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Da preppykitchen.com

Riprendo le “trasmissioni” dopo un’estate di silenzio, in occasione di uno strano anniversario.

Nove anni fa iniziava per me un anno che sarebbe stato piacevole come una colica da patatas bravas strafritte nella peggio bettola del Raval, ma che mi avrebbe portato a essere la barzelletta che sono adesso: quella che va sempre in giro con gli ex. Due di loro sono, infatti, parte della mia famiglia allargata, quella che mi sono scelta. Perché in quell’anno che cominciava oggi, nove anni fa, ho imparato lebbbasi dell’ammore, quelle che possiamo ripetere a pappardella ma che, curiosamente, abbiamo bisogno di sperimentare per crederci davvero.

Tipo:

  • la gente non sceglie di essere attratta da noi, o da un elefante rosa se è per questo: sull’ammmore si può lavorare, ma l’attrazione iniziale, non solo fisica, c’è o non c’è. Possiamo sbatterci quanto vogliamo, ma nessuna caduta in rovesciata dall’Empire State Building, con tanto di inchino all’atterraggio, gli farà “cambiare idea”. I gusti personali non sono un’idea;
  • questo non significa che una persona possa trattarci come spazzatura. Se uno di domenica preferisce fare il bucato dei delicati a uscire con noi, fatti suoi, ma una domanda gliela farei. La risposta potrebbe essere: “Non ci posso fare niente se non vali abbastanza”. In quel caso, è consigliata la fuga senza voltarsi;
  • soprattutto, va rivalutato il concetto di “perdere tempo“.

Intendiamoci. Rinnego ora e sempre l’idea che, se una relazione finisce in una rottura, abbiamo perso tempo, e lo rinnego anche sapendo che in certe questioni (per esempio, il mio antico “desiderio di maternità”) l’idea di tempo perso non sia troppo peregrina. Ma no, non funziona così. Ed è anche anacronistico applicare alla me di nove anni fa il concetto che ho adesso di “perdita di tempo”.

Però in quell’anno simpatico che mi iniziava oggi, nove anni fa, ho iniziato a pormi un quesito che adesso si fanno in tante: quanto tempo e quante energie investiamo nell’ingrato compito di piacere a qualcun altro? Spesso, guarda un po’, il fortunato appartiene a un genere diverso dal nostro, un genere a caso che ancora oggi “tetiene il potere”, come cantava uno. In quest’anno avrei potuto svolgere bene il posgrado che invece ho concluso a malapena, e che era comunque una mezza truffa (non accettate mai questi titoletti che valgono solo nell’università che li rilascia). Oppure l’avrei mandato alle ortiche per qualcosa di più interessante, e magari remunerativo. In quel periodo mi sono comunque diplomata come insegnante di italiano, perché nella mia mentalità un po’ robotica non esistono scuse di nessun tipo all’inefficienza (un’altra cosa su cui dovremmo lavorare in paranza). Ma volete mettere se avessi avuto le energie adatte, e la testa sintonizzata sulle mie necessità? Quelle vere, dico.

Insomma, ho smesso di trovare risibile o semplificatoria la teoria per cui “mentre noi pensiamo a loro, loro dominano il mondo”.

E se sono sparita per l’estate, e in questi mesi, è stato perché mi stavo arripigliando: ho scritto un bel resoconto di quest’annetto simpatico che mi ha fatto perdere svariati chili (recuperati con gli interessi, per fortuna!) trasformandomi nella scoppiata asociale, ma tutto sommato tranquilla, che sono adesso.

Non so se riuscirò mai a pubblicare Fame, come ho chiamato il manoscritto. Ma voglio che lo leggiate, prima o poi, a costo di pubblicarmelo da sola.

Magari quello che è successo a me potrebbe farvi venire la voglia di non imitarmi.

Ogni tanto perfino io servo a qualcosa.

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mirkoSi parlava di ingredienti, ultimamente, del fatto che abbiamo l’occorrente per darci a grandi piatti, e tiriamo avanti a pasta scaldata.

Lasciamo sta metafora culinaria, che non so più come portarla avanti (oh, se volevate leggere il blog di Sartre, purtroppo siete arrivati tardi) e passiamo alle confessioni. Una volta che avrete “accettato il vostro destino”, formula poetica per dire che vi sarete decisi a essere voi, fino in fondo, una volta che sarà successo questo, comincerà la parte più scocciante: affrontare gli errori che avete fatto prima.

E che credete, che solo perché avete deciso spariscono i debiti? Che traslocate immediatamente dal cesso di casa che vi siete trovati? Che ve ne andate anzi in un’altra città, con un altro lavoro, con un’altra persona che vi faccia star meglio del campione di cazzimma che vi siete trovati per partner?

Seh, buonanotte.

Se ho imparato una cosa, sulla strada dei cambiamenti, è che la parte più irriducibile sono gli errori. Sono come le rate del televisore. Subisco ancora le conseguenze delle stronzate che ho fatto un anno fa, prima che mi decidessi a cambiare. E no, non vale, quando viene l’esattore di questo tipo di tasse, dirgli “Guardi, la persona che ha contratto questi debiti era molto diversa dalla me che sono ora, non mi sembra giusto pagare anche per i suoi errori”. Diciamo che datori di lavoro, amori sbagliati e malattie cardiache non hanno il nostro stesso senso filosofico: esigono attenzione e soluzioni immediate.

Adesso arriva la buona notizia.

Dopo averle provate tutte, per estinguere debiti e rimediare a errori, sono arrivata a questa conclusione: una volta fatto il nostro, gli errori si risolvono da soli.

O meglio, se lasciati a decantare, migliorano. Se li trattiamo coerentemente con la nostra nuova strada, se al lavoro smettiamo di fare i Fantozzi senza per questo chiudere le mani del capo in un cassetto, se evitiamo di mentire al nostro ragazzo senza per questo aspettarci una medaglia d’oro, se ci prendiamo le nostre responsabilità senza per forza mandare tutto a carte quarantotto, in qualche modo gli errori assumono una forma accettabile, piano piano trovano la loro strada per risolversi. Magari non come volevamo noi, e non tutti gli errori, eh, che ad alcuni non c’è rimedio. Ma perlopiù si risolvono.

Come spesso accade, l’idea mi è venuta nel modo più banale possibile: osservando le mèches di una conoscente molto bella che, posando per prodotti per i capelli, doveva farsi delle tinture “sbagliate”. O meglio, doveva tingersi i capelli in modo da incarnare lo stereotipo di bellezza che voleva vendere la sua azienda, invece di mantenere il suo fascino originale.

L’ultima volta che l’ho vista, invece, aveva trovato un lavoro più stabile e aveva dei capelli perfetti, un curioso mix di mèches biondicce e toni più scuri. Tranquilli, non vi faccio una lezione di shatush, basti dire che le feci i complimenti e mi rispose:

– Sì, sono mèches di un anno fa. Non le tocco da allora, si sono un po’ schiarite per il sole e intanto emerge il colore naturale.

E la mia mente malata già covava il metaforone: errori e mèches non si cancellano. Ma quello che ne facciamo, lasciandoli lì a curarsi da soli intanto che proseguiamo col cambiamento, diventa una cosa unica, una parte di noi inedita.

La “mesciata” a un certo punto si è fatta seria, ha guardato i miei, di capelli, ormai corti e senza più tracce del biondo dell’infanzia che inseguivo chimicamente, e mi ha detto:

– Mi piaci, così, sei più tu.

Già. Sarà che ho smesso di fare il più grande errore: cercare di essere lei, o una come lei.

Ho capito che provare a essere me, per una volta, è l’idea più azzeccata che mi sia venuta ultimamente.