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Bella, eh, la Pasqua di Ricomincio da capo? L’anno scorso aveva quasi una sua nobiltà, il restare chiusi in casa ma “vicini col cuore”, cantando dai balconi che ci saremmo abbracciati presto (quando non si cantava l’inno italiano anche a Napoli!). Adesso, come suggerisce il buon Zerocalcare, è la ripetizione che fa strano.

Cioè, le storie sono strane per conto loro, spesso e volentieri, specie quando sono tristi o angoscianti come quelle dell’ultimo anno. Però, mentre guardo il plotoncino di conterrOnei che hanno sfidato la zona rossa per farsi Pasqua proprio sotto casa mia, ripenso a un ragionamento che faccio da tempo.

Dove finisce una storia? E mi riferisco a una storia di qualsiasi tipo. C’è l’evento principale, che so: io che prendo una multa. Quello di solito è fatto e finito, e lo subiamo, nel bene e nel male, anche quando siamo noi a provocarlo: non controlliamo che una piccola parte della situazione. La storia della multa può finire con me che la straccio, e dieci anni dopo ne sto ancora a pagare le conseguenze. Oppure con me che vado dall’amico avvocato, che per evitarmela si fa invitare a cena per il resto dei suoi giorni, e a quel punto era meglio pagarla. Oppure con me che vado alla posta a pagare la multa, e incontro un’amica d’infanzia che adesso insegna presso un carcere minorile, così tra noi inizia una collaborazione fantastica… Quand’è che do la storia per finita, e su quale dei finali mi voglio concentrare?

È per questo che non arrivo mai a terminare un manoscritto, e l’anno scorso proponevo correzioni anche quando il libro era in stampa!

Non so mai quando finisce una storia, quando è il caso di dare per concluso l’evento in sé (e di solito è facile) insieme a tutte le sue conseguenze (e quest’ultima è un’operazione difficilissima, se consideriamo quanto tutto sia collegato e quanto durino certe conseguenze nel tempo). Allora, con le storie che finiscono male o promettono di farlo ho questo mio metodo, che a volte diventa un po’ una mania, ma di solito funziona: non la faccio finire lì. Ciò non significa ripudiare il “lasciala andare come va” di una Irene Grandi d’annata, ma comporta piuttosto la determinazione a tirarci su qualcosa di buono.

Questa crisi per me devastante, che mi fece entrare per qualche mese in un paio di jeans taglia 38 (miracolo!), poteva finire col tizio che mi mollava senza dirmelo per una che, sapevo già, sarebbe durata tre mesi (e no, la cosa non mi consolava affatto). Ma è stata per me l’occasione per dare una svolta alla mia vita, che mi cambiasse sul serio in meglio. Ancora oggi, più di sette anni dopo, sto pensando di usare in qualche modo le conoscenze che ho acquisito in quel periodo di crescita, magari sistemando un’antica bozza di manuale di self-help per impedite come me, o diventando la figura professionale che manca al mondo: la counsellor cinica. Eh, lo so, già vi vedo a dire: “Non ci serve niente, grazie!”, oppure “Stavamo scarsi!”. Però io sarei quella che non ti vende la stronzata che volere è potere, ma ti cita Camus e ti ricorda che la vita probabilmente non ha senso, tanto vale che gliene trovi uno tu. Lo so, avrò clienti a frotte! E le amiche psicologhe, spesso private dal counselling di pazienti che avrebbero bisogno solo di “uno bravo”, dormiranno sonni tranquilli. Scherzi a parte, visto che sono finita a parlare come sempre di storie d’ammmore, dove potrei far finire le mie? Al preciso momento in cui voglio ridurre il mio ex a polvere di stelle, e spedirlo su Marte a cercare acqua? Oppure a quando risolvo i nostri conflitti interni e torno a sentirlo ogni tanto? O a quando, finalmente più tranquilli, riusciamo a diventare anche amici sul serio? Con alcuni mi sono fermata al primo stadio, con altri al secondo. Il terzo è complicato e richiede molte energie, spesso non ne vale la pena: quando succede, però, è fantastico. Oh, il nostro tempo è solo nostro, possiamo lavorare a un numero limitato di cose alla volta. Che siano quelle buone!

Quindi, vi chiedo: dove finiscono le vostre storie? Familiari, lavorative… di ogni tipo. Se terminano con l’evento in sé, amen, gente, a volte bisogna solo mettere il punto, e magari a voi riesce meglio che a me. Ma provate il mio gioco: far finire una storia quando ne avrete ricavato qualcosa di veramente buono.

Ricordo ancora la madre che, al mio paese, perse il figlio in un modo assurdo e terribile, e anche se aveva tutto il diritto di starsene in casa a maledire il mondo fino alla fine dei suoi giorni, intitolò al ragazzo un premio culturale. Una volta, una ragazza ormai prossima alla trentina si beneficiò di questo premio, e tornò ad avere un po’ di speranza nell’umanità.

E la storia continua.

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Risultati immagini per robbery funny Come non poche di voi fanciulle in ascolto, non ho dovuto superare la boa dei 30 per essere attaccata in strada.

La prima mano sulla patana l’ho ricevuta verso i 10 anni. Era un altro bambino. A 14 invece ho avuto l’onore delle attenzioni di un signore già brizzolato, sul micidiale R2 di Napoli. A 27 è stato un fanciullo di Forcella a dare un manrovescio sul mento, a beneficio dei compagnelli divertiti, alla studentessa intrusa nel quartiere.

Ricordo anche il pargolo, nel Raval, che correndo mi sbatte una mano sul culo per poi scappare all’impazzata, conservandosi magari questo tenero ricordo della sua infanzia: ah, le delizie di certa educazione sentimentale maschile, e pazienza per le involontarie protagoniste.

Insomma, quando l’altra sera, scendendo verso il Paral·lel, mi sono vista scippare il cellulare di mano, con tanto di maldestro strattone che mi ha regalato le labbra di Eva Grimaldi, la mia prima reazione è stata: “Niente di nuovo”.

La seconda reazione è stata: “Non ci posso credere”. Per farvi capire, tre anni fa ho provato a rottamare quel cellulare e quasi mi ridevano in faccia. Ricordo l’importo che avrei dovuto aggiungerci per comprare il modello più fesso: 90 euro.

La terza reazione, in ogni caso, è stata la più ortodossa: “Al ladro!”. L’ho pure ribeccato, giuro, sulla strada per il negozio di telefonia, dopo aver perso la speranza di acciuffarlo per… Picchiarlo? Sgambettarlo? No. Per convincerlo a ragionare.

“Garzoncello”, gli ho detto a una distanza di sicurezza che non mi permetteva altre reazioni, lì al centro della pista di biciclette del Paral·lel, “ti rendi conto che ti vado a denunciare per una cosa che non ti frutterà una beneamata ceppa e che a me, invece, serve assai?”.

Lui per tutta risposta ha annuito e, appena ha potuto, ha ripreso a correre.

Ma davvero, ero troppo esilarata da quella situazione assurda per tentare di usargli violenza o fargliene usare da passanti e polizia.

Il mio primo scippo, avvenuto a Barcellona alla faccia delle malelingue sulla mia città natale, mi ha fatto osservare un po’ di cose interessanti di me e degli altri:

  1. Tendiamo a immaginarci che “capitano tutte a noi”. Perché siamo noi. Magari fosse così, ragazzi: mentre a me capitava questo furto surreale avvisavano dell’aumento di scippi nelle metro di Gràcia e Diagonal. Quindi di me a questo ragazzetto non gliene fregava niente, potevo essere una nana in mongolfiera e mi avrebbe scippato uguale, se avessi avuto il cellulare in vista.
  2. Una cosa è l’ottimismo a tutti i costi e un’altra il “non tutto il male viene per nuocere”: erano secoli che avevo difficoltà con WhatsApp, con la linea, con Facebook. Adesso sono stata “costretta” dal caso a procurarmi un cellulare migliore. E considerando che nell’arco di 16 ore, con la mia fidelizzazione a Orange, l’ho avuto in rate mensili di 9 euro, non mi è andata niente male.
  3. In situazioni come questa non hai paura. Non hai tempo. Non rifletti. L’ho sperimentato nei contesti più disparati, dall’attesa terrorizzata di un esame importante all’adrenalina senza pensieri mentre lo tenevo, passando per una rottura sentimentale, in confronto agli strascichi successivi. Infatti in questo caso devo confessare che mi colpiscono più gli strascichi: questo senso d’ingiustizia mitigato dalla sensazione di aver reagito bene. Con un’arma in vista sarebbe stato diverso, suppongo. Ma non lo voglio scoprire.
  4. Tra le varie manifestazioni di solidarietà, non è mancata la benintenzionata che mi ha invitata a non uscire mai da sola la sera e farmi sempre riaccompagnare. Eppure mi arrivavano resoconti di uomini derubati anche 8 volte, e con conseguenze più violente di uno scippo “banale” come il mio. Non so se le donne siano le vittime più ambite, ma i miei amici rimasti malconci da questi scontri sono quasi tutti uomini. Approfittiamo di queste opportunità per essere più prudenti, non meno libere. E liberi, ovviamente.

Inoltre ho avuto modo di accorgermi di una cosa: non so chiedere aiuto. Cioè, quando sono tornata a casa il mio ragazzo mi ha abbracciata, consolata, anche se dichiaravo di stare bene, ma di lì a poco mi chiedeva la cortesia di spegnergli il fuoco sotto la pentola, intanto che si docciasse per uscire con un amico. Ho dovuto fargli presente io che forse ero più affaticata e scossa di quanto dessi a vedere (rincorrere un adolescente comincia a diventare stancante), e allora ha deciso di restare con me. Mi sarebbe bastato il gesto di chiedermi se ne avessi bisogno, e infatti abbiamo trovato un compromesso uscendo noi due, che volevo prendere aria. Ma è emblematico che, a furia di dare un’immagine forte di noi, gli altri finiscano per crederci, e finiamo per farlo anche noi.

Insomma, come ipotizzavo altrove, anche le rotture più drammatiche della routine possono portare qualche insegnamento. O farci vedere lo stesso mondo che percorriamo ogni giorno, credendo di conoscerlo a menadito, sotto occhi diversi.

E non sacrificherò la libertà e la gioia di ammirare la mia città alla paura effimera che possa succedermi qualcosa.

Che vivere sia pericoloso lo sappiamo tutti. Eppure.

 

  Oggi ci sono cascata: mi sono messa a commentare su facebook un paio di post che non mi trovavano d’accordo. Uno ridicolizzava una presunta esibizionista da spiaggia (la didascalia era “ben GLI sta”…) e un altro, a proposito di slut shaming, difendeva la lingua italiana da quelle contaminazioni terribili tipo leader oppure font, che suggeriva di sostituire con un pratico e funzionale “carattere tipografico”. Ho capito che a scuola avete imparato il francese, cari gendarmi della lingua (l’età media dei commentatori era alta), ma fatela finita, sì? Ecco, mentre facevo tutto ciò, mi è piombata addosso la punizione divina: mi è andato di traverso l’intruglione che per insondabili motivi digestivi mi faccio ogni due giorni (miscela mefitica di cannella, zenzero, miele e succo di limone) e, dopo averlo sputato in ogni dove manco stessi affogando nel Mar Morto, mi sento come al terzo giorno di mal di gola.

Ben GLI sta, commenterebbero quelli del primo post. Perché, dicevo, ci sono cascata: mi sono arrabbiata, e per niente. Per dire la mia a gente che non cambierà idea solo perché io non la penso uguale, e continuerà a rafforzare la sua identità attraverso il disprezzo di quelle altrui.

Lamentarsi serve a poco, purtroppo. Eppure è una forma di socializzazione che usiamo spesso. Come va? Eh, signora mia, questo calore non dà tregua. Tre mesi prima avevamo criticato il freddo, e se anche ci fossero dei gradevolissimi 20 gradi vireremmo la conversazione con questa semisconosciuta (a cui rivolgiamo la parola per cortesia) su qualche fonte di lamentela. È una formula collaudata, pratica. Si è subito complici, nel biasimare insieme qualcosa che non ci piace. Ci dà un argomento per parlare e uno strano piacere, quello di analizzare ciò che non ci garba, come unica maniera di controllarlo. Il sollievo con cui lo mettiamo da parte per dedicarci ad altro pure è un surrogato del piacere.

Una volta ho provato a non cadere nella trappola. Il che non significa, attenzione, pensare solo a cose buone e belle da dire: il pensiero positivo va bene finché non censura, nasconde, della rabbia che faremmo bene a (ri)conoscere. No. Ero a tavola col mio ragazzo e, invece di lamentarmi di come andasse l’associazione, dei nostri amici perdigiorno, dell’affitto troppo caro e delle condizioni della caldaia, ho provato a parlare d’altro. E ne sono venute fuori delle belle!

Progetti per il fine settimana, per l’estate, per la vita. Considerazioni piacevoli sul tempo e su quanto avessimo di buono, invece, in quella casa esosa con la caldaia che fa le bizze (il che non significa che alla prossima doccia fredda non vada a fare lo strascino alla padrona di casa, so’ ottimista, mica scema).

Insomma, se rifuggiamo dal piacere agrodolce a cui siamo abituati, quello di relazionarci attraverso le critiche, ci si apre sul serio un mondo. Forse è il modo più rapido ed economico per cambiarsi la vita. Ma sì, ragioniamo in termini di tempo: se mi sono lamentato mezz’ora di cose che non ho fatto altro per risolvere, a parte rimuginarci su, ho sottratto mezz’ora alla lezione da preparare che comunque mi aspetta più tardi, alla birretta dopolavoro da organizzare, perfino a una possibile soluzione al problema di cui mi lamentassi.

Quindi, non si tratta di essere sempre positivi e vedere le nuvolette rosa dappertutto. È questione di dire ciao alla spirale di pensieri che ci accoglie nella sua rassicurante nullafacenza, garantendoci zero soluzioni al prezzo di una piacevole mezz’ora a rovinarci il fegato.

E quanto ci piace, rovinarci il fegato.

Finché scopriamo quante cose deliziose possiamo assaporare se lo trattiamo bene.