io ero la formica, stava proprio fresco!), così è rimasto impressionato dal fatto che la mia scarsa vita sociale avesse avuto quegli esiti pecuniari.

Di recente, al compleanno della libreria italiana, ho discusso con una mia coetanea di progetti accantonati, o in forse. “E hai già pubblicato qualcosa?” mi ha chiesto lei, quando le ho spiegato che scrivessi. Allora, con mia somma sorpresa, ho sbirciato sugli scaffali alla mia destra e scovato subito il libro col mio nome in copertina, che ho mostrato con la noncuranza un po’ eccessiva di chi suggerisce: “Tranquilla, adesso non devi anche comprarlo. L’importante è averlo qui”.

Sì, perché quel mucchietto di carta col mio nome sopra mi dimostrava che questi anni passati a fare scelte strane, e tanti sbagli, hanno prodotto un risultato. Di “carta stampata”, come per l’Erasmus, anche se ahimè i due tipi di stampa non sempre vanno insieme…

E voi cosa state sottovalutando, di quello che avete ottenuto? O, semplicemente, di quello che avete.

Sospetto che il motivo per cui dobbiamo sempre criticare le conquiste altrui è in realtà duplice:

  • non crediamo in quello che abbiamo fatto;
  • non crediamo in quello che possiamo fare.

Mi sa che è arrivato il momento di rimediare.

Image result for spaghetti face Adesso pare che Barcellona se ne cade di ladri.

I giornali locali non sembrano in grado di parlare d’altro, a parte i soliti fatti indepe sì, indepe no: sta’ a vedere che i vostri aneddoti del furto sventato (perché avete urlato in tempo nella metro), o di quello andato in porto (perché vi hanno tagliato la cinghia della videocamera), si sono verificati tutti negli ultimi mesi, e non nel corso di anni.

Boh, in effetti il fenomeno è stato gonfiato, esiste da tempo, e va a braccetto con l’aumento degli affitti e dei lavori precari. Però tutto questo “al lupo, al lupo”, mi ricorda due cose.

Una è la battuta, in famiglia, che la mia città di residenza “sta diventando peggio di Napoli“, e per quello che mi riguarda in prima persona lo è da tempo.

L’altra è la prima volta che mi hanno rubato il cellulare: oltre alla beffa di aver perso un rottame che neanche volevano… rottamarmi, per l’appunto, c’era la sensazione che non mi sarei trovata a mio agio con gli altri modelli. Il mio rapporto con la tecnologia è leggendario: risolvo i problemi insultando lo schermo. Poi mi chiedo perché quello non fa come dico io. Allora, sebbene ormai quel cellulare non mi permettesse di visualizzare bene Facebook (con la sezione commenti era un casino), non mi andava di prendermene un altro. Però quello che ho acquistato nella concitazione, sebbene fosse un’altra offerta a buon mercato di Orange, si è rivelato molto migliore, e la maggiore efficienza mi risparmiava anche tempo (poi mi hanno rubato anche quello, ma vabbe’). Ecco, senza il furto starei ancora a lottare con le app. È stato un bene che mi derubassero? Manco per il ca’, anzi. Sarei rimasta con quel cellulare sgangherato per sempre. Però ho fatto buon viso a cattivo gioco, e un evento spiacevole ha finito per risolvermi un problema.

Il che mi fa pensare a quando sono stata licenziata, con tutto il dipartimento dell’azienda. Avevo abbandonato il mondo accademico per descrivere appartamenti turistici. Mi piaceva perché era facile, era divertente e mi pagavano. Il venerdì, coi colleghi, ci fermavamo a bere una birra nella cucina aziendale. Era una vita solitaria e poco avventurosa, ma facile, così facile… Dopo il licenziamento, però, ho preso il diploma per insegnare italiano, attività che mi è piaciuta così tanto da dire no ad aziende più “generose”. Poi mi sono ricordata che la vita è breve, che in realtà voglio scrivere, e buonanotte al secchio. È stato un bene che mi licenziassero? Macché, avrei descritto appartamenti tutti uguali per il resto della mia vita. Già che è successo, però, ne ho approfittato per raccattare quel che restava del coraggio di fare ciò che volevo.

Il che mi fa pensare alla mia svolta recente, e i suoi esiti alterni. Il piano, come saprete, era diabolico: togliermi l’affitto dalle gonadi, dedicarmi a scrivere a tempo pieno, risparmiare qualcosa per figliare. Non so più dirvi quante cose siano andate storte, a cominciare dalla più scema, ma non irrilevante, della scoperta che il terzo bagno della casa era chimico! Va da sé che, quando esco la mattina e mi ritrovo quasi in Plaça Catalunya, vorrei portarmi un machete per farmi strada tra i monopattini elettrici, gli zaini Eastpak, e le coppie attempate di autoctoni a spasso (che, forse per un articolo dell’Estatut che ignoro, devono camminare per forza mano nella mano, alla velocità di un bradipo influenzato). Ah, beh, poi c’è quel dettaglio che i bambini ciao, anche perché ho ancora qualche problema pecuniario a seguire il metodo Madonna. Però, già che ci sono, sto sistemando cosine della mia vita che in coppia, e con un affitto sulle spalle, non tanto potevo: tipo svegliarmi e mangiare ai miei orari, e non pensarci due volte ad assumere un’editor professionista, per i miei improbabili scritti in spagnolo. Per caso avrei voluto che metà del mio piano andasse a gambe all’aria? Macché, a ben vedere sarei rimasta addirittura nella mia casa in affitto, a dividermi la spesa per tutta la vita. Già che è successo, però, faccio del mio meglio per andare incontro a questi “anta” che si prevedono un po’… culumbrini, come li avrebbe definiti la mia prozia: cioè, più scanzonati di quanto avrei voluto.

Che devo fare? Lo stesso che provate a fare voi.

Cucinare con quello che abbiamo, e augurarci buon appetito.