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Vivo altrove. Giovani e senza radici: gli emigranti italiani di oggi -  Cucchiarato, Claudia - Ebook - EPUB con Light DRM | IBS
Dicono di noi…

Io con l’Italia non mi trovo più. Non capisco bene cosa venga pubblicato lì, e perché debba essere rilevante per me.

Ne parlavo l’altro giorno con un vicino che sta traslocando, ed è salito da me a raccontarmi del suo nuovo appartamento (e a darmi dritte per aggiudicarmi eventualmente quello che lascia): come me il giuovane scrive, ha vissuto in più paesi e ha imparato a fare a meno di traduzioni per quasi tutte le lingue romanze, oltre a leggere senza problemi almeno in inglese.

Anche lui non legge quasi niente in italiano, come d’altronde succede a un ex compagno di scuola che ora vive nell’est europeo. Ci siamo detti, un po’ per provocazione e un po’ sul serio, che vorremmo una casa editrice della diaspora italiana, visto che il mondo editoriale italiano ci genera perfino più alienazione di quanta ne susciti a chi rimane in Italia! In parole povere, quando leggiamo romanzi italiani ultrasponsorizzati, strombazzatissimmi, che abbiano guadagnato ventimila premi, finiamo quasi sempre per chiederci: “Eh?”.

(Ok, spesso ci chiediamo proprio “WTF”, ma so che lo scenario intellettuale italiano è in fase di autarchia linguistica e vorrei risparmiarmi la fucilazione.)

Non che manchino buoni testi, ovvio, ma la questione è: se volessimo leggere Marguerite Duras e Annie Ernaux, o una specie di Bukowski con la camicia stirata, in tutta franchezza ci compreremmo gli originali.

Ho smesso di seguire qualche scrittrice premiata quando ho visto che nella sua pagina alternava discorsi sull’importanza di trovare i sandali giusti (e di farsi la pedicure) alla sua personale cognizione del dolore, che condivideva con qualche compagna altrettanto sofferente. Dio santo, come vi capisco: sono nata anch’io in un Sud di padri padroni e donne oggetto (e il Nord non è che sia così diverso…), dove essere tristi e tormentati non solo è più che comprensibile, ma fa pure fico.

D’altronde a volte chi legge quello che scrivo io (e non mi riferisco allo stile, tutto da migliorare, ma ai contenuti) non sembra parlare la mia lingua, a meno che non abbia fatto un percorso simile al mio: mi piacerebbe pensare che ciò sia dovuto alla mia incapacità di formulare un pensiero lineare, ma una volta ho avuto l’onore di sottoporre a un’addetta ai lavori una scena del libro che poi ho pubblicato, e mi sono sentita dire che la mia Irene sembrava la solita Erasmus a Barcellona, con tanto tempo da perdere per dedicarsi alla politica: addirittura l’indipendentismo catalano!

Peccato che Irene, come specificavo anche nella scena che avevo inviato, sia una stagista già laureata, che guadagna meno di cinquecento euro al mese e ci si paga un affitto di settecento euro con il fidanzato che studia e lavora, per permettersi un appartamento che ha la doccia sul balcone. Irene non ha neanche trent’anni, età in cui alcune amiche mie rimaste in Italia chiedevano istruzioni da Facebook su come azionare una lavatrice (ma giusto perché erano in vacanza).

Ma che ve lo dico a fare: Barcellona (che comunque, sapevatelo, è nel Sud della Spagna!) è solo una meta Erasmus, l’indipendentismo è come la Lega e chi se ne occupa anche solo per criticarlo ha tempo da perdere, specie perché non è rimasta a “lottare per cambiare le cose” (tipo i pregiudizi su tutto ciò che non è italiano?).

La domanda a questo punto mi nasceva spontanea: com’è che avrei dovuto scrivere, allora, secondo agli addetti ai lavori italiani? Be’… ricordate la scheda tecnica su un altro manoscritto (uno incentrato proprio sull’Erasmus!) che avevo commissionato? L’autrice della valutazione mi dava consigli utilissimi, per carità, ma sembrava voler trasformare il mio romanzo, che sarà stato senz’altro banale e ritrito, nel Tempo delle Mele per ventenni, o in Cento colpi di spazzola. Tanto per migliorarlo, insomma! La mia protagonista, a quanto pare, sembrava un’eterna adolescente a cui bastava “alzare il dito” (sic) per chiamare sua madre e chiedere soldini per rimpolpare la magra borsa Erasmus. Ovvio che avevo scritto esplicitamente che la madre non voleva che la ragazza partisse, e che aveva giurato alla figlia che, a borsa esaurita, non le avrebbe passato neanche un centesimo.

Va da sé che, secondo l’autrice della scheda, non si capiva perché la protagonista pretendesse dal suo tutor italiano informazioni almeno corrette, se non addirittura complete, sui dettagli dell’Erasmus: evidentemente “era già tanto” che un professore si degnasse di coordinare lo scambio linguistico (leggi: fare il minimo, e farlo male). Pazienza che la protagonista si ritrovasse a frequentare un corso inutile ai fini della laurea perché il virtuoso tutor non era al corrente di quella clausola.

Ma il peggio, per l’autrice della scheda, doveva ancora venire: come poteva la protagonista trascurare questo corso inutile se poi, esplicitamente trascinata da altri, finiva a seguire una conferenza “del tutto irrilevante” sul GENDER!11! Ma lo sapeva, Papa Francesco? Non fa niente se l’argomento richiamava ciò che le stava accadendo in casa… Mary Nash, perdona loro! Nel mio paese, nonostante gli sforzi di tante, sono in molte di più a dichiararsi “né maschiliste né femministe”.

Inoltre, una editor italiana viene spesso pagata una miseria… A suo tempo mi stavo sfogando su tutta la questione proprio con un altro editor, e quello mi diceva scherzando che avevo ragione: il romanzo italiano oggi consta di quattrocento pagine di pippe mentali del protagonista, poi alla fine “succede qualcosa” (meglio tardi che mai!) e arrivederci.

Almeno, le autrici americane che adoro vengono tradotte, se non proprio lette in massa: Elizabeth Strout (anche se alla mia amata Olive Kitteridge viene preferita Lucy Barton, con la sua finta prosa working class) oppure Gillian Flynn. Ma in generale mi sembra che, con qualche eccezione, un romanzo italiano che si permetta di avere una trama corale o almeno un po’ più complessa si becchi subito un “quanti personaggi”! No, sono quasi sicura che oggi la mia antica professoressa di storia e filosofia si metterebbe in fila al Salone del libro per conoscere lo scrittore giovanile e affascinante, che scrive di tradimenti come di un fenomeno ancora pruriginoso (mentre, con un amico, stiamo per pubblicare un articolo sulla vasta diffusione del poliamore a Barcellona).

A proposito, cari scrittori italiani uomini: la piantiamo di ipersessualizzare le straniere? Cacchio, non linko esempi per pietà, e voi comunque non arrivereste mai a leggere questo post. Ma ripeto: pietà. Fatevi le seghe, mentali e non, lontano dallo scrittoio.

E ovvio, “non tutti gli autori”: ho adorato libri emozionanti e pieni di sfumature, così come ho dovuto cambiare idea sulla mia convinzione che la propria storia personale non costituisce di per sé un buon romanzo. (Per fortuna i miei connazionali sembravano già consapevoli del mio equivoco, con la loro passione per gli scrittori francesi egocentrici…)

Ma, come in Italia si fanno strada autrici, autori giovani e non che provano a fare il loro, e case editrici coraggiose che li sostengono, così fuori dall’Italia siamo in tante e tanti, in modi diversi e complicati, a seguire una nostra personale via ai libri, una sorta di sviluppo parallelo a quello che hanno compiuto i nostri amici più a contatto con quello che succedeva giorno per giorno in Italia: però a volte ci manca una nostra via italiana ai libri (che per esempio leggiamo sempre meno in cartaceo, le piccole librerie non hanno una sezione fornitissima in lingua straniera…), alle storie, alle vite che raccontano.

Un esempio lampante: le storie che ho amato ultimamente non avranno proprio un lieto fine, e a volte terminano in modo bizzarro, ma spesso c’è una speranza vera. Non un riso amaro. Gliene sono grata.

Io non so se sarei arrivata anche in Italia alla conclusione che la felicità è un finale possibile, che rientra almeno nel ventaglio delle possibilità senza che si sia deficienti, o ignoranti, o superficiali.

Però sono felice di leggere storie che non fanno dell’infelicità una protagonista di più, o non la danno come conclusione scontata di fondo, confondendo un lieto fine con un momento effimero di speranza.

Spero succeda sempre di più in italiano, senza che il romanzo venga considerato robetta da poco.

Adoro leggere in italiano qualcosa di ottimista (non stupido: ottimista) e scoprire che non è una traduzione.

(Recensioni di giovani autori promettenti… :p )

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Ho passato tutta la notte a leggere.

Lo scrivo perché fa figo e perché è la verità: in questi giorni di clima incerto e possibili nuovi confinamientos, sentivo prima caldo, poi freddo, poi di nuovo caldo. Tanto valeva.

Mi sta piacendo molto Jonathan Bazzi, che mi ha fatto scoprire, ahimè tardissimo, Cristina Campo: sto adorando quest’ultima nonostante nel libro che linko ci sia uno sconcertante prologo, il cui autore fa una distinzione tra “scrittrici scrittrici” e “scrittrici scrittori” (ok).

Poi, verso le cinque del mattino, ho attaccato a leggere Gone Girl, con tutti i pregiudizi del caso su un romanzone che temevo fosse un po’ leccato, scritto a uso e consumo del film che non avrebbe tardato a farvi seguito: e invece no, niente, non c’è stata storia. L’autrice plasma in descrizioni spicce ed efficaci una lingua che per me è una seconda pelle, riesce a tenermi incollata alle pagine con una storia sorprendente e allo stesso tempo complessa, piena di risvolti profondi.

Spesso invece, quando leggo in italiano, mi devo sparare un pippone di quattrocento pagine sulle nevrosi del(la) protagonista, in attesa dell’evento esterno (magari una morte) che risolva il romanzo. O mi devo affidare a un giallo scritto bene, pregando di non trovarci troppi cliché su donne e personaggi di altre nazionalità. Datemi il tempo di smentirmi: dopo anni di anglofilia ho ricominciato da poco a leggere nella mia lingua. So che mi sono persa anche belle storie, da sempre. Il fatto è che mi chiedo quante altre storie non approdino neanche in libreria, respinte dalle case editrici per motivi molto diversi dalla loro qualità.

Non sarà anche per il mondo dell’editoria in sé? Se lo chiedeva ieri Roberta Marasco:

Il problema è che non c’è la voglia di leggere. E se è così, la colpa è anche di chi di quella voglia ci campa, che dovrebbe suscitarla, risvegliarla o crearla dal nulla e invece spesso si limita a darla per scontata e a pretendere che ci sia, che esista a priori. Ergo, la colpa è nostra, non dei lettori. Gli ignoranti, se proprio vogliamo trovarne uno, siamo noi che lavoriamo nell’editoria e che ignoriamo come farla nascere e proliferare quella voglia. La voglia di una delle cose più belle e gratificanti del mondo, quasi magica, per il modo in cui ti arricchisce e ti cura, e noi invece di farla venire la facciamo passare.

D’altronde quella editoriale è un’industria che si fonda sulle passioni di chi ci lavora, come ricorda quest’articolo, e che con questa scusa sottopaga la schiera di dipendenti che la mandano avanti: editor, correttori di bozze, lettori professionisti… Più parlo con voi che lavorate nel campo, più mi sento quasi fortunata, nei pur surreali screzi con parte della piccola editoria: quella che ti chiede soldi per i firmacopie ai festival e ti dice bugie sulla quantità di copie vendute.

Se questo è il quadro, afferma un’amica editor che ha il vizio di pagarsi l’affitto con regolarità, si finisce spesso per lavorare male: tu come editore mi dai due, tre euro l’ora? E io ti devo dedicare per forza meno tempo, meno attenzione. Poi vatti a lamentare perché i giovani rifiutano il lavoro. Ci sono “giovani” di quarant’anni che, a furia di accettare lavori pagati una miseria, hanno davanti un futuro che definire incerto è un eufemismo, oltre che un cliché.

Allora che si fa? Ci si organizza. Come questi giovani qui.

Ieri, con un amico, discutevamo dell’idea (un po’ controversa) per cui, se non troviamo la felicità dentro di noi, non la troveremo da nessuna parte. Per me, l’unico modo per non trasformare lo slogan in una trappola per dipendenti da sfruttare è prenderlo come una sfida: sapere chi siamo, sapere che siamo noi a prescindere da quanto possediamo o siamo riusciti a “fare” nella vita. Nella mia esperienza, una volta raggiunta questa consapevolezza siamo anche meno propensi ad accettare che ci trattino come bassa manovalanza, come sa bene chi si mobilita per ribellarsi a condizioni molto peggiori delle nostre.

Ecco, da privilegiata senza un affitto da pagare posso solo immaginare quanta disperazione ci sia dietro le mobilitazioni, i dibattiti interni, i “no” detti a fatica e con la paura del licenziamento: ma prevale il pensiero delle spese, della rata del mutuo, dei tanti anni persi in stage quasi gratuiti.

Non è tutto, però: come ci si aspetta che gente che legge, gente che ai libri si dedica per mestiere perché ha letto tanto, se ne stia anche con le mani in mano mentre la sfruttano?

A questo proposito, e per agganciarmi ad altre lotte a cui tengo, vi lascio con un meme che mi è piaciuto molto:

Poi dice che i libri non migliorano la vita.

 

Impasto per la pizza fatta in casa

Il sito originale è indicato nella foto (oggi WordPress non mi lascia inserire il link della pagina!).

Il Gattopardo. S’è comprato Il Gattopardo.

Il libro, dico. Gli è bastato che gli traducessi in inglese la mitologica frase di Tancredi, “Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi”, che è esattamente ciò che il mio compagno di quarantena non vuole succeda al mondo, dopo tutto questo. Per lui non c’è pericolo, per me sì.

Quello che per me non cambia, al momento, è il mio dubbio sulla scrittura. Sdraiata tra due cuscini sul mio balcone lillipuziano, mentre scopro che nel patio di sotto c’è addirittuta un baldacchino – artigianale, ma baldacchino – sto alternando la lettura di due autrici bravissime, e diverse tra loro: Elizabeth Strout e Maria Attanasio.

La prima mi parla direttamente ai nervi scoperti, agli ormoni premestruali che danzano al posto delle gambe confinate nelle pantofole rosa, sempre troppo pelose (le pantofole, dico).

La seconda l’ammiro come un gioiello prezioso, uno che, a interrogarlo, mi accorgo stupita che parla la mia lingua: vale a dire, la prima che ho imparato.

Cosa succede, infatti, quando diventi una che in italiano ci scrive per caso? Una che corteggia la Francia come il Principe Salina “corteggia la morte”, ma che da quasi vent’anni è all’Inghilterra che guarda, e ancor di più agli Stati Uniti. A quei libri che negli ambienti in cui sono cresciuta sono considerati l’unica cosa che si salva di quel paese (sempre che siano scritti da uomini, e di sinistra, o almeno ubriaconi).

Cos’è che cerco di comunicare, in quello che scrivo? Se lo chiedeva, dicevamo, questa editor, che alla lunga si è rivelata più utile di quanto credessi. Nelle mie parole inseguo un ritmo, un movimento: un’azione che definisca il personaggio più dell’inflazionata credenza, a cui non so abituarmi, che la vera parte di noi stessi si manifesta quando siamo sotto pressione. Ne siamo proprio sicuri?

E poi il linguaggio, si diceva: il mio “italiano per caso” potrebbe sapere di quella minestra sciapa che da vent’anni a questa parte abbiamo imparato a chiamare globalizzazione, e che si alimenta di merci e non di persone: delle stesse canzoni sentite dappertutto, degli stessi cibi venduti a prezzi sempre più convenienti, in riproduzioni più scialbe, o più facili da imporre dell’originale.

È questo l’italiano che uso? Quello sporcato da altre lingue e pieno di dubbi, che più di un editor si sente in dovere di addomesticare? Su WhatsApp ho scritto “massa di farina”, invece di “impasto”, perché pensavo a masa e amasar, o perché m’era venuto in mente il significato originale del termine? Finisce che la mia diventa una lingua scarna, che va per sottrazione: descrizioni rese in due frasi, intere saghe familiari accennate in un gesto.

Le autrici italiane cresciute amando le francofone (Yourcenar, Duras, Ernaux) le assaggio come facevo con certi biscotti arabi con tanto miele, nati secoli prima degli additivi, che parlano di storia, di periodi in cui un po’ di zucchero sul pane era una festa. Sono deliziose, ma il loro sapore mi è estraneo.

Preferisco gli additivi globalizzati, allora? Giammai.

Al momento, insieme a tanti e tante che hanno lasciato l’Italia per altri lidi, faccio come la protagonista del manoscritto che mi assilla da un po’: strapazzata da domande spietate, a volte inopportune, spesso doverose, m’improvviso cuoca in tempi di crisi, e cerco d’impastare in una sola ricetta tutte le parti di me.

Ma non riesco mai a trovare le dosi esatte.

Risultati immagini per anna marchesini promessi sposi    E basta con la storia della tecnologia che isola le persone, invece di unirle. Ho capito che dobbiamo lamentarci di qualsiasi cosa non ci fosse quando avevamo 15 anni, e anche a me scoccia dovermi fare strada, mentre vado al lavoro, tra automi attaccati a uno smartphone. Ma noi che viviamo all’estero dovremmo erigere un monumento… no, non a Steve Jobs, ma a Jamal del negozio di telefonia all’angolo, che ci ha venduto la prima carta Lebara.

Sostituita solo più tardi con la Sim della Orange, almeno per noi che eravamo graziati da un passaporto europeo dalla vergognosa condizione di clandestini. Tariffa Canguro Ahorro e ci siamo fatti anche il wifi, con fibra ottica magari.

WhatsApp, poi, ci ha salvato la vita: è stata la prima barriera tra noi e nostra madre quando “ci deve proprio sentire”, e ci chiama proprio mentre stiamo ritirando la baguette dalle mani della panettiera, l’euro e venti già pronto nel palmo della mano. Adesso ci mandiamo messaggi vocali, o chiediamo “posso chiamarti?” senza doverci fare prima un mutuo per lo scatto alla risposta.

Quindi sì, che sono contenta di vivere in un mondo più tecnologico, benché consapevole delle ingiustizie che questa tecnologia comporta e di quello che possiamo fare per mitigarle.

Certo mi rendo conto, e questo non mi fa piacere, che in metro tra un libro e il cellulare estraggo più facilmente il secondo, dalla mia borsa di Mary Poppins. Perché, pensavo all’inizio, il primo mi racconta una storia sola e il secondo mi racconta tutte le storie. Quelle della malattia innocua che cerco su Google, storcendo il naso tra sintomi assurdi e fotomontaggi, o dell’amico complottista convinto che Trump l’abbiano messo al potere i rettiliani (che almeno sarebbe una spiegazione plausibile).

Poi, però, mi sono accorta di fare un gran torto ai libri. Perché somigliano alla vita molto più di quanto io non voglia ammettere. Pensate a quel video in cui ci soffermiamo sulla storia principale (due adolescenti che si lasciano messaggini in biblioteca), ignorando l’inquietante sottotrama (che non vi spoilero). Quante volte succede nei libri, che ci soffermiamo sulla storia dei protagonisti ignorando quei personaggi secondari costruiti a volte meglio di loro?

Per dimostrarvi che è vero, prendo a esempio un libro che 9 su 10 odierete selvaggiamente: I promessi sposi. Ve la ricordate, Bettina? Eh, lo so, vattelapesca chi è questa, in quel guazzabuglio di personaggi. Quella morta che la madre ci mette un casino a caricare sul carro dei monatti? No, quella era Cecilia. Allora la novizia ammazzata dalla monaca di Monza, nella versione gotica thriller? Naaa, state parlando di Caterina. Fuochino per l’ “ina”.

Bettina è la ragazzetta che si apposta fuori casa di quella gattamorta di Lucia, solo per poter annunciare che è arrivato lo sposo. Poi viene addirittura incaricata di chiamare la sposa, perché sappia che per le prossime centinaia di pagine può anche depositare quella sobria pettinessa nuziale, che in testa alla Marchesini brillava a intermittenza.

Non è fantastico? Quante volte ci siamo trovati in circostanze simili, da bambini?

E da quella brevissima apparizione non possiamo derivare un mondo? I Promessi Sposi sono il romanzo di Bettina come le peripezie di Emma Bovary, nei momenti di cinismo, possono essere solo un pretesto per seguire quell’essere ignobile del farmacista, come si chiama… Homais!

Ok, lo ammetto, l’ho cercato su Google. Vedete la tecnologia? Non avrei potuto consultare la mia copia cartacea, chiusa nella biblioteca di un nonno che non c’è più, ma che mi ha lasciato tanti libri.

Non credo che si sarebbe arrabbiato troppo, nel vedermeli leggere da un ipad.

Basta che leggi, avrebbe detto.

bastian Quando seguo tante storie, è perché ho perso il filo della mia.

I romanzi che leggo, Netflix… Tutto ultimamente mi rievoca il fantasma della mia remota dipendenza dalle storie altrui, prima di carta, poi di pixel.

Premetto che non m’impasticcavo, ma quando entravo nella mia “cameretta” in paese vedevo tutti quei libri di fronte a me come altrettante porte per universi paralleli, pronti ad aprirsi a comando quando ci fosse stata un’emergenza nell’universo mio.

Come i fantasmi del Natale di uno famoso, questo mondo di storie mi prendeva e mi portava via da una vita che non tanto doveva piacermi. Per cui, invece di pensare a me, finivo per affezionarmi di più a lontane principesse, poi a ragazze perdute lawrenciane, passando per adolescenti con problemi di punteggiatura. L’ho fatto perfino coi cartoni animati, in un’epoca in cui non stava bene guardarli dopo i 13 anni. O, di nascosto a mia madre, con certe telenovelas latine che mi causavano la stessa dipendenza di recenti successi letterari un po’ più arzigogolati.

Tutto pur di non soffermarmi sulla mia, di storia. Perché? Ovvio. Perché la mia storia non ha né capo né coda. L’unica caratteristica che avrei potuto copiare da qualche testo era il narratore in prima persona, e manco onnisciente! E poi, nessuna delle vicende che mi riguardavano finiva una volta per tutte in un’ultima frase poetica. Tutto si smacchiava nei giorni, come una patacca di pizza sulla maglia bianca appena comprata. Roba che a dimenticarmene per un po’ o mi chiedevo che ci facesse ancora là, quella traccia di un incidente remoto, o mi sorprendevo a trovare la stoffa così bianca da scordarmi quasi che qualcosa, un tempo, ne avesse rovinato le pieghe.

Quando lo feci io, il cambio di scenario (andando all’estero), diedi un’altra possibilità alla mia, di storia. Non è necessario, come colpo di  scena. Diciamo che a me ha aiutato.

Mi trovai giocoforza a dare più spazio alla quotidianità da riscrivere ad altre latitudini e da riscoprire, perciò, nell’esercizio quotidiano. Quindi abbandonai un po’ i romanzi, e in un periodo storico pericoloso, per farlo: quello delle tentazioni online, sempre più insistenti, delle storie da scaricare e guardare, ascoltare, leggere dappertutto. Aspettavo solo di assaggiarle, come la lezione di Storia commestibile al gusto granatina di una favola di Rodari. E siccome intanto scoprivo la cucina indo-pakistana, nelle sue curiose varianti inglesi, mi successe un po’ anche questo: di mangiarmela, la Storia, nelle sue contaminazioni speziate.

Insomma, quando inseguo le storie è un po’ che ho perso la mia. E nun me piace, s’adda cagna’.

Infatti sono ottimista. Comincio a recuperare la buona abitudine di portarmi nella mia giornata i protagonisti di quelle altre storie. Di diventare sul serio un po’ loro, di farli entrare nel mio mondo come io entro ogni giorno, da intrusa guardona, nel loro. Allora divento la protagonista post-atomica di qualche romanzo per ragazzi che pure leggo, contenta di aver risvegliato la sua sosia assopita in me. Oppure riconosco in qualche mia vigliaccheria i suoi diretti antagonisti, che pure porto dentro.

Credo che questo sia il modo migliore di affrontare le storie altrui: portarle dentro. Sottopelle, proprio. Ti risolve la giornata.

E poi è più pratico di Kindle.