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Room 2806: The Accusation review – another intriguing Netflix docuseries

Ho visto la serie di Netflix dedicata alle accuse mosse da diverse donne a Dominique Strauss-Kahn.

A prescindere da tutto, mi colpiscono alcune delle motivazioni per cui il procuratore di Manhattan non ha ritenuto credibili le dichiarazioni di Nafisatou Diallo: la donna guineana, all’epoca trentatreenne, che ha accusato Strauss-Khan di averla stuprata quando è entrata nella sua suite d’hotel per fare le pulizie.

La donna non è stata considerata “capace di convincere una giuria” della sua credibilità: gli investigatori (quelli interpellati o filmati nella serie erano americani bianchi di mezza età) avrebbero trovato molti soldi sul suo conto, un fidanzato in carcere, e una storia inventata (stupro di gruppo in Guinea) per entrare negli USA. Non entro nel merito delle contraddizioni che ci sarebbero state nel racconto di Diallo sullo stupro, né capisco bene perché la serie si soffermi tanto anche sui rapporti consenzienti che intratteneva Strauss-Khan. Però, mentre ascoltavo questi americani bianchi di mezza età, che probabilmente non hanno mai avuto problemi a risiedere nel loro paese d’origine, mi chiedevo: e cosa c’entra, quello che ha fatto la accusatrice per arrivare negli USA? Ma cosa ne sanno, loro? Hanno mai avuto l’esigenza di doversi far rilasciare dei documenti fondamentali per la loro carriera lavorativa, la loro vita e, magari, anche la loro sopravvivenza?

Quando una persona straniera sale alla ribalta per ragioni tutt’altro che ideali, possono affiorare un sacco di questioni se si indaga su perché e come sia finita lì.

Ho pensato a me, europea bianchiccia di classe media, e a come ne uscirei anche sul piano dei media se mi succedesse qualcosa del genere: quante irregolarità si troverebbero nella mia permanenza a Barcellona? Penso agli anni che ho aspettato, come dottoranda italiana, prima di prendermi il numeretto di cui parlo più sotto, o prima di dichiarare finalmente il mio indirizzo barcellonese, che per il comune è rimasto lo stesso mentre cambiavo casa quelle due, tre, quattro volte. Oppure scoprirebbero il tempo che ci ho messo a iscrivermi all’AIRE, questo cosiddetto diritto-dovere che a volte, mi rincresce dirlo, crea solo problemi (mi hanno raccontato qualche storiella sull’interferenza tra l’iscrizione all’AIRE e l’accesso alla sanità pubblica tedesca).

Per non parlare delle volte che mi hanno beccata a evadere tasse a mia insaputa (e dico io: almeno ne fossi stata al corrente, me li sarei mangiati quei soldi!). Una volta erano stati i soldi che dovevo per un mini-sussidio di disoccupazione (la cosiddetta ayuda), dopo che ero stata licenziata con tutto il mio reparto aziendale e non avevo capito che quella cifra irrisoria andasse dichiarata. Sì, sono scema.

La seconda volta era stato per la tassa sulla prima casa che ho acquistato nei pressi della Rambla, prima di scappare a gambe levate per i vicini che mi ritrovavo (quasi tutti del posto, malpensanti). Non ero riuscita ad automatizzare il pagamento. Mea culpa, certo, ma diciamo che la burocrazia non aiuta, specie se consideriamo che in epoca più recente il comune, a due anni dall’acquisto della casa in cui risiedo adesso, ha continuato per un po’ ad addebitarmi le tasse di casa vecchia, e dopo varie rettifiche, spedizioni di atti notarili, telefonate, mi considerava ancora un’inquilina il 5 dicembre. Adesso la dichiarazione dei redditi me la fa un amico avvocato e anéu amb Déu. (Va detto che da più parti mi assicurano che esiste un servizio pubblico e gratuito di consulenza, solo che, posso dirlo? Ho paura!)

Pensate che sia la sola ad aver accumulato irregolarità assortite?

Soltanto nella comunità italiana di Barcellona, dunque tra persone perlopiù bianche (almeno in Europa) e con il passaporto “giusto”, potete trovare:

– gente che per otenere il Nie si è comprata un precontratto di lavoro da una persona con partita IVA (ho visto prezzi che vanno da i 90 ai 300);

– gente che si è fatta prestare i circa 5200 euro da accreditare sul conto, ha ottenuto con quelli il Nie e li ha restituiti;

– gente che è stata “aiutata” a ottenere il Nie dai suoi stessi datori di lavoro: non tutti lo fanno gratis per agevolare un/a dipendente, e alcuni addirittura fingono l’assunzione, poi se ti va ti prendono sul serio;

– gente che ha fornito un indirizzo a caso al commissariato di una cittadina sperduta, che ancora rilasciava il documento a chiunque avesse la cittadinanza europea: bastava che risiedesse lì;

– gente che ha fornito l’indirizzo di parenti che risiedono in città, per avere agevolazioni di vario tipo;

– gente che ha trovato un impiego “da quello della Barceloneta che dà lavoro agli italiani, ma speraci poco perché preferisce le ragazze” (ancora devo capire chi sia ‘sto tipo);

– gente che lavora in nero nei locali italiani, che la sfruttano con la scusa che non ha i documenti;

– gente che subaffitta a prezzi tali che si lascia pagare l’affitto dai propri coinquilini, e se glielo fai notare dice che “se davvero vuoi aiutare il prossimo, ti prendi questi soldi e li dai in beneficenza”. Non capisce che è proprio questa pratica a mandare la gente in strada;

– gente che rileva attività in vendita, le avvia per qualche tempo e poi le cede a prezzi stellari;

– gente che si vanta di aver sposato donne extraeuropee (che avevano bisogno dei documenti), in cambio di soldi e di prestazioni sessuali periodiche.

E non fatemi cominciare con la comunità pakistana.

La domanda è: cosa potreste trovare nella vita di una ragazza madre africana che non parla bene l’inglese e pulisce camere a Manhattan?

Soprattutto: soluzioni ne abbiamo?

In catalano si dice: cap persona és il·legal. Cap significa “nessuno/a”. Fate voi.

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Da tvynovelas.com

Oggi farnetico più del solito, perché mi manca il mare.

Dico il mare che da ragazzina significava solo vacanze, e al massimo era pieno di alghe e odorava strano – ma a quello, sul litorale domizio, eravamo abituati.

È vero, allora sui giornali c’erano barconi straripanti di ragazzi dalla pelle bianca, che attraversavano l’Adriatico anche perché guardavano la Rai, secondo i giornalisti Rai. Ma a dodici anni non leggevo i giornali. Al massimo sbirciavo in TV l’altra immagine del mare che avevo quando le vacanze erano finite, e cenavo prima di preparare lo zaino per la scuola: quella di Juan del Diablo a torso nudo sulla prua del Satán.

Che mi è sempre sembrata un po’ comica, ma allora la telenovela Cuore selvaggio era una follia! Le telespettatrici di mezza Italia erano innamorate del compianto attore Eduardo Palomo (“Che omo!” recitava una gag). A doppiare in prima serata lui e i suoi compari c’era il fior fiore: Luca Ward, Giuppy Izzo… In realtà io, quando eludevo il bando familiare su “queste sciocchezze”, preferivo il fratello señorito di Juan, perché almeno sullo schermo, da Anthony di Candy Candy a Brandon di Beverly Hills, m’innamoravo sempre del buono e noiosetto a cui le altre preferivano il bello e dannato. E Andrea Aleardi della Valle non faceva eccezione.

Lo ritrovo ventisei anni dopo come Andrés Alcázar y Valle, nella serie caricata tutta in lingua originale da qualche fan storico. Lottando un po’ con l’accento messicano, ho scoperto pure che:

  • l’angelica Beatrice (come altro si poteva battezzare, in Italia?) in realtà si chiamava Mónica, così il diabolico Juan poteva sfotterla “Santa Mónica”, invece che “Suor Beatrice”: lo siento, señor Puccini;
  • la perfida Anna (interessante da un punto di vista GENDER!1!1) si chiamava Aimée, pronunciato malissimo, ma più coerente con la tendenza a riferirsi a lei col solo nome, senza il rischio di equivoci;
  • la storia è un classico, e ha più di mezzo secolo!

Infatti è l’ennesimo rifacimento (quello entrato nel mito) di un romanzo del 1957, della prolifica scrittrice Caridad Bravo Adams, ambientato però nella Martinica francese: l’ultima versione, dieci anni fa, era più fedele all’originale ma è stata un insuccesso clamoroso, con tanto di sfottò per l’età e il peso dell’attore che interpreta il nuovo Juan del Diablo… E sia dai critici (che lo chiamano direttamente “feo”, brutto) che dalle fans! Il mondo delle telenovelas non finisce mai di sorprendere.

Il mondo reale nemmeno: mi sarebbe piaciuto chiudere in caciara questo post su vecchi ricordi e pirati con l’orecchino, e invece devo tradurre questo appello della ProActiva Open Arms, che da due mesi è attraccata nel porto di Barcellona per ordine delle autorità spagnole. E se il Mare Nostrum diventasse Mare Omnium?

Siamo ancora bloccati in porto.

Più di due mesi e centinaia di morti nel Mediterraneo.

Impediscono che salpiamo a proteggere vite, a denunciare le violazioni dei diritti umani. Se i paesi europei bloccano le navi umanitarie, che portano sempre con sé luce e tachigrafi, sarà che preferiscono dei morti invisibili piuttosto che affrontare e rispettare le leggi che difendono il diritto più elementare: la vita.

 

 

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Per chi si chiedeva come fosse andata ieri: sono stata l’unica a ordinare un tè.

Per chi non sa neanche di cosa stia parlando: ieri ci siamo incontrati in un bar, tra italiani a Barcellona, invitati da un connazionale che voleva farci un po’ di domande.

Eravamo una dozzina, tra i 25 e i 45 a occhio e croce, e non odiavamo tutti l’Italia, anzi. Qualcuno voleva pure tornarci.

Per me, dopo un po’ che giri, è Francia o Spagna purché se sta bene. E allora perfino l’Italia.

Eravamo d’accordo sul fatto che la deriva razzista e la chiusura non fossero solo un fenomeno nostro, ma una tendenza europea. E l’Europa, così com’è, non ha fatto granché per impedirlo.

Eravamo d’accordo sul fatto che l’Italia avesse paura, più della miseria che del cambiamento, e sul fatto che la sinistra italiana (scusate l’ossimoro) ci metterà tempo a risorgere.

La domanda è stata: “Come?”.

Un po’ di noi avevano fatto studi umanistici, o si occupavano di comunicazione. Insistevamo sulla narrazione, sul dare un obiettivo positivo e possibile a cui aggrapparsi, che accompagnasse il lavoro più serio e approfondito.

Io continuavo a pensare ai ‘mericani, che questo lo fanno bene: al “Vote Kennedy” che oggi sarebbe un hashtag, in risposta a un Nixon che parlava di tasse, e al #lovewins, quello sì un hashtag, di Obama.

E allora ho detto che se c’è una cosa che dovremmo esportare dalla Catalogna indipendentista, come immagine, è quella di un paese migliore, più equo, inclusivo, che si contrappone al conservatorismo di un re e della Chiesa che lo sostiene.

Insistevo sul fatto che, per portare avanti quest’idea, non ci fosse bisogno di battere sull’identità nazionale. Mi dispiace che sfugga sempre questo, delle cose di qua. Ci fermiamo all’idea indigesta di un nazionalismo a sinistra (che per i suoi perpetratori ovviamente non sussiste), senza vederne le complessità, che non condivido, ma che ammiro in molti sensi.

Perché questi che “lottano per una terra migliore” sono incredibilmente concreti: partecipano anche alle azioni antisgombero, si incontrano millemila volte a settimana, si chiamano per nome. Possiamo farlo anche noi senza essere un marchio registrato. Un ragazzo emiliano condivideva l’esperienza dei centri civici, e a me non era neppure chiaro che i centres cívics esistessero anche in Italia.

E se siamo la nazione del “tengo famiglia”, qualcuno al tavolo aveva partecipato a un congresso in India sulle nuove tecnologie, e si era reso conto che, a pensarci cinque anni fa e investirci il giusto, quella roba si sarebbe potuta fare anche in Italia. E allora… “Per i nostri figli!”, slogan perfetto per la nazione delle campagne sballate di fertilità.

A me è rimasto un dubbio: in questo mondo interconnesso, dalla crisi non ne usciamo soli. L’unico rimedio che mi è stato indicato è stato la decrescita, e, come si dice dalle mie parti, ce vo’ tiempo. Dunque, non c’è soluzione immediata e indolore. Questo come glielo spieghi, a milioni di persone? Specie a quelli che, più che votare “di pancia”, hanno detto “proviamo questi altri qua e vediamo che succede”.

Questi altri qua hanno detto che la panacea è una: cacciare gli immigrati. E che risolve quasi tutto.

Come riesci a fare che la gente ti segua, senza sparare anche tu una palla?

La domanda è rimasta lì sul tavolo, anzi, sul tavolino, insieme a uno scontrino che riportava non so quante birre, e una tazza di tè.

Passate voi a rispondere. Noi abbiamo già pagato.

L'immagine può contenere: 8 persone, tra cui Marcello Belotti, persone che sorridono, folla e spazio all'aperto

Foto di Stefano Buonamici @stefanobuonamiciphotographie

Stamattina, Gad Lerner ha postato questo brano di Francesco Matteo Cataluccio. Mi ha colpito l’alzata di scudi, anzi di… offendicula, contro una famiglia di senegalesi subentrata nel condominio d’infanzia dell’autore. A Barcellona lo fanno a volte contro noi stranieri europei, mischiando un po’ le carte della filosofia locale Refugees welcome, tourist go home

Mercoledì, i miei amici a Barcellona manifestavano con la comunitat gitana in solidarietà con i rom italiani. Io, invece, ero in giro per Napoli a fare cose.

Tipo la dichiarazione dei redditi, seduta su una panchina in Via Luca Giordano.

Oppure il Lascia o raddoppia a distanza per vendere casa.

Oppure leggevo un brano del mio racconto contenuto in questa raccolta: il piglio allegro della presentazione mi aveva fatto escludere il passaggio, un po’ didascalico, che voleva provare al pubblico che noi vegani non siamo il diavolo. Ma sembra che oggi, ancor più del seitan preconfezionato a peso d’oro, vanno di moda i pregiudizi.

Soprattutto, giravo per Piazza Garibaldi, tra i baretti che una volta vendevano marenne unte, e che ora sono pizzerie fresche di restyling, in cui qualche cameriere nero “come il carbon” s’industria a parlare l’inglese che i colleghi autoctoni non tanto masticano.

In una traversina del Corso Umberto, tra icone sacre del XIX secolo, i negozianti pakistani chiudevano le saracinesche tra i pochi turisti e gli autoctoni che rincasavano: avevo trovato il posto in cui avrei potuto essere di qualsiasi posto, l’unico che ormai senta davvero mio.

Resta l’impressione che il problema non sia solo di etnia, ma di classe: in Italia non vogliono i poveri. Forse si sarebbero levati meno offendicula se l’autore del brano di cui sopra avesse dichiarato che ad abitare in quel palazzo ci sarebbe venuto “l’ambasciatore del Senegal“. Stessa cosa del mio antico proprietario, a Forcella (…), che aveva schifato un vietnamita perché “non voleva cinesi”, per poi andarci d’amore e d’accordo quando aveva visto che era uno studente fuorisede come tanti. Il pregiudizio è che tutti gli stranieri non nordici siano migranti, e che tutti i migranti siano poveri. E i poveri, si sa, sono anche brutti, sporchi e cattivi. Metti che sputano a terra e fermano le ragazze più di tanti miei compaesani. Metti che l’odore dei loro cibi invade le scale più del ragù, e, se non ti piace respirare quello un’intera domenica, si vede che era carne c’ ‘a pummarola.

W i poveri, dunque, e se stranieri meglio ancora: ci permettono di passare sottogamba le evasioni fiscali, la caccia alle raccomandazioni, e la paura che nostro figlio non trovi mai lavoro. E non perché c’è uno straniero a rubarglielo, che nostro figlio “non ha studiato per tanti anni per andare a raccogliere pomodori”; ma perché chi concentra tutta l’attenzione su quanto siano brutti, sporchi e pericolosi gli stranieri non è in grado di dargliene uno.

Alla luce di tutte queste osservazioni, è la prima volta che mi sento davvero straniera anch’io.

Un po’ di gente in Plaça Catalunya, per i migranti

Ero indecisa tra questo titolo e “La nit degli imbrogli”, pensando alla giornata di ieri.

Lo so, vi starete chiedendo perché non sto già a Repubblica a scegliere i titoli in prima pagina. Ma vedete, la giornata di ieri si era aperta con il tecnico che, in chat, ci chiedeva 60 euro per riparare una serratura “con maniglia nuova”, e 100 per la stessa serratura, senza cambiare la maniglia. Tra il primo e il secondo preventivo era passata una notte di mezzo, e il tipo non aveva neanche avuto l’intelligenza di andarsi a rivedere i WhatsApp iniziali, prima di spararci un’altra enormità.

Era con umore tetro, quindi, che mi apprestavo ad andare alla grande manifestazione contro la Ley de Extranjería, che non permette agli extracomunitari neanche di risiedere ufficialmente nella casa in cui vivono. Queste manifestazioni sono belle partecipate, a Barcellona: infatti eravamo più di mille, e secondo la Guardia Urbana, eh. Solo che, cvd, gli amici che cercavo non erano tra gli energici ragazzi africani (e non) in testa al corteo, ma in coda. Tra autoctoni che, come aveva osservato uno dei compagni, “Sono come noi: contenti di essere qui, ma anche stanchi della settimana di lavoro”. Passo strascicato verso la Rambla, pochi slogan improbabili…

Io mi sono allontanata all’altezza di carrer del Carme, alla vana ricerca di un fabbro nel mio Raval. Tutti chiusi anche lì. Sapete dove l’ho trovato, alla fine? Su Facebook: italiano con buone referenze e tariffe FISSE. Accordo raggiunto su WhatsApp in un breve scambio di battute e fotografie “artistiche”, tra maniglie e lucchetti. Cari luddisti antisocial, sinceramente nun ve capisco.

Il momento di scollamento è venuto la sera, quando il mio telefonino mi ha annunciato in spagnolo che “El primer ministro italiano renuncia a su cargo”. Da Nassirya in poi, quando leggo notizie sull’Italia in un’altra lingua, mi viene questo momento di alienazione in cui non so dove mi trovo.

Poi mi sono ricordata: mi trovo un posto che ci ha messo mesi, a sua volta, a scegliersi un president, con tutti quei candidati in galera o giù di lì. Ok, lo confesso: mi sono chiesta anche se fossi io a portare sfiga.

Tutta la storia della rinuncia di Conte l’ho appresa a casa, più dai drammi su Facebook che dalle notizie: “Il governo lo decidono i mercati!” tuonava anche chi schifa la Lega. “Adesso che si torna a elezioni, vedrai quanto prende Salvini!” si lamentava un altro.

“Meno male, ‘sti fasci non sono saliti al potere” esultavano invece quelli della manifestazione, reduci da un cineforum col film sul giovane Karl Marx. Infatti, la dichiarazione che mi è piaciuta di più è stata: “Riassunto della giornata: The young Karl Marx is for dummies, the old Mattarella is for communists”.

Il riassunto della mia, di giornata, è stato: l’impotenza a volte è un sollievo. Se la porta è bloccata e ho fatto di tutto per aprirla, mi siedo e aspetto il tecnico. Se nei miei due paesi non riescono a formare un governo, oh, mi è bastata la lezione dello scorso ottobre: penso al mio lavoro, ai miei maldestri tentativi di svoltare e faccio il poco che posso.

Per esempio, racconto a chi è rimasto in Italia che qui scendono in piazza 1200 persone (soprattutto autoctone) contro le nuove leggi razziali.

Hai visto mai che, prima o poi, succede anche da noi.

 

 

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Castelleres femministe, foto di Alberto Ruggiero

Vabbe’, almeno questo si sapeva in anticipo, no? Si è passati dal cercare la scheda elettorale a cercare il passaporto, come scriveva qualcuno.

Ma la mia frase preferita è stata quella di Lorenzo, su Facebook:

Quindi il prossimo parlamento sarà diviso tra chi sparerebbe agli immigrati in Italia, chi gli sparerebbe mentre sono in mare, e chi invece li vuole rinchiudere nei lager fuori dall’Italia. Apposto così.

Ho spento la Maratona Mentana in streaming su un fascista che si lamentava perché non aveva avuto risonanza mediatica, intanto che gli Hipster Democratici sfottevano Viola Carofalo perché non reggeva il vino quanto loro l’ape (la cosa inquietante era che, da presunta ubriaca, era molto più sensata dei commenti “sobri”).

Qualche ora prima, una “talpa” mi informava che uno dei miei colloqui di lavoro per tornare un po’ in Italia era destinato a priori al fallimento, perché già avevano una nomination vincente (per riagganciarmi alla notte degli Oscar: a proposito, figo, il #nomakeupmovement!).

Che vi devo dire: io a votare ci ho provato, è stato un pastrocchio da esportazione degno dell’epilogo toccato alle schede una volta in Italia.

Non mi resta che tornare all’8 marzo a Barcellona: grande! Come vedete dalla foto, qua in Catalogna ci si è anticipati già da domenica, con castells femministi come questo alla Festa di Sant Medir. Si prevede anche un discreto successo dello sciopero generale, quelle che non aderiscono non sempre sentono il bisogno di manifestare un’excusatio non petita rompendo le ovaie a quelle che lo fanno (a parte le solite note).

Tra l’altro, qui, le feste si celebrano come piace a noi, con virgole e distinguo che pure io fatico a seguire: quest’anno accusano di transfobia il classico triangolo fatto con le dita (che l’anno scorso mi aveva divertito, al massimo lo avevo visto in gloriosi documentari in bianco e nero), e la stessa festa di Sant Medir è stata criticata per il maltrattamento dei cavalli, per cui mi associo: più castelleres e meno cavalls!

Insomma vi prego, per l’ennesima volta: facciamo ponti. Anche perché noi che viviamo all’estero abbiamo due o tre cose da dire sulla tiritera “Manchi da troppo in Italia, non capisci che problema sono diventati gli immigrati”.

Innanzitutto, noi in Italia ci torniamo, mentre interlocutori di questo tipo non vengono da noi, non più di un fine settimana. Poi viviamo proprio in posti in cui l’immigrazione è più alta che in Italia, e noi ne siamo parte (basta con immigrati vs expat!): sappiamo quindi che ce la si può fare, nei quartieri multietnici in cui viviamo, dove capisci che è una questione di povertà e non di origine geografica.

Anche Super Mentana chiedeva alle comunità musulmane di “schierarsi contro il terrorismo“: prossimamente su questi schermi, anche le comunità italiane chiederanno scusa per la mafia (no, era uno scherzo: non vedo perché dovremmo se non siamo affiliati, discorso diverso per colpe storiche che il nostro paese non riconosce).

Quindi smettiamola di partire da un problema concreto (i nuovi flussi migratori) per arrivare a conclusioni assurde (ci vogliono massacrare tutti) con epiloghi tragici (massacriamoli prima noi).

E buon 8 marzo, che ne abbiamo bisogno.

 

 

portone Domenica

Poi mi è venuto in mente chi mi ricordasse, a bussare dall’interno di un palazzo.

Il signore educato di Rodari che chiedeva “Permesso, si può uscire?”. Era tanto ben educato / che bussava con i guanti. / Morì dentro il portone / perché nessuno gli disse: avanti!

Invece lei non chiedeva permesso, voleva uscire e basta, e la gente non si fermava.

Si è fermata una a caso (sì, avete indovinato, io), senza leggere l’insegna sul portone.

– Voglio uscire, sono rimasta chiusa dentro, non sono neanche di questo quartiere!

Ho provato a bussare. Un solo citofono. Niente.

– Chiama la polizia! Mi ha portato qui una signora, credevo fosse per restare un paio di giorni, non credevo fosse tanto cattiva.

Finalmente ho letto l’insegna.

Casa di riposo per anziani.

È scesa un’altra anziana in camicia da notte.

– È pazza, non ci faccia caso.
– Lei torni in camera sua. E tu, chiama la polizia.

Quasi si picchiavano.

Sono arrivati due infermieri.

– È pazza, non ci faccia caso.

– Non è vero!

– Non mi sembra il caso di dirlo così – io all’infermiere. Sempre dall’altra parte del portone.

Le ho promesso che sarei andata a farle visita. Un’altra promessa che non so se potrò mantenere.

Lunedì

Mi becca davanti al portone di casa mia. Mi sbarra la strada, ma non mi fa paura.

Anche perché sorride e le si fanno gli occhi piccoli, come quelli della mamma. Ci manca solo il bindi al centro della fronte, che a volte si fa anche lei per imitarla, e sembrano due gocce d’acqua nello stagno del tempo.

– Dov’è casa tua? – mi chiede.

E sale sulla moto.

– Qui. È la tua moto, questa?

– No. Tu hai due case?

– Be’, sì. Una al mio paese, che è dei miei genitori, e questa qui.

– E qual è il tuo paese?

– Si chiama Italia.

Ripete il nome, incerta.

– Mio padre al suo paese ha [mi descrive una serie di cose che avrebbe suo padre nella casa in India]. E poi una moto come questa, ma verde, blu e rossa.

Dice verde e roja in spagnolo, poi blau in catalano.

– E casa tua, invece, dov’è? – le chiedo.

Mi disegna la strada con le mani.

– Ah, allora siamo quasi vicine.

– Cos’è “vicine”?

– Casa mia sta vicino casa tua. A presto, vicina.

Di questo portone almeno ho le chiavi.

pioggiaE adesso, bambini di ogni età, comincia la storia della pioggia.

Ieri la vostra narratrice è stata in un bel posto che si chiama La Nave Espacial a vedere Alice nel Paese delle Meraviglie, storia di una regina cattiva che voleva sgomberare il Paese delle Meraviglie perché era autogestito (parola poco fiabesca, ma a volte magica). Per fortuna vinceva la regina bianca, una sovrana buona molto speciale, infatti è repubblicana.

Non come certe repubbliche in cui la gente fa una cosa che si chiama elezioni che poi non serve a niente, perché poi quelli che comandano fanno quello che gli pare e poi un signore molto molto arrabbiato e triste un brutto giorno se la prende con chi non c’entra proprio niente.

Questa regina è repubblicana davvero.

E sapete perché vinceva lei?

Perché c’era la pioggia.

Dovete sapere, cari bambini, che quando c’è la pioggia a Barcellona, tutto è possibile. A Napoli è ancora più magico, infatti tutta la città si trasforma in un fiume: chiedete a papà che significa testacoda su asfalto bagnato. Ma questa è un’altra storia.

La magia della pioggia a Barcellona è che, solo quando piove, si avverano tutti i vostri sogni. Però, quando torna il sole, tutto diventa come prima, e nessuno si ricorda niente. E a Barcellona, in realtà, piove poco.

Dev’essere stato un incantesimo difettoso, che le fatine cercano ancora di risolvere. Per sapere a che punto stanno potete rivolgervi a dei maghetti che girano per il centro con parole magiche come cervezabeer, hashish, coca. Ma io, personalmente, non indagherei.

Mi godrei il buio di una giornata di pioggia.

Sì, perché le tenebre sono importanti, bambini. A parte che senza di loro non ci sarebbe la luce, le tenebre insegnano tante cose. Alice sprofonda nelle tenebre per capire chi è veramente. E tanta gente, tanta, nei racconti, scende giù giù nel buio più profondo, chiedete alla maestra cos’è la catabasi.

E allora, solo con la pioggia, quel posto un po’ magico che è la Nave Espacial, non si preoccupa più della regina cattiva che viene a cacciare via tutti, e continua a offrire cabaret e circo gratis a grandi e piccini.

E mentre i rivoli d’acqua puliscono un po’ il balcone della narratrice, che era ora, ma distruggono pure la lettiera della gatta, lo gnomo cattivo del terzo piano diventa buono buono, chiede scusa a tutti per aver tagliato i fili delle antenne e cambiato la serratura del terrazzo, e nessuno pensa più a cacciare lui, anzi, lo nominano vicino dell’anno.

Se piove proprio forte forte, le signore della porta accanto la smettono perfino di sentire la bachata, una musica inventata direttamente dalla strega cattiva del Mago di Oz, e cominciano a metter su delle canzoni che pure se piove ti viene voglia di far festa sul loro balcone, e prima che esca il sole scoprono che nel loro paese possono sposarsi pure se sono due signorine, e partono per la gioia dei timpani di tutti.

Invece il ragazzo del palazzo accanto, che ha la pelle e il passaporto di un colore diverso dalla narratrice (e col sole questo è un problema), trova un lavoro vero, non uno che paghi tanti soldi per fingere che stai lavorando, e intanto ti danno un pezzo di carta che dice che puoi restare. E la sua casa per magia diventa così grande, ma così grande, che i suoi dieci coinquilini non devono più dormire 3 o 4 per stanza, bambini compresi, ma vanno qua e là felici e fanno una bella cena a base di curry e invitano pure la narratrice. Va bene, pure voi, ma a voi poco piccante che se no fate come Biancaneve e la mela, senza il principe che viene a baciarvi.

E a proposito di principi, quando piove la narratrice dell’ultimo piano non deve più chiedersi, guardando i viandanti che bussano alla sua porta, quali siano i principi e quali i draghi, e se i primi siano più buoni dei secondi o siano i draghi, in realtà, quelli più buoni e utili in cucina. Quando uno dei viandanti che numerosi, ultimamente, bussano alla sua porta (si fa quel che si può) chiede se può restare, lei con la sua supervista capisce subito se è principe o drago, pellegrino o cataplasemo ‘e semmente ‘e lino (è una parola magica di una terra lontana). E lo lascia entrare contenta e si addormentano sorridendo.

Prima che il sole riporti tutti i pasticci.

Ma finché c’è la pioggia, cari bambini, che l’aria cambi.

da alqamah.it

da alqamah.it

Lo sapevo solo io. Non avevo capito che Massimo Carlotto proprio non ci veniva più, alla Libreria Le Nuvole. Avevo pure letto il messaggio della disdetta per motivi familiari, ma per un diabolico intreccio d’informazioni avevo capito che magari non oggi che è Sant Jordi (e non era proprio previsto), ma almeno ieri sera avrebbe presentato il nuovo libro.

Ovviamente, che mi sbagliassi l’ho scoperto in metro, a biglietto già vidimato. La T10. La prima volta che la comprai credo non arrivasse a 7 euro. L’ho ripresa l’autunno scorso, dopo una lunga pausa, e poco ci mancava che la macchina m’ingoiasse la 10 euro intera, senza ruttarmi manco un nichelino di resto.

Che fare? Ormai mi ero truccata e imparruccata, un’altra linea del romanzo da recensire (una storia di lupi mannari) mi avrebbe fatta ululare che manco in Frankenstein Junior… Sono scesa a Gràcia, almeno 10 minuti a piedi risparmiati. Ho pensato di allungarmi verso Plaça Catalunya e cercare di capire come vorrei vestire la nuova me.

Infatti, come da tre anni a questa parte, cambio di nuovo. Dentro e fuori. Mi attivo tanto, ho deciso di provarci davvero, a fare solo quello che mi piace. In politica, nel lavoro. La carne mi fa quasi schifo, ormai, anche se ancora non sputo la fetta di prosciutto se me la trovo per sbaglio nel tramezzino. E mentre la nuova parrucchiera mi toglieva per sempre la tintura platino che mi faceva chiamare Shakira dagli ubriachi, la radio dava Common People, e a me veniva da ridere.

E poi ho scoperto che rispondo. A cosa? Ieri, alla visione dell’anziano vicino che mi ha adottata e mi ha fatto perfino il letto in cui dormo, e in quel momento camminava bassino e magro, col barbone, circondato da due ragazzoni della Guardia urbana. Ma a passi lenti, come se stesse passeggiando con loro tra i turisti di Portal de l’Àngel, in direzione opposta al negozio di scarpe che puntavo io. Nella busta a tracolla, di quelle di stoffa per la spesa ecosostenibile, le lattine di coca trasformate in ceneriera che vende seduto a terra, su Portaferrissa.

E allora mi sono girata. Non era scontato che lo facessi. Da tempo mi ero un po’ stancata, di queste adozioni tra vicini, del paternalismo che accompagna l’affetto per una straniera biondiccia che vive sola nel Raval. E qualche volta mi sono data per occupata quando non lo ero poi così tanto.

Ma sono tornata indietro. Il ragazzo è stato gentile, è un affare del signore, non posso dirglielo per la sua privacy. Me l’ha detto il diretto interessato, nel suo inglese, e non ci ho capito molto, sorrideva il suo sorriso amaro e sdentato. Ha parlato di affitto, di soldi che non aveva per pagarlo, non ho capito se si riferisse a casa sua o all’autorizzazione per la bancarella. Possiamo proseguire tutti insieme, ha chiesto il ragazzo in spagnolo. Il collega dava informazioni a una turista. Posso aiutarti, ho ripetuto in inglese. No, grazie, Mariya, come mi chiama. Era una multa, l’avrebbe pagata.

Ah, già, i documenti sono a posto. Ha trovato una bella ragazza che se lo sposava gratis perché tra i loro passaporti non ci fosse più differenza.

È allontanandomi che ho capito che la matita per gli occhi non sarebbe arrivata intera, a casa. Non so manco perché. Forse per la visione del vecchietto circondato da ragazzi alti che non parlavano la sua lingua, ma era lui a stare nel loro paese. Che per vendere le sue lattine non ha l’autorizzazione, e la legge è quella. Ma… Ma.

Vediamo ste scarpe.

Niente, le più belle erano fatte di finto sughero. Rovistando tra sciarpe e borse ho ripensato a Piero che al Parc de la Ciutadella, domenica, alla Fiera della Terra, mi ha messo in mano la prima tammorra in 32 anni.

– Non la so suonare – ho confessato.

– Impugnala così, e non pensare alla tecnica, comincia a prenderci confidenza.

Così ho fatto, e così facevo, ieri, con me. Prendevo confidenza, cercandomi tra gonne di finto chiffon e maglie al 30% al Corte Inglès. Non mi sono trovata, perché ovviamente non ero lì.

E neanche sull’altalena della foto che ho messo su facebook, un’altalena di 30 anni fa che sarà finita arrugginita in soffitta. La stessa faccia e lo stesso sorriso, ha detto uno. Cos’è che ho in comune con quella, cos’è che non cambia mai. Cosa…

Cosa ci trovate, in lei?, chiese una volta una tizia a un ragazzino che mi veniva a prendere. E lui disse qualcosa che ora ricordo come “Energia”,o giù di lì, e che visualizzo come un fuoco. O meglio, come una luce di quelle scoccianti d’estate, non so se di un lampione o un falò, che se ti ci avvicini troppo ti scotti, ma alla giusta distanza non sono male.

Ecco. Spero di trovarmi lì.