Visto? Ho voglia a dire che bisogna potare i rami secchi: intanto, la settimana scorsa ho lasciato entrare troppa Italia nella mia vita, e ne ho pagato le conseguenze.
Non che l’Italia sia l’ottava piaga, eh: è solo che, come spiegavo qui, mi toglie più tempo ed energie dei vantaggi che mi dà. C’è qualche altra espatriata, ex Erasmus, che si sente più europea che italiana? Parliamone. (Vale anche per gli uomini, ma intuisco che le donne emigrano meno e in modo più complesso).
Così, dopo una prima serata sanremese passata liscia grazie allo humour del compagno di quarantena (non a caso, un britannico), un comico che a suo tempo mi piaceva mi ha ricordato perché abbiamo avuto bisogno di introdurre nel vocabolario la parola cringe. E pure WTF. Per riprendermi ho aperto Facebook e citato la Regina di Cuori, nel suo ordine più famoso. A quel punto, il solerte esercito di Zuckerberg ha creduto che volessi rischiare davvero l’ergastolo per accoppare quello lì. Risultato: per tre giorni ho avuto il profilo silenziato, e mi sono dovuta sorbire le imperdibili lezioni sulla comicità di uomini cis, che salterebbero in piedi se gli tocchi la loro regione o la squadra del cuore.
Insomma, tra ciclo, manoscritti da terminare e impotenza mediatica, si è creata una reazione a catena che mi ha fatto riflettere: se ho imparato ormai a rifuggire una persona problematica, o un lavoro che promette più grattacapi che soddisfazioni, perché impegolarmi con altre cose che mi interessano poco?
Inutile fingere di riconoscermi ancora in qualcosa che non mi appartiene come prima. Così ho comprato il De Mauro europeo, che ancora dovevo leggere, e mi sono lanciata in paragoni improbabili tra l’autrice irlandese Sally Rooney, e i due giovani interpreti che hanno appena vinto Sanremo: la tematica dell’incomunicabilità regna sovrana a livello internazionale!
Ebbene sì, alla fine l’ho trovata, l’Europa a Sanremo. Ho trovato Eurovision, ovvio, ma soprattutto, l’ultimo giorno di festival, ho letto il commento Facebook di uno che sosteneva: Sanremo si guarda con un orecchio alle canzoni e un occhio a Twitter.
È stata la svolta! Sono morta dalle risate, per messaggi provenienti da tutto il continente. Ovvio che i tweet italiani erano i più simpatici, ma c’era qualche danese serissimo che commentava in inglese, mentre uno spagnolo burlone si chiedeva: se state guardando Sanremo senza mangiare una pizza, state comunque guardando Sanremo? Gli ho risposto: Manolito, io sarei italiana e sto mangiando un’insalata a Barcellona! Confesso invece che, dei tweet in russo, ancora non ci capisco una mazza.
Insomma, la mia settimana horribilis è diventata simpatica solo quando mi sono scrollata un po’ il tricolore di dosso e… sono entrata in Europa! Che è sempre un’Europa privilegiatissima, che chissà quando diventerà quella che volevamo. Ma oh, visto che sono anche italiana, alle cause perse ci sono abituata.
Anzi, vi dirò: ascoltando i gruppi sanremesi più simpatici, e leggendo i tweet più gggiovani, mi è venuta l’idea balzana che qualche causa, prima o poi, si potrebbe anche vincere.
Quando ancora mi ostinavo a bazzicare nel mondo accademico, il tizio che capitava alla mia destra alla cena di Natale del gruppo di ricerca era quello che, poi, mi invitava a uscire.
Era sempre quello alla mia destra: quello a sinistra non mi cacava proprio. Misteri del magico mondo della ricerca.
Scherzi a parte, una volta il tizio alla mia destra garbava un pochetto anche a me: mi contattò la notte stessa, dopo la cena, per parlarmi di un suo progetto letterario che aveva un nome particolare. Era il nome di un luogo impossibile: lo chiameremo Smeraldina, come la città acquatica di Calvino, dai percorsi cangianti. Fu piuttosto cangiante anche l’autore di Smeraldina, perché dopo avermi tirato un bidone all’appuntamento fu vago su un possibile nuovo incontro. Poi sparì del tutto, e alla cena di Natale successiva ci fu da fargli gli auguri via mail, perché gli era appena nata una bambina! Non dovrei dilungarmi su questo aneddoto scemo, ma la fine mi fa ancora ridere: il neopapà si presentò tempo dopo a una noiosissima conferenza del gruppo, accompagnato da una dottoranda che era di una bellezza incredibile. Allora mi arrivò il bigliettino di un collega del gruppo (che pure avevo avuto alla mia destra a una cena): “È arrivato il tuo fidanzato!”. Al che risposi: “Con una nuova fidanzata!”. Nel passamano di pezzetti di carta, poco mancò che il messaggio atterrasse in grembo al mio “fidanzato”: così iniziarono dei comici tafferugli che furono evidenti anche al conferenziere.
Di questi ingenui tentativi di sbarcare il lunario nel mondo universitario, mi resta Smeraldina, o meglio, me ne resta l’idea: un posto che non esiste, ma che l’autore crea e coccola come se fosse qualcosa di più reale delle dottoresse italiane di ricerca che lo aspettano nel bar più scalcinato del Raval. Un posto che, peraltro, il suo creatore abita più volentieri di una città reale come Barcellona: così prosaica, così poco francese e poco catalana (il “poco spagnola”, per il tipo, doveva essere un bonus)… Smeraldina, invece, se ne sta sospesa su uno sperone di roccia, suppongo dalle parti del Canigó, e il suo esserci e non esserci è una consolazione per il suo autore.
E io ce l’ho, una Smeraldina? Mi è venuto da pensarci adesso, tanti anni dopo, in piena pandemia.
Sì, che ce l’ho. Solo che come sempre devo essere un po’ megalomane: la mia Smeraldina è un continente intero. Forse l’avete anche sentito nominare: si chiama Europa. Non cominciate, sono consapevole che non esiste. Che è stata sostituita da una congerie di regole per agevolare la circolazione di merci, ma non quella di persone. Per essere una che non esiste è pure sprucida, la signora Europa, perché si è barricata in casa e s’illude di non far entrare più nessuno.
Però, che volete, l’Europa me l’hanno fatta odorare (e so che è un’espressione usata dai frustrati quando una non è interessata) e da allora non me la dimentico più: anche se questa storia dell’Erasmus è piena di bucature, è una sorta di Paese dei Balocchi da cui ti risvegli troppo tardi. Basta un’esperienza prolungata nella stessa meta dell’Erasmus a rivelare l’esperienza per quello che è: una bolla asettica e lontana dal “mondo reale”, qualsiasi cosa sia.
Però è comunque un inizio, e poi io, con l’Europa, vado per esclusione: quando proprio sono a rota di appartenenze, mi dico che mi può restare solo quella.
Per esempio, in Italia si strappano i capelli perché l’Accademia della Crusca segnala (non “accetta”) l’uso di cringe? Mado’, che cringe! Io a volte, in strada, mi scopro a chiedermi ad alta voce: “Ma qué calle és això?”, che non ha senso in nessuna lingua esistente. Allora, con buona pace del ritorno delle autarchie linguistiche, mi convinco che è una cosa europea.
Oppure, in Italia continuano a sfottere la gente che, come me da vent’anni, pensa che i film doppiati siano una roba fastidiosa? In Europa no. In Europa, per parlare di Trono di Spade (!) con qualche connazionale non devo cercarmi su Google il nome di Littlefinger, e scoprire per giunta che è Ditocorto.
Inoltre, in Europa ci sarà pure qualche troglodita che posta le bistecche nelle pagine vegane, ma non se ne stanno a seguire affollate pagine Facebook che mi dicono (al maschile, perché il maschile fuori dall’Europa è neutro): “Vegano, stammi lontano”. Volentieri! Ma poi mi giuri con la mano sul cuore che non ti avvicini tu?
In Italia, poi, è quasi impossibile trovare candidati per la revisione di pari (in europeo: peer review) per un mio articolo sul poliamore, e l’unica revisione che arriva a me e al co-autore è di una persona che sembra più incazzata con l’argomento dell’articolo (monogamia e capitalismo sono correlati? ma neanche per sogno, Silvia Federici puzza!) che disposta a dare consigli per migliorarlo. In Europa, questo pezzo d’Europa, posso lanciare l’articolo con la fionda a tre o quattro ricercatrici: l’unico problema è che non parlano l’italiano.
Sono europea ogni volta che leggo che i tacchi “sono necessari” ai matrimoni e agli eventi eleganti, oppure sgamo video su come occultare il reggiseno sotto i vestiti scollati: mi metto pure a seguire un po’, poi mi ricordo che il reggiseno non lo porto. Non vi dico, poi, quando mi leggo tutte le pippe mentali sul costume giusto da mettere. Poi mi viene in mente che, ammesso che mi ricordi di fare qualche bagno a mare (quest’estate mi è letteralmente passato di mente, quando ho realizzato era quasi ottobre), vado alla Mar Bella che ha l’opzione nudista, e mi piazzo sulla collinetta preferita dai gay: al massimo mi troverò a dispensare olio solare a bellissimi ragazzi che se lo spalmeranno da soli, e tempo cinque minuti baceranno il tizio con cui hanno appena attaccato bottone (ma come fate? scrivete un manuale, che so…).
Potrei continuare all’infinito, e con tematiche molto più importanti, prima che mi tiriate fuori il benaltrismo: d’altronde, l’Europa che conosco somiglia un po’ all’Italia che capisce che le invasioni sono miti smentiti dalle statistiche.
L’Europa è un’utopia che definire imperfetta è dire poco, ma allo stesso tempo, per chi come me si identifica sempre meno nella sua cultura d’origine, è un bel posto in cui stare. Un posto che, ahimè, odora di privilegio: quello di viaggiare, conoscere lingue, avere il passaporto giusto. Credete, però, che è un privilegio che si va facendo accessibile anche a gente che parte con meno soldi di me, e senza l’approvazione della famiglia, e mette su una pizzeria a Berlino che, non ci crederete, non sempre è gestita “con i soldi della camorra”.
Un giorno incontrerò di nuovo il creatore di Smeraldina, magari mentre porta i figli a spasso per questa Barcellona più a misura di catalano, anche se per colpa del coviddi. A questo punto, come in uno scambio di figurine Panini (un ricordo italiano, questo, che voglio conservare), ci daremo notizie dei rispettivi non-luoghi.
Spero lui sia felice nel suo, in questo momento. In fondo dovrebbe essere un diritto di chiunque, scegliere a quale posto non appartenere.
Il sito originale è indicato nella foto (oggi WordPress non mi lascia inserire il link della pagina!).
Il Gattopardo. S’è comprato Il Gattopardo.
Il libro, dico. Gli è bastato che gli traducessi in inglese la mitologica frase di Tancredi, “Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi”, che è esattamente ciò che il mio compagno di quarantena non vuole succeda al mondo, dopo tutto questo. Per lui non c’è pericolo, per me sì.
Quello che per me non cambia, al momento, è il mio dubbio sulla scrittura. Sdraiata tra due cuscini sul mio balcone lillipuziano, mentre scopro che nel patio di sotto c’è addirittuta un baldacchino – artigianale, ma baldacchino – sto alternando la lettura di due autrici bravissime, e diverse tra loro: Elizabeth Strout e Maria Attanasio.
La prima mi parla direttamente ai nervi scoperti, agli ormoni premestruali che danzano al posto delle gambe confinate nelle pantofole rosa, sempre troppo pelose (le pantofole, dico).
La seconda l’ammiro come un gioiello prezioso, uno che, a interrogarlo, mi accorgo stupita che parla la mia lingua: vale a dire, la prima che ho imparato.
Cosa succede, infatti, quando diventi una che in italiano ci scrive per caso? Una che corteggia la Francia come il Principe Salina “corteggia la morte”, ma che da quasi vent’anni è all’Inghilterra che guarda, e ancor di più agli Stati Uniti. A quei libri che negli ambienti in cui sono cresciuta sono considerati l’unica cosa che si salva di quel paese (sempre che siano scritti da uomini, e di sinistra, o almeno ubriaconi).
Cos’è che cerco di comunicare, in quello che scrivo? Se lo chiedeva, dicevamo, questa editor, che alla lunga si è rivelata più utile di quanto credessi. Nelle mie parole inseguo un ritmo, un movimento: un’azione che definisca il personaggio più dell’inflazionata credenza, a cui non so abituarmi, che la vera parte di noi stessi si manifesta quando siamo sotto pressione. Ne siamo proprio sicuri?
E poi il linguaggio, si diceva: il mio “italiano per caso” potrebbe sapere di quella minestra sciapa che da vent’anni a questa parte abbiamo imparato a chiamare globalizzazione, e che si alimenta di merci e non di persone: delle stesse canzoni sentite dappertutto, degli stessi cibi venduti a prezzi sempre più convenienti, in riproduzioni più scialbe, o più facili da imporre dell’originale.
È questo l’italiano che uso? Quello sporcato da altre lingue e pieno di dubbi, che più di un editor si sente in dovere di addomesticare? Su WhatsApp ho scritto “massa di farina”, invece di “impasto”, perché pensavo a masa e amasar, o perché m’era venuto in mente il significato originale del termine? Finisce che la mia diventa una lingua scarna, che va per sottrazione: descrizioni rese in due frasi, intere saghe familiari accennate in un gesto.
Le autrici italiane cresciute amando le francofone (Yourcenar, Duras,Ernaux) le assaggio come facevo con certi biscotti arabi con tanto miele, nati secoli prima degli additivi, che parlano di storia, di periodi in cui un po’ di zucchero sul pane era una festa. Sono deliziose, ma il loro sapore mi è estraneo.
Preferisco gli additivi globalizzati, allora? Giammai.
Al momento, insieme a tanti e tante che hanno lasciato l’Italia per altri lidi, faccio come la protagonista del manoscritto che mi assilla da un po’: strapazzata da domande spietate, a volte inopportune, spesso doverose, m’improvviso cuoca in tempi di crisi, e cerco d’impastare in una sola ricetta tutte le parti di me.
Ieri sera tornavo in auto coi miei da Napoli, dove avevo ritirato questo premio, e volevo chiudere col botto: visitare l’allummata di San Sossio! O Sosio, per i puristi: ma, nella terra in cui “babà” si pronuncia con quattro o cinque “b”, una sola “s”, e per giunta sonora, mi sembra un po’ sadica.
Il patrono della mia ridente cittadina mi aveva già omaggiato – lui a me – con due giorni di festa della pizza, grande scusa per passeggiare tra effluvi di olio e basilico, e contemplare le luminarie, insieme ai tacchi argentati delle preadolescenti di una scuola di ballo.
Ieri sera non mi restava che chiedere ai miei, carichi di pergamene e souvenir del concorso, di lasciarmi all’incrocio con il Corso, perché proseguissi a piedi nell’abito tutto volant in cui mi ero insalsicciata per l’occasione (fortuna che non metto tacchi!).
Che bello, comincia il concerto, ho pensato una volta in piazza, mentre mi facevo strada tra bambini che correvano, e qualche papà che mi guardava allibito.
Mentre la bellissima cantante l’intonava, con una pronuncia che mi ha fatto dubitare delle sue origini siciliane, ho scoperto una cosa strana. Della piccola folla che si era assiepata davanti al palco, ero l’unica a cantarla insieme a lei.
Eppure ricordo bene i miei anziani, ormai tutti scomparsi, che alle feste di famiglia imploravano noi nipoti di togliere i Queen e mettere “le canzoni napoletane”, cioè Murolo e Aurelio Fierro. Loro sì che le intonavano, Era de maggio e Reginella (di solito preferivano il repertorio malinconico), e Mimmo Modugno, rispetto a quelle canzoni lì, era roba recente. Ma i presenti di ieri sera, compaesani di ogni età, si limitavano ad ascoltare.
Magari sono io a fare sempre la spettatrice gasata: anche nel buffet seguito alla premiazione, avevo accompagnato con entusiasmo il duetto che intonava La garota de Ipanema, e una versione molto “Elvis” di ‘O sole mio.
Però una folla intera cantava con me, tre mesi fa, in una Piazza Dante intasata dai fan del noto Alessio, chiamato a cantare all’inaugurazione di un negozio. Ero pure l’unica a non conoscere i testi!
E allora Alessio sì, e la canzone classica no?
Generazioni che cambiano, dinamiche che cambiano: cantiamo quello che ascoltiamo più spesso. O così mi sono detta.
E in fondo ci sta. Io, dopo un’infanzia passata a parlare italiano, mangiare hamburger e ascoltare musica in inglese, ho deciso a sedici anni suonati di approfondire quella parte d’identità che per certa classe media, dalle mie parti, “fa brutto” riconoscere come propria.
Da allora, come “napoletana di ritorno”, ho scoperto una piccola grande verità: se non puoi essere una cosa, la studi. E diventi più realista del re, come me che insegno regole del catalano agli autoctoni che le ignorano (e che ricambiano col catalano che si parla sul serio). O come gli europei “folgorati dall’India” che, il Giorno della Terra, suonano il sitar in tuniche bianche, mentre gli indiani passano con buste di plastica tra il pubblico per recitare un unico mantra: “cervezabeer, cervezabeer…”.
Invece, magari, i ragazzi col turbante che ieri sera si perdevano tra le bancarelle erano più napoletani di me.
È difficile da spiegare, io napoletana mi ci sono sentita tardi. A Napoli ci sono arrivata dopo, anche se ci sono sempre stata.
Però ho cantato con fiducia quel brano scritto da un pugliese, ed eseguito in quel momento da una siciliana.
Perché Napoli è generosa, mi sono detta, accoglie tutti.