Ecco a voi un panorama che ho ammirato fin da quando non ero più alta di quella ringhiera rossa. Solo che, ai tempi, l’eterna casa in costruzione era molto più in malarnese: nella sua campagna selvaggia cacciavano alcuni gatti che amavo, e una volta, in mezzo agli sterpi, si depositò un pallone gonfiato a elio, di quelli a forma di verme che si vendevano alle sagre paesane. Mi fece una pena infinita, col suo tentativo di staccarsi da lì e volare: sapevo che era destinato a ondeggiare nella brezza estiva, fino a sgonfiarsi tra l’erba. Osservandolo, ci scrissi su un racconto in una sera sola, dove lo facevo innamorare della prima stella. Poi, da grande, mi staccai io da lì, ma la casa rimaneva incompiuta.
Me l’ha ricordato in tempi recenti Massimo, dieci anni, chiamato Maxim dalla madre ucraina: nell’accento paesano con cui parla anche il russo, il bambino mi ha spiegato sbuffando che quella casa “insopportabile” è in costruzione da quando lui andava in terza elementare. Non ho osato dirgli la verità.
E poi, ci ho sempre scherzato su: crescere di fronte a una casa incompiuta è un terribile auspicio, specie perché… sapete qual è il peggio? Ogni tanto venivano dei muratori, e allora una nuova fila di mattoni si univa alle due o tre che c’erano già. Ma poi tornava tutto come prima. Una volta che i muratori stazionavano più del previsto, dalle viscere del terreno spuntò perfino un garage. Rimase poi lì, inutile, a sporcarsi. I miei mi parlavano di un problema di licenze (alle spalle del terreno sorge la mia antica scuola elementare), e di passaggi di proprietà, che però sfociavano sempre nello stesso risultato: il frastuono di un tosaerba, poi un andirivieni di operai, poi più nulla. Madonna, l’ansia.
Adesso, si diceva, pare sia la volta buona. Il che è un grande cambiamento, come lo è d’altronde avere un vicino che ti insegni il russo con accento paesano: anche ciò che crediamo immobile va avanti, il che è allo stesso tempo una banalità, un rammarico e un sollievo.
Quando sono volata via al posto del palloncino, ho scoperto terreni in cui crescere non è invecchiare, fermarsi non è ristagnare, e una fila di mattoni può trasformarsi in due file, tre, una parete.
La casa non ha avuto bisogno di spostarsi, per scoprire le stesse cose.
Sarà che siamo invecchiate tutte e due, eppure cominciamo adesso.
Prima notte passata con la finestra aperta per il caldo.
Ne ho trascorso la metà a determinare per prove ed errori quanto dovesse restare alzata la persiana. Di conseguenza ho dormito una schifezza, e al risveglio ho avuto le seguenti visioni:
me a 10 anni, che nella stessa situazione mi alzo fresca come una rosa, col pensiero del Giornale di Barbie, che sto centellinando, e il progetto di farmi dieci giri di bicicletta in cortile. Unica preoccupazione: l’agguato che potrebbe tendermi il nonno con le lezioni di latino;
me a 40, che stamane mi tolgo la mascherina (non quella per la bocca, l’altra) e mi scopro cieca. Ah, no, sono gli occhi cisposi: ho preso sonno alle quattro. Mi alzo col pensiero dei piatti che non lavo da due giorni (ieri c’era la fiera vegana!) e il progetto di cambiare una volta per tutte il finale del romanzo a cui lavoro da due anni, anche se chiunque lo legga si chiede perché mi ci accanisca tanto. Unica preoccupazione: sto buttando la mia vitaaa! Sapevo che sarebbe andata così!
Insomma, la finestra di camera mia ormai affaccia sulla mia vita, coi suoi sbalzi di tempo, più che di temperatura! Poi mi sono lavata la faccia e mi sono arripigliata, eh. Mi si dice che anche voi, al mattino, avete pensieri catastrofici mica male, specie dopo una notte quasi insonne. Però vorrei spezzare una lancia alla me quarantenne che ha la sensazione molto, ehm, cisposa di aver tradito la bimbetta di dieci anni, che era più o meno convinta che la vita fosse facile. Ua’, quella bambina ignorava un sacco di cose! Alcune le ho già scritte qui.
Una che non ho scritto è che quella bambina, un giorno, avrebbe incontrato per caso da adulta un parroco che era stato il suo influencer(e che lei aveva pure difeso da certe compagnelle che lo accusavano di “stringere un po’ troppo”), e si sarebbe sentita accarezzare con insistenza la schiena proprio all’altezza del reggiseno. A quel punto si sarebbe congedata in fretta, e in preda a più di un dubbio su chi pretendesse di insegnarle a campare quando era bambina!
Un’altra cosa è che, per come sarebbero state composte poi le coppie etero in paese (ma quelle gay non erano contemplate), la desiderata carriera di insegnante, con l’aggiunta di almeno due pargoli, avrebbe creato il rischio di dipendenza economica dal marito ingegnere, avvocato, medico. Specie dopo due crisi economiche a distanza ravvicinata. Nessuno dei compagnelli maschi di quella bambina (tutti di ceto medio, e finiti tutti insieme, chissà come, nelle stesse sezioni), avrebbe fatto l’insegnante.
Un’altra cosa è che di avere figli ci si può anche pentire, e allora ti stigmatizzeranno. Non perché tu abbia smesso di amare i figli (il che non succede), né perché tu abbia smesso di prenderti cura di loro. No, sei una caina per il solo fatto di ammettere che avresti evitato, se avessi avuto certe informazioni sulla questione (ci torneremo tra poco).
Un’ultima cosa che la bambina ignorava è che un giorno avrebbe letto come buona notizia il titolo:
Quindi, se in questo giugno vi svegliate come me, insonni e non vedenti per cinque secondi, ricordate che certi obiettivi della nostra vita sono stati stabiliti da altri, o da una versione di noi che era ancora in una fase di transizione, e che non disponeva di un fattore importantissimo nel prendere decisioni: tante, tante, tante informazioni..
Adesso, però, abbiamo quelle, compresa la teoria, fin troppo ottimistica, che possiamo controllare almeno il 40% della nostra felicità.
Vabbè, oggi diamola per buona, che ancora sto sbadigliando per la nottata: vorrà dire che, almeno quel 40%, ce lo godremo come si deve.
I bambini, chi pensa ai bambini. Adesso c’è questo dibattito sui rientri a scuola, con i genitori che premono perché avvengano e il corpo docenti che fa notare che le scuole italiane – e quelle iberiche, se è per questo – non sempre sono attrezzate per una ripresa sicura delle lezioni.
Com’è giusto che sia, si è tornato a parlare del lavoro di cura, e del perché ricada soprattutto sulle donne: non solo una questione di mentalità (o “d’istinto”, come vuole la mentalità di qualcuno), ma anche di risorse economiche, tra soffitti di cristallo e pavimenti appiccicosi.
Per fortuna, l’argomento si concentra molto sull’infanzia, su come tutelarla sul serio – la mia impressione, confesso, è che di solito l’argomento si strumentalizzi per sfruttare con salari inferiori la metà della forza lavoro: una metà a caso. Stavolta, però, a difendere la prole ci sono quelle femministe che, a volte, accusano le compagne che non sono madri di non comprenderle, di trattarle come attiviste di serie B, che si siano fatte fregare dal sistema. L’ho visto nel dibattito sull’equiparazione dei permessi di paternità e maternità, su proposta di Podemos. Lo vedrò ancora. Dall’altra parte si sottolinea come la pressione sociale per avere figli sia ancora fortissima, quindi tutti questi vantaggi sociali nel non averne non si vedono.
Tra i due fuochi (che poi per fortuna non sempre si affrontano, ma si confrontano o ci provano) mi sento un po’ in mezzo, come femminista che di figli ne voleva, ma non ha fatto in tempo a 1) raggiungere la sanità mentale per averne; 2) imparare ad accompagnarsi a gente a sua volta sana di mente, e con le idee chiare sull’argomento (impresa che forse mi riuscirà a novant’anni, cinque minuti prima di lasciare questo mondo).
Nella mia posizione ibrida, mi sento dunque di tradurre l’appello sulla pagina Facebook della sindaca di Barcellona, Ada Colau, che da madre si chiede perché la quarantena non tiene conto delle esigenze dei bambini, se ad esempio vengono ascoltate, com’è giusto che sia, quelle dei cani. Aggiungerei come già ho fatto altrove che sono tante le categorie di umani che si beneficerebbero molto di un’ora d’aria, per questioni di salute mentale. E che mi piace il fatto che, mentre dall’Italia mi arrivano video con frasi tipo “nella bara non vi vedono la messa in piega”, la cui tragica ironia posso comprendere ma non mi sembra porti lontano, mi fa piacere che chi amministra la mia città si stia chiedendo, come già in questo post, se più di lasciare tutti a casa non sarebbe stato meglio, in questa pandemia mondiale che ci ha trovati impreparati a gestirla, rendere sicure brevi uscite per la popolazione.
NB: Colau usa il termine “les criatures”, simile al napoletano ‘e criature, che io traduco come “i bambini”, ma a malincuore: so che in tanti non ne sentite il bisogno, ma io sento l’esigenza di trovare anche in italiano una soluzione inclusiva. E no, non ho niente di meglio da fare, o riesco a fare quello e quello!
“In questi giorni sono sempre più le voci che richiedono che si tenga conto delle bambine e dei bambini in questo confinamento. Però ancora non siamo abbastanza. La situazione è insostenibile e bisogna parlare chiaro e a voce alta.
Scrivo come sindaca e come madre di due bambini di 9 e 3 anni, che da un mese non escono. Da più di un mese siamo in casa con due bimbi piccoli che non sono usciti neanche un solo giorno, cosa che non capiscono: “Mamma, se io non ho il virus, non posso fare niente di male, perché non posso uscire? Io non ho nessuna colpa”.
Settimana dopo settimana, litigano tra loro ogni giorno di più, hanno attacchi di tristezza, di rabbia… è quasi impossibile mantenere un orario, né un ordine, né fare i compiti, niente di niente. Il piccolo di tre anni, che ormai stava lasciando il pannolino, è tornato indietro e non chiede più di andare in bagno. Non voglio pensare in nessun modo che sia colpa nostra. Facciamo quello che possiamo, come tutti. Li amiamo molto, che è la cosa più importante. Però questi bambini hanno bisogno di uscire.
Il fatto è che, se possono uscire a passeggiare degli adulti con un cane, e ora alcune attività economiche non essenziali si riattivano, perché i nostri bambini e le nostre bambine devono continuare ad aspettare? Sappiamo già che possono contagiare senza avere nessun sintomo: come molti adulti. Troviamo il modo di fare le cose per bene e d’accordo con i consigli degli esperti in salute. Nel corso di queste settimane tanto i bambini quanto i loro familiari hanno dimostrato che sono responsabili e che non sono idioti: hanno seguito tutte le raccomandazioni e istruzioni che sono state date. Per questo siamo sicuri che possono uscire a fare un giro vicino casa, mantenendo le stesse distanze che manteniamo noi adulti quando andiamo a fare la spesa.
Viviamo in una società eccessivamente adultocentrica che ci condanna a patimenti che possiamo evitare. I bambini non sono un incidente, né un peso da gestire. Sono persone con diritti propri dell’infanzia, raccolti in trattati internazionali, ma sistematicamente calpestati. Sento che le autorità nel campo dell’educazione sono molto preoccupate per il sistema di valutazione. D’accordo, ma a me, a molti padri e madri, quello che più preoccupa è la salute psicologica ed emotiva dei nostri bambini e delle nostre bambine. Siamo stanche [plurale femminile inclusivo, ndR] che ci dicano che siamo soldati e che questa sia una guerra, invece di parlare di come prenderci cura della vita e prenderci cura le une delle altre. Se c’è un insegnamento che mi piacerebbe ricavassimo da questa terribile crisi è che il nuovo mondo che ne venga fuori sia più femminista, che metta al centro le persone ed educhi all’amore e alla corresponsabilità, invece che all’individualismo, alla paura e alla guerra.
Non aspettate un minuto di più: liberate i nostri bambini!”.
Un caro amico mi disse una volta che quello che distingue un adulto da un bambino è la capacità di aspettare, per soddisfare i propri bisogni.
Io ho ricambiato spiegandogli che l’amore non è meritocratico, e credo abbiamo passato quel che restava della nostra gioventù a dimostrarci, tra le altre cose, le rispettive teorie.
Ieri ho pensato alla sua, davanti alla tabella di marcia che mi aspettava questa domenica. Poi ci ho ripensato dopo, a domenica passata. Perché ho fatto tante cose, è vero, e mi sono piaciute quasi tutte: sono stata al gruppo di scrittura, e in fondo mi ha fatto bene. Ho pure confortato una finlandese che sta per pubblicare un libro, e che non ne può più di tutte le scartoffie che le stanno dando per firmare… Le ho detto che, anche se le cose dovessero andare a schifio, passerà tutto quando vedrà il suo libro bell’e fatto. Mi sono resa conto dopo, con estremo imbarazzo, di dove abbia già sentito affermazioni del genere. Di solito, ai compleanni dei bambini.
Ieri, invece, era il Profeta a compiere gli anni: me l’ha spiegato alla festa – mormorando una serie di lodi dopo la parola “Profeta” – la presidentessa delle Donne arabe in Catalogna, che mi ha raccontato anche di quanto le sia piaciuta Assisi, dov’è stata con la Comunità di Sant’Egidio. In realtà non sapevo niente della ricorrenza perché a quell’evento mi ci aveva invitato un latino, suppongo ateo, che gestisce questo centro culturale, e voleva solo raccogliere un po’ di soldi per i ragazzi arabi che dormono nel parco vicino alla Chiesa di Sant Pau, e che di miracoloso hanno questo: ogni tanto viene la polizia, li sgombera, e problema risolto. Magia! Poi qualcuno si suicida prima ancora di finirci, al parco. Oppure va Vox fuori al centro per minori a spiegare con dati farlocchi che rubano e stuprano più di tutti.
Stavolta invece erano allineati e coperti, nell’Ágora Juan Andrés… Oddio, “coperti” non tanto, che questo gioiellino del Raval è all’aperto, e la mia accompagnatrice se n’è andata insieme a me per il freddo. Per chi restava, si prospettava un buon pranzo a base di spezzatino, taboulé e insalata. Queste due cose avrei anche potuto mangiarle, come mi hanno ricordato più volte le organizzatrici, ma ho preferito lasciare la mia offerta e andarmene a una trionfale Fiera Vegana, con l’organizzatore che, stavolta, aveva venduto quasi tutto – il penultimo tiramisù gliel’ho preso io.
Poi però ho anche studiato un po’ le gigantesse sulle cui spalle provo a stare in equilibrio precario, quando scrivo: l’ho fatto nel co-working gratuito che ha sempre le saracinesche abbassate da un mese, da quando è iniziato “l’autunno caldo” indepe.
Cavolo di domenica, insomma! Posso dirmi soddisfatta. Ho anche fatto delle scuse ironiche (perché quelle vere so che non potrò farle mai) a un ragazzo nero che ci si è seduto accanto alla festa di compleanno di cui sopra, e mi ha detto che qui in quattro mesi si è preso un permesso di tre anni, mentre in cinque anni in Italia non ha cavato un ragno dal buco, a “Bergàmo“. Lo pronunciava come certi francofoni che se gli togli l’accento sull’ultima vanno in crisi. Ma “Salvini“, ve lo assicuro, lo sapeva dire benissimo. Allora gli ho insegnato il concetto di “vergüenza ajena”, che significa “vergognarsi al posto di qualcun altro” (che a Napoli esiste, altrove nella penisola non saprei).
E allora che c’è che non va nella mia fantastica domenica?
È una specie di fame. Mi prende quando le cose si fanno prevedibili, quando le traduzioni in spagnolo procedono e così i nuovi manoscritti, e anche il caos degli ultimi tempi torna calmo.
Allora una parte di me si ribella alla vita ordinata che le ho imposto – quella di chi sa cosa vuole, e ha deciso che è tutto lì – e scalpita per andare altrove, per spaziare. E così, questa me bambina che fa ancora i capricci non tanto si rallegra perché l’ormai mitico guru del gruppo di scrittura l’ha invitata “a lavorare insieme in biblioteca”, e con un altro scrittore simpatico, ma piuttosto si rammarica per non aver parlato di più col nuovo acquisto, che arriva pieno di belle frasi, ma sempre assonnato, e si sospetta che dorma in strada. Questa parte fa progetti da adulta, tipo ipotecare la casa per scapparsene dal centro, poi guarda due annunci e dice: “Uuuh, un terrazzone sgarrupato! Fanculo al bilocale d’occasione!”. Meglio un bilocale economico che sembra fatto in serie, o una terrazza sgarrupata al sole? Meglio un ruolo di comparsa in guerra, o una parte da leader in gabbia?
Mi dicono che la differenza tra un adulto e un bambino è che l’adulto ha la capacità di aspettare, per soddisfare i propri bisogni.
Ma a questa, di bimba, difficilmente dirò di stare buona.
L’importante è che l’abbia trovata. Ci provavo ogni anno, da quando Facebook ce l’hanno quasi tutti. Non lei, però. E non perché fosse di quelle persone che ascoltano il walkman, e quando vengono all’appuntamento con quell’ora di ritardo sono raggiungibili solo al fisso della nonna. Più che altro temevo che, qualunque cosa fosse stata della sua vita, interagire con esseri umani non facesse parte del quadro.
Perché era timida, Iris, e se ne restava muta nel grembiule dalle maniche un po’ a sbuffo, che indossava sempre immacolato: sedeva all’ultimo di una fila di banchi individuali, disposti ad H. Rispetto alla cattedra, noi eravamo l’estremità superiore della mazzarella di sinistra, perché accanto al suo banco c’era il mio. Per guardare l’insegnante dovevamo inclinare un po’ la testa.
Lei lo faceva poco, o guardava dritta, senza mai interagire. Doveva essere sollecitata a farlo, soprattutto quando si trattava di riferire a sua madre che la maestra doveva farci due chiacchiere.
Quel poco che Iris diceva, rivelava qualcosa che allora non capivo bene: non stava parlando nella sua prima lingua. Sapevo che c’era gente che in casa usava solo l’indialetto, ma quelli, stando a quanto mi spiegavano, mica erano puliti come lei. E poi giravano in canottiera, e vivevano al piano terra dei palazzi, con la porta aperta: d’estate cacciavano le sedie fuori, e i più piccoli andavano in bicicletta in mutande. L’idea generale era che “si doveva fare qualcosa” perché quei ragazzini non finissero con una pistola in mano, o un ago nel braccio: soprattutto, perché non minacciassero la gente perbene con queste due armi. Insomma, ricevevano un’attenzione simile a quella dei bambini africani di Uiardeuold, con cui io immaginavo di ballare in mezzo alle scale – e per qualche curioso fenomeno, in questi voli di fantasia torreggiavo su di loro. Immaginavo pure, ogni tanto, di rimproverarli, con tanto di indice alzato che si agitava nell’aria. Perché lo facevo? Boh, forse seguivo una mia logica per cui, quando stavo male (tipo, finivo in castigo) era perché mi ero comportata male. Me l’ero meritato, insomma. Magari era andata così anche per loro.
Iris non era mai in castigo, semplicemente non parlava. Leggeva, ma a fatica, e faceva i compiti, ma li sbagliava sempre.
Credo che sotto sotto gliene facessero una colpa, qualcosa a che vedere con gli sforzi che avrebbe potuto fare.
Perché, trent’anni dopo, cercavo Iris con tanto accanimento? Beh, perché sul serio volevo sapere che ne fosse di lei, se la vita l’avesse trattata meglio di “quando era colpa sua”.
E poi perché in colpa mi ci sentivo io: a un certo punto, non so bene per quale motivo, mi venne lo sghiribizzo di aiutarla. Così costringevo la poveraccia a sacrificare i dieci minuti di merendina alla flessione del verbo – in cui zoppicavo anch’io, ma mio nonno mi aveva regalato un libro magico, zeppo di coniugazioni. Spero di ricordare male, ma credo che le dessi anche qualche assegno extra.
Insomma, facevo la più strana forma di bullismo che si possa immaginare: quello umanitario. Ebbene sì, sarei dovuta finire alla guida del Fondo Monetario Internazionale.
In effetti, nella repubblica dei nostri banchi – governata da rigide regole grammaticali, e da qualche ceffone – avevamo già imparato che vivevamo nel mondo libero. Dall’altra parte di un certo muro, infatti, producevano tipo cento cappotti all’anno, e solo quelli: se facevano male i conti, o se tu non andavi in tempo alla distribuzione, ti sparavi un bell’inverno siberiano senza cappotto.
Perché imponevo il mio aiuto a Iris? Se rispondo “perché lei non faceva niente per ribellarsi”, mi radiano dall’albo delle femministe, e con ragione (devo dire che qualche compagna provò a farmi notare che c’era qualcosa di storto, nel mio senso di giustizia). Se rispondo “perché mi piaceva esercitare lo stesso potere della maestra” dico la verità, ma non tutta. Credo abbia più a che vedere con un mio strano senso dell’ordine: vivo le ingiustizie come un oggetto fuori posto, in una grande stanza ordinata. Io, che sono capace di lasciare un pacchetto di gomme a terra per una settimana di fila, m’ero messa in testa di raccattare quello che un sistema asfissiante, e classista fino allo spasimo, si lasciava dietro senza troppi problemi.
No, per fortuna adesso non mi troverete su Instagram, a troneggiare sorridente su dei bimbi neri perplessi: poi si cresce.
Non subito, però. In seguito sarei stata accusata di “esportare la democrazia” da gente che mi rovesciava addosso i suoi problemi per essere commiserata, ma non aiutata. È una differenza che ci avrei messo un po’ a capire, così come quella tra odiare la propria vita ed essere disposti a cambiarla. Oppure, qualcuno che mi rinfacciava: “Sembri mia madre”, mi trattava esattamente come se fossi stata sua madre. E vi giuro che resisto da un po’ alle tentazioni di fornire aiuto non richiesto.
In ogni caso, ieri ho scoperto che Iris sta bene, è felice.
O almeno così dichiara sul suo profilo mezzo chiuso, che deve essersi aperta da poco. Sotto l’immagine di due bei bambini, scrive che sono “il suo tutto”.
Si mette i like sotto le sue stesse foto: Iris vestita da sposa, Iris innamorata che bacia il marito, Iris che augura buongiorno e buonanotte, e scommetto che ha preparato lei quella torta incredibile con la glassa fuori, e una candelina a forma di numero.
In un paesone come il nostro, il fatto che non abbiamo neanche un contatto in comune parla più di tre enciclopedie Treccani, di quelle in cartaceo che si usavano ai tempi nostri.
Vorrei inviarle una richiesta d’amicizia: alla fine, noi che viviamo lontani dal posto in cui abbiamo imparato a leggere e scrivere sappiamo che i social schifo non fanno, o sono meglio che niente.
Però non oso.
Cosa ricorderà di me, Iris? Ero la bulla che la costringeva a correggere “ci ho detto” con “le ho detto”, invece di dividerci la merendina? O una bambina che aveva una sua idea di come dovesse andare il mondo, e cercava di condividerla?
Magari si è proprio scordata, e meglio così.
Adesso che i cappotti ce li abbiamo tutti – tranne i figli dei bambini di Uiardeuold, che lasciamo morire in mare – ho perfino imparato i congiuntivi della lingua che ha vinto la guerra, ma so che è stato pure perché avevo un nonno laureato, con un libro magico da regalarmi.
Avevo anche un bisnonno, operaio socialista, che diceva “‘e libre so’ comme ‘e muntagne”, ma purtroppo non ci siamo incrociati.
Magari mi avrebbe insegnato un po’ di cose su quella storia del mondo in disordine.
(Sentite, io come sapete mi commuovo con poco, ma succede davvero spesso quando, dopo trent’anni, mi accordo che capisco tutte le parole di una canzone. Ed è oltraggioso pensare che, se Iris aveva problemi con la mia prima lingua, io ne avevo di peggiori con la sua. La conoscenza è libertà, quasi sempre: doniamo conoscenza).
Come ogni anno, sono andata a trovare un’amica di ritorno in paese per le festività. E come ogni anno ho avuto modo di salutare anche le sue dirimpettaie, un tempo “le figlie della vicina”, anche loro in visita da Milano per portare i loro bambini dai nonni.
Da piccole, la mia amica e io eravamo un po’ confuse da questa grande famiglia che ogni tanto incrociavamo sulle scale del palazzo: la raccomandazione della mamma di lei era quella di scambiarci giusto un saluto, “perché non parlavano bene”. Tradotto per chi non fosse della nostra zona: parlavano solo napoletano. Quelle bambine “proibite” ci consideravano a loro volta delle soggettone (sempre per come parlavamo), e quando giocavamo nel parco ci crivellavano di schizzi con la pistola ad acqua.
Inutile dire che adesso i figli di queste impresentabili (sono ironica) hanno un accento del Nord che, considerate le circostanze, mi provoca una certa ilarità.
E con la mia amica salutiamo volentieri queste ex ragazzine che in nostra presenza si sforzano di sfoggiare il miglior italiano possibile, mentre noi ne approfittiamo per tirar fuori tutto il napoletano che intanto abbiamo imparato per dispetto. Da questa babele inenarrabile abbiamo tratto una conclusione divertente: quando torniamo in paese siamo risucchiate dai ricordi.
La mia amica ripensa agli allegri ma un po’ ingessati Natali di famiglia, con le donne tutte ingioiellate tranne la padrona di casa, che si andava “a rinfrescare” solo quando era ormai cotto il capitone. Per i bambini era una festa del regalo (e del riciclo, ma doveva essere un segreto, Babbo Natale semplicemente amava il risparmio).
Le vicine ricordano i loro Natali caciaroni, con più tavole unite a contenere tutti i parenti, e il tavolo dei bambini che finiva sempre per rovesciarsi da un lato, essendo il più precario della casa. Rievocano la puzza di baccalà fritto che non si toglieva mai e gli immancabili botti, col cugino maschio più grande che si accaparrava per consuetudine, e omonimia col nonno patriarca, il Pallone di Maradona.
Io rido di questi racconti così differenti e mi lascio prendere da un dubbio esistenziale: se ciascuna di loro ricorda la sua infanzia come la migliore possibile, e aborre quelle delle altre come noiose o caotiche, come la mettiamo? Forse la nostra infanzia è stata irripetibile e perfetta solo perché così ci piace ricordarcela. E lo sarebbe stata anche se fossimo state totalmente diverse da come siamo. Fa parte del nostro mito di fondazione.
Qualsiasi esperienza non proprio orribile avessimo fatto agli albori della nostra vita, nella nostra fase più fragile e mutevole, sarebbe stata portata in palmo di mano e preferita alle altre. Quello che conta, ancora una volta, è la nostra percezione del passato.
Il che mi porta a chiedermi: e se interpretassimo in modo diverso anche il presente?
E sì, quelle strade le avevo già viste. Quelle pietre, quei giardini. Anche se non qui e ora.
Le ho riviste a centinaia di chilometri da dove l’avessi fatto la prima volta, e a quasi trent’anni di distanza, ma erano le stesse pietre, gli stessi giardini, perché uguale era la sensazione che mi davano, rispetto alle pietre e ai giardini che li avevano preceduti.
Il quartierino che scoprivo pochi scaloni sopra casa mia a Barcellona, quella Satalia a rischio estinzione che viveva ancora di villette con giardino e vicoletti scoscesi, era la Capri che attraversavo a fine anni ’80 con mio nonno, che mi spiegava cosa fosse quella statua e che dio fosse quel tale Balilla (eh, già) che intravedevamo dalle inferriate di un portone a Tragara.
Stesse sensazioni, stesso senso di pace. Allora ricordavo la prima volta, trent’anni fa, come immaginavo il mio futuro.
E mi sono accorta che l’immaginavo così. Come il presente che vivo ora. Non proprio sputato, ma così. E ho visto la bambina vedere me. Ci siamo riconosciute, e salutate.
Certo, lei, la pargola, non avrebbe immaginato che a questo punto della mia vita non avessi ancora un lavoro di quelli “coi soldi”, che non avessi ancora figliato. Che la gente che mi circondava parlasse alla perfezione la lingua di quella poesia fatta di roccia, sulla strada del mare: Reina de roca, en tu vestido de color amaranto y azucena viví desarrollando… Anche se il tizio che l’aveva scritta, Pablo Neruda, non era né di Capri, né di Barcellona.
Ma appena interrotte dal flamenco di una passante bruna, dalla chioma raccolta, nella canzone antica che cantavamo a una voce*, abbiamo letto tutte e due, la donna e la bambina, il manifestino artigianale della festa del barri (come quella del patrono, senza patrono). Una festa piccina picciò che dura un solo giorno, e alla cena popolare bisogna portarsi da mangiare da casa, come quell’attore che piaceva tanto al nonno. Ci siamo accorte subito che non sapremmo ballare le danze popolari di qua, come non avevamo saputo ballare le tarantelle di Ferragosto, a Marina Grande. Ci saremmo limitate, oggi come allora, a saltare, e battere le mani.
Però ci siamo riconosciute, e salutate.
E siamo scese insieme verso la città, uguale a ogni nostra città, che da lassù sembrava sdraiarsi un po’ scocciata, ma in fondo benevola, ai nostri piedi.
Potrei scrivere: perché sono una donna. Nata in una società in cui la bellezza è ancora un fattore di potere, per le donne, o uno standard da raggiungere, qualcosa da procacciarsi o con cui fare i conti ogni giorno, nell’impossibilità di essere all’altezza di modelli che al femminile si traducono nella solita idealizzazione feroce, che sia di zoccola o di madonna.
Ma questa supercazzola la lasciamo a discussioni sociologiche che qui non mi competono. Questa è la realtà per milioni di donne (e ultimamente di uomini), e ciascuna reagisce a modo suo. La cosa più importante è capire cosa significhi la bellezza per noi, per la nostra storia personale.
E io ero una di quelle bambine che dici, magari esagerando, “dovrebbe fare la pubblicità”. E siccome ero pure una bimba sveglia (me so’ perza p’ ‘a via) intuivo che la maggior parte dell’attenzione che mi dedicavano gli adulti, anche i perfetti sconosciuti, fosse dovuta a questo. Ergo, devo aver pensato, se non sono bella non sono più nessuno. Infatti, l’avrò già detto, mentre aspettavo di vedere mia mamma nel reparto maternità (e mio fratello si approssima alle 30 primavere) a domanda “Che vuoi fare da grande” risposi convinta “Miss Mondo”. Anche perché il posto di Madonna (l’originale, non la cantante) era occupato. E che te ne fai, mi venne risposto. Ti dicono “sei bella”, e poi? Come, e poi.
L’ “e poi” dovetti chiedermelo più tardi, coi denti cresciuti un po’ alla rinfusa, un naso improvvisamente uscito dagli angusti confini dell’infanzia, e lo scherzo della natura (e del ciclo precoce) di essere pin-up a 9 anni e minuta a 13: è frustrante vedere le coetanee cambiare mentre tu rimani sempre uguale, ti sembra di perdere una maratona che non hai mai neanche corso, prima ancora di avere gli strumenti culturali per dirti che non vale la pena correrla.
Per questo penso che, più dei discorsi sociologici su una realtà che si fa sempre più complessa e superficiale (e che comincia ad affliggere anche gli uomini, coi modelli di bellezza irraggiungibili), bisognerebbe partire da noi, dalla nostra storia.
Io sulla bellezza ho avuto la mia rivelazione grazie a due gemelle, identiche e splendide entrambe. Conoscevo solo quella misteriosa e tormentata, però, ovviamente amica mia.
L’altra la incontrai per caso in strada e… Immaginate la classica figuraccia che si verifica in questi casi. Lei, abituata, la prese con filosofia, mi diede due baci allegri e rise con me dell’equivoco. In quel momento, mi accorsi che era più grassottella della sua gemella, vestita in modo meno originale, e forse anche più, non so, più propensa a rimanere inosservata rispetto all’evidente “alterità” della quasi-sosia.
Ma in un certo senso era più bella, o di una bellezza diversa, più affabile, più attraente in senso letterale. Non capivo perché, finché non le guardai meglio gli occhi. Erano sereni, senza le complicazioni della mia amica “tormentata” come me. E il sorriso non era nervoso, ma aperto, sincero. La ragazza che avevo davanti mi stava insegnando la differenza tra lo star bene con se stessi ed essere insicuri.
E questa ovvietà da salotto, tradotta su un volto umano che ti si profila davanti, è una piccola rivelazione, meglio di Photoshop.
Delle sue conseguenze parleremo tra qualche giorno
E niente, per concludere questo discorsetto così breve e lineare, butto giù una cosa che ho pensato al parco.
Passeggiavo in uno spiazzo costeggiato da pini e improvvisamente ho sentito odore di Capri, e d’infanzia. I due profumi erano strettamente collegati, per l’amore dei “grandi” di casa per l’isola. Non quella dei turisti ricchi e degli yacht, che riuscii a non scoprire fino all’adolescenza. Ma quella del mirto, del rosmarino, della salvia.
E, sì, dei pini.
Allora nel parco seguivo quest’aroma, cercando di catturare il ricordo come una farfalla nella rete.
Finché non ho ricordato, piuttosto, che le farfalle si lasciano libere. E questi pini di un parchetto semisconosciuto di Paral·lel non sono quelli sotto Punta Tragara, oltre la roccia con la poesia di Pablo Neruda su Capri, che a 8 anni leggevo come fosse italiano, Reina de roca, en tu vestido de color amaranto y azucena, viví desarrollando…. (E credo che nella mia fantasia Neruda somigliasse un po’ a Maradona).
Non sono gli stessi pini, ma l’idea di pino è presente e viva, come il suon di lei. E questi pini sono il mio presente.
Se invece di rievocare quel profumo passato cercassi lo stesso benessere ora, da adulta contenta di tirare a campare, sarei a cavallo.
Si può applicare a ogni genere di ricordi, a tutto. Pure a me. Che da piccola storpiavo Neruda e ora lo leggo con pronuncia spagnola, ma l’idea di Maria resta anche in formato più grande. Come io sono una personale interpretazione dell’idea di essere umano.
E anche l’amore, forse non sarà più collegato a quella persona, a quelle vicissitudini che ormai diventano sempre più un ricordo, ma l’idea di amore resta, si può incarnare in un altro, respirare su un altro petto.
E non sto dicendo che un pino vale l’altro, che chiodo scaccia chiodo, che Capri o Spagna purché se magna.
Solo che siamo portatori sani delle idee del mondo, e il tempo scandisce solo il modo in cui le decliniamo.
Mi sono detta: questa la scrivo domani, stasera mi viene più sdolcinata che mai. Eh già, perché la novità è allarmante: mi piace una canzone di Cesare Cremonini. Come l’odore di vernice e la lingua che batte dove il dente duole, ma mi piace.
Mi capita da un po’ con le più becere canzoni pop italiane. Hai voglia a mettere Fabrizio De André, o Ciccio De Gregori, o i sublimi Squallor. Per immaginarti la radio di tua madre che va da sola la domenica mattina, vicino al ragù che pippea, ci vogliono questi qua, Marco Mengoni e gli Amici di Maria.
E se l’immagine vi pare troppo da Mulino Bianco, niente paura. Stavo per dire appunto che è un po’ come andare al mitico pako del carrer del Parlament, quello dei prodotti italiani, e leggere quelle scritte strane che stanno mettendo adesso sui Tarallucci: “Chi fosse veramente la pastafrolla ce l’aveva stampato sul volto”. O “Può un angolo di cielo essere rotondo?”, per i Pan di Stelle. Per un istante ho immaginato che i copy writer dell’azienda avessero manager un po’ stralunati come i miei ex datori di lavoro, che prima facevano i DJ in Olanda. Ma in fondo, vista da qua, l’Italia è particolarmente stralunata, ultimamente, quindi me la sento più vicina.
Poi è successo che ho messo in loop i video di Repubblica che partono uno dietro l’altro, mentre facevo una traduzione, e mi è uscita la presentazione di questo film:
La trama mi faceva un po’ Acciaio di Silvia Avallone, forse per le due amiche nel quartiere disagiato, ma è tratto da un altro romanzo. Mi è dispiaciuto che il regista dovesse distribuirselo da solo, specie se considero i cartelloni cinematografici di sto Natale… Poi, la scena finale, in cui la piccola protagonista s’immerge nel mare e la musica aumenta. E mi spiace per gli indipendentisti sardi, che tra l’altro io più canto Nostra patria è il mondo intero e più mi ritrovo coi loro colleghi catalani, ma proprio mi ha fatto estate italiana. Oddio, al Villaggio Coppola non ho mai visto un mare così, ma so’ dettagli.
E la canzone mi ha fatto tenerezza, la canta con Malika Ayane che se ricordo bene è pure la fidanzata (e mi fa ridere più delle imitatrici, giuro, sono malata?). Dice a una ragazzina che non bisogna aver paura dell’amore vero bla bla, lotterai, lotterai, perché sia vero. Solite cose, così facili da ricordare, così facili da dimenticare. E mi sono immaginata piccoli e adolescenti tutti i problemi adulti, specie l’adolescenza che non tramonta mai: le libertà che non vorresti, le cose di cui dopo un po’ in effetti ti rompi il cazzo.
E allora il poppettino nostrano è rassicurante, specie quando dice banalità che dovrebbero insegnarti prima.