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Risultati immagini per italian restaurant Avete presente quei connazionali che all’estero diventano più italiani degli italiani?

Questa è una possibile reazione alla sensazione scomoda di essere “gli stranieri”, quelli arrivati da meno di una generazione, che vengono confusi con ladri e scrocconi se scuri di pelle, o con turisti e speculatori se appena un po’ più chiari. Non so se preferirla o meno a quelli che s’illudono che tifando Barça e mangiando fideuà verranno prima o poi riconosciuti come autoctoni.

Un’altra reazione, forse ancora più frequente, è il conformismo. Accettare di entrare perfettamente nell’immaginario che i nuovi vicini hanno di noi. In questo ci sono cascata io a 22 anni, a Manchester, quando mettevo a palla Mambo italiano (una delle perle di un CD ricevuto in regalo), chiedendo alle mie coinquiline inglesi se lo conoscessero.

Voi avete mai ballato Mambo italiano? Appunto.

In tempi più recenti, organizzando tra italiani stanziali una conferenza sull’aumento degli affitti a Barcellona, le proposte vertevano su due impostazioni: 1) ci facciamo portavoce dei poveri Erasmus, costretti ad ambire alle stesse esose camere dei turisti; 2) proponiamo la solfa “siamo buoni nonostante il fatto di essere stranieri”, scusandoci implicitamente per i connazionali speculatori (come se un bidello musulmano di Southampton fosse chiamato a sconfessare gli attentatori di BruxellesNo, wait).

In entrambi i casi, l’idea era di accettare lo sguardo altrui. Guardarci con gli occhi di quegli autoctoni troppo impegnati a difendere il loro mondo minacciato dalla gentrificazione, per vederlo nella sua complessità: autorappresentarci, dunque, come eterni Erasmus in odore di speculazione edilizia.

Non importa da quanto viviamo in loco e quanto sia difficile ottenere un mutuo, senza genitori autoctoni a farci da avallo. Poco importa se non tutti, per scappare dall’esorbitante mercato urbano degli affitti, abbiano voglia di andare a fare “i forestieri” in un paesino di qualche migliaio di anime.

No, noi siamo gli stranieri e tali dobbiamo rimanere, se vogliamo almeno essere integrati.

Insomma, è positivo “immaginarci” per quello che vorremmo essere e utilissimo guardarci con gli occhi degli altri, per vedere la nostra vita e le nostre scelte da un’angolatura diversa.

Dagli immaginari altrui, invece, siamo liberissimi di prescindere. Non dobbiamo entrarci per forza, né prenderne obbligatoriamente le distanze.

Se tra un paio d’anni mi dovessi convertire definitivamente in una vaiassa con mestolo e capelli scarmigliati, che al confronto la Sophia Loren neorealista diventa Anne Wintour, siete liberi di abbattermi a colpi di calçots.

Se invece mi vedete andare in giro con la frangetta a metà fronte, usate pure le armi chimiche.

 

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rizomaMi giungono nuove dal paese.

Solita trafila di nascite e morti, matrimoni, lavori trovati, qualche emigrazione. Di quelle calibrate, volte a inseguire un incarico al Nord o il posto fisso, aspettate pazientemente dormendo oltre trent’anni nella propria stanza di bambino.

Normale amministrazione, insomma.

Ma in quest’agosto curioso di città deserta di giorno e straripante di notte, di amici spariti e amici ritrovati, di presenze mute e assenze che parlano, mi capita di nuovo di vivere in un limbo in cui presente e passato si mescolano nei più strani abbinamenti.

Ecco quindi che l’altro giorno mi sono svegliata con in testa un pomeriggio di mare in cui un nonno lontano nel tempo, ma solo in quello, si fingeva illetterato per far ridere i bambini.
E, secondo un cliché caro alla mia generazione, mi identificavo ancora coi bimbi che ridevano, piuttosto che con le mamme che riponevano il thermos nella sporta da spiaggia. Anche se per la verità mi piacerebbe essere tra queste ultime.

Ma quel giorno toccava ancora il limbo di agosto e una tesina inutile da scrivere e le assenze che parlano e le presenze che tacciono.

Allora ho preso carta e penna e, tra i vaneggiamenti del flusso di coscienza, mi è uscita la parola rizoma.

Ora, confesso che sul momento non ho ricordato bene cosa fosse. In quelle frasi vomitate in fretta in una canicola assente mi dava l’idea di qualcosa di fisso e immutabile, la radice ultima che ho perso, che non ho mai affondato in una terra precisa, semmai in stanze. La stanza mia di bambina, poi la prima in affitto e tutte quelle che l’hanno seguita, e che non ho saputo chiamare mie che quando non lo erano.

E rizoma, nella mia patente ignoranza botanica, o nell’attimo in cui scrivevo, era tutto questo. Era radice fissa, ma perduta.

E invece le letture per la tesina che credevo inutile mi hanno riportato alla metafora del rizoma per Deleuze: radice che è tronco che è fusto che è radice, narrazione che può riprendere da qualsiasi punto per diventare un’entità indipendente. In un certo senso, direi, un’altra pianta.

Come gli emigranti italiani delle navi da cui non uscivi vivo, quelli che puzzavano e non sapevano scrivere, e i loro figli ora si chiamano italiani e mangiano macaroni cheese e in qualche caso votano per un paese che non hanno mai visto, che a volte non fa votare quelli che lì ci nascono.

Come noi emigranti per caso, di lusso ma non troppo, che facciamo la trafila dei paesi in cerca di un lavoro e in cerca di noi, o magari lontano da noi. Noi che ci diciamo (e spesso è vero) che non possiamo tornare per il lavoro, per la società, per la qualità della vita, anche quando magari non lo facciamo perché abbiamo perso una radice che non abbiamo mai conosciuto, riconosciuto, come nostra.

Almeno così capita a me. Che sento le mie radici portatili al sicuro tra le guglie di Barcellona e credevo di anelare a un’antica radice perduta, lasciata in qualche secchiello fluorescente del lungomare domizio.

E invece sono rizoma, sono radice che si fa fusto, fusto che si fa radice, passato che si fa presente, presente che si fa me.