Oggi il blog sospende le trasmissioni (leggi “le solite minchiate”) per contemplare una folla.
Quella che in queste ore si sta radunando a Rio de Janeiro per la morte di Marielle Franco, femminista, nera e anticapitalista, e pure impegnata a denunciare le violenze delle forze dell’ordine nelle favelas: è campata giusto un anno più di me, ma una così sa che le opzioni di arrivare alla vecchiaia sono scarse, e lotta lo stesso.
Guardo queste immagini perché mi ricordano un po’ la folla che si è riunita a Macerata nonostante tutto il casino istituzionale, per ribadire che antifascista e antirazzista non sono parole vuote perfino da noi (e non lo sono perfino adesso, dopo i risultati delle elezioni).
Io vorrei che ricordassero queste immagini anche coloro che denunciano i rischi reali ed evidenti di questa nostra società di massa, e dimenticano che gli stessi media che uniformano, spiano e diffondono false notizie, diffondono anche vere notizie, avvicinano gente lontana, e sì, all’occorrenza radunano folle, che non sempre sono fatte da coglioni.
È vero, uno che disegna fumetti e satelliti mi ha detto:
Diffida dal cinismo. È la via più facile. Quindi molto affollata. E nella folla, la probabilità di trovare idioti aumenta.
Mettiamola così: nelle folle (perlopiù virtuali) dei cinici, le probabilità sono altissime.
Ma avete passato ottobre a dire che la questione catalana era terribilmente semplice: succedanei civilizzati della Lega che volevano separarsi per soldi. Come facevamo a non vederlo, noi coinvolti in prima persona?
La crisi e una politica connivente hanno messo in ginocchio il paese, e la colpa è di quella percentuale minima di extracomunitari che decide di restare, invece di cercarsi nazioni europee più prospere e aperte mentalmente (anche se da un po’ è una bella gara). E non mi venite a parlare di “pericolo percepito” che è comunque un problema, o vi rigiro lo stesso benaltrismo che elargite quando si tratta di disuguaglianze di genere (che affliggono almeno metà della popolazione, che sarà mai?).
Insomma, l’Italia è alla canna del gas ma voterà di nuovo Berlusconi alleato coi fascisti, tanto che l’atroce questione del “cosa faccio per impedirlo” ha portato i miei amici a votare Bonino o PD, e me a correre al Consolato per lasciare una firma a Potere al Popolo (che poi le regole per votare all’estero fanno schifo, e a Barcellona non ci hanno neanche fatto firmare per il Senato).
Ma che davero? Visto da fuori è semplicissimo: follia collettiva.
D’altronde in Italia siamo tutti psichiatri: è subito diagnosticato come folle chi uccide le figlie o “spara ai negri” (anzi, a quest’ultimo si dovrebbe dare proprio una medaglia, vero?).
Diciamo allora che non so che fenomeno d’isteria collettiva vi abbia preso, ma lascio le indagini a John Oliver (qui sotto) e a chi dice che l’Italia legge poco e viaggia meno, quindi è facile da abbindolare e gli altri non fanno meglio…
Uh, allora vuoi vedere che le cose sono più complesse di quanto si creda?
Allora ripetiamocelo insieme. Riconosciamo anche che chi è immerso in qualcosa e chi ne è fuori hanno due prospettive diverse che si devono sempre integrare e mai scavalcare a vicenda.
Detto questo, non potendo neanche votare come vorrei, cito l’amico che ormai dieci anni fa, nel 2008, commentò:
“Ci governassero gli Unni, forse dopo cambieremo qualcosa”.
Non avrei mai pensato che un giorno sarei stata d’accordo con lui.
È il mio compleanno, mi fate un regalo? Lasciatemi sfogare!
Perché è stata una settimana movimentata per me e per l’Italia, e in questi casi pullulano le persone che nello stato spagnolo si chiamano amargados, o amargadas.
Esportate questo termine urbi et orbi! Deriva da amargo, cioè amaro, e designa una condizione dell’anima, uno stato di continua insoddisfazione, che la persona interessata tende a rovesciare a badilate sul prossimo.
Un misto tra amareggiato e acido, insomma. Ma in forma cronica.
Io credo che l’amarezza sia tipica, e perfino comprensibile, nei nostri tempi di precarietà lavorativa, discriminazioni etniche e di genere, minacce terroristiche… Il problema è quando chi ne è affetto scambia la malattia per la cura, come se scaricare i propri problemi sul mondo risolvesse anche i problemi del mondo.
Esempio. La mia improvvisa spedizione a Napoli mi ha portato ad apprezzare il Sanremo di quest’anno, a parte il tristo “omaggio alle donne” che d’altronde mi ha ricordato l’unico video brutto dei Jackal: in un paese in cui l’8 marzo significa spogliarelli, temo che manchi proprio l’ABC per ripensare le donne al di là dei figli e del lavoro domestico non retribuito.
Su Facebook però ho trovato una tizia che considerava Sanremo propaganda e i manifestanti di Macerata dei coglioni: si sentiva molto figa per questo suo “non farsi abbindolare”, poi tutto quello che ha saputo dire della questione catalana è stato “sono come la Lega“, e ho smesso di leggere. Questa qui sapeva sputare solo rabbia e frasi fatte, a un certo punto mi sono chiesta che problemi avesse e mi ha fatto davvero pena. Ovvio che è una tra i tanti.
Sono dunque costretta a ripetermi: quanto sarebbe bello se prima di buttarci anima e corpo in una causa risolvessimo i nostri problemi personali? Lo dico da femminista che ha cominciato da bimba per rabbia e continua da adulta per consapevolezza. Perché una cosa è dissentire, indignarsi, arrabbiarsi pure, e un’altra odiare, con tutte le forze e con una rabbia che acceca tutto il resto. Nel secondo caso è molto probabile che i problemi li abbiamo con noi stessi, e li sfoghiamo sulla causa che ci siamo scelti. Per questo gli psicologi dovrebbe passarli sempre la mutua! E in mancanza di quelli, un lavoro serio su se stessi porterebbe a un risultato brillante: continuare a lottare per le stesse cose, ma con l’energia di chi non ha più niente da prendere e tutto da dare.
E quando questo succede, credetemi, possiamo davvero cominciare a parlare di “giusta causa”!
Ok, lo confesso: ieri è stata una giornata complessa e innaffiata di limoncello, quindi non ho le idee lucidissime.
Però mi è successo lo stesso che in quella puntata di Black Mirror col sensore che ti ritrasmette i ricordi: solo che nel mio caso è bastata una telecamera.
Ero alla premiazione di un concorso letterario all’aeroporto di Capodichino, e dal posto comodissimo che avevo trovato non vedevo la faccia del ben noto presidente della giuria. Mi giungeva smorzata la sua voce che faceva un po’ Pino Daniele, e che a un certo punto mi era sembrata dire:
“Il racconto che ha vinto non è mica bello, ma è quello che meglio rispondeva agli scopi del concorso”.
“Ua’, a questo punto non voglio essere la vincitrice!” ho sibilato all’amico seduto al mio fianco.
Immaginerete cosa sia successo subito dopo.
A dirla tutta tutta, non avevo capito nemmeno di aver vinto: pensavo fosse tipo Miss Italia, che annunciassero prima il terzo posto. Con impeccabile aplomb mi ero avvicinata alla giuria, decisa a vedere che succedesse e agire di conseguenza. Allora mi era piombata in mano una carta d’imbarco gigante con il posto 26B, che è il tipico asiento trasero esposto a ogni perturbazione che mi assegna la Vueling.
Già che ero lì, ho chiesto al giudice indicazioni per migliorare la scrittura, e lui ha esordito con: “Ti taglio le mani!”. Promettente premessa per una bella scoperta: ero “colpevole” di scelte stilistiche suggeritemi da amici più esperti, e adottate a malincuore. Vatte a fida’ d’ ‘a gente!
Svariate ore e diversi bicchieri di limoncello dopo, ero ancora convinta di aver vinto “nonostante il mio racconto non fosse manco ‘a chiaveca”, parafrasando. Quando i potenti mezzi della tecnologia (il mio Lenovo collegato al sito di Capodichino) mi hanno riproposto il discorso del giudice, ho scoperto di non averci capito una ceppa.
Il che mi porta a pensare: quante volte non abbiamo capito una ceppa e coviamo rancore per tanto tempo? O ci resta una brutta impressione di qualcuno che in realtà era del tutto innocente.
Ho scoperto molti anni dopo che un’amica non intervenuta a una mia festa aveva subito un brutto incidente proprio quel giorno, e non me ne aveva parlato per delicatezza.
Così come è uno spasso pensare di aver fatto colpo su qualcuno per bellezza o simpatia, e scoprire che invece quella persona sta sparlando di noi.
Suppongo che l’indicazione generale sia sempre quella: inutile sprecare tempo ed energie in ricordi che non siano belli o almeno utili. Anche perché quello che capiamo noi è una parte infinitesimale di ciò che accade.
A proposito: io ancora non sto capendo cosa accada in Italia. Ma che davero uno spara per strada a persone immigrate e non è razzismo ma “il gesto di un folle”? Allora non lo fate solo col femminicidio! (Scusate il termine, eh).
Quindi mi permetto di saltare di palo in frasca (lo so, che novità) e tradurre dal catalano le conclusioni di quest’articolo, scritto da un maceratese che non ci sta a vedere la propria città utilizzata come sinonimo di una tentata strage fascista. Manifestate anche per me!
Chi davvero sta esprimendo una forte condanna dell’accaduto è l’antifascismo cittadino, con a capo il centro sociale autogestito della città, il Sisma. All’indomani dei fatti, domenica 4, ha avuto luogo una flash-mob antirazzista spontanea senza sigle politiche. Il Sisma sta lanciando anche un appello a una manifestazione nazionale a Macerata per il prossimo sabato 10 febbraio. Nel comunicato del centro sociale sull’accaduto, si evidenziano la definizione del gesto di Traini come “terrorismo fascista” e le prove della continuità ideologica rispetto al discorso politico incentrato sulla “sicurezza”, che il Sisma indica come predominante in Italia. Ovviamente troviamo l’invito a tutte le forze antifasciste del paese a partecipare alla manifestazione del 10.
Non avevo dubbi che nel piccolo gruppo maceratese che frequento a Barcellona ci fosse qualche conoscente dell’attentatore: finora era stata una gara al compagno di scuola più disagiato, con picchi che anche prima raggiungevano la tragedia. Da napoletana ipotizzo che non sia questione di un posto concreto, di una fabbrica di mostri sbattuta ogni tanto in prima pagina.
Fatto sta che a domanda “Che tipo era, a scuola?” mi è giunta la laconica risposta:
“Era l’ultimo in tutto“.
Allora la mia mente, che lavora molto per associazioni istantanee e veri e propri flash d’immagini, mi ha riproposto davanti agli occhi un altro che poi è diventato fascio. Ma non me l’ha ricordato com’è adesso, da adulto che nega l’Olocausto oppure parla di sostituzione etnica. Me l’ha fatto rivedere bambino, a scuola, con la testa sempre abbassata e l’incapacità cronica di spiccicare due parole in croce, tanto che si era parlato davanti agli altri alunni di “mandarlo da uno specialista”, con l’erronea noncuranza di chi crede che i bambini non capiscano niente.
Non tutti i bambini così finiscono a sparare alla gente per strada, ed è importante ricordarlo prima di usare nevrosi e disagi come “tana libera tutti”, se le vittime sono straniere e in tanti pensano che il carnefice abbia fatto bene, “magari avessero tutti lo stesso coraggio!”.
Io infatti vivo a contatto costante con persone che da quel disagio hanno creato nuove realtà, un po’ per culo e un po’ per tigna, e sempre da napoletana credo sia importante anche questo: ricordare che sia possibile, non sei spacciato solo perché vieni da quell’ambiente là, per quanto lo possa credere chi ha più soldi o meno accento di te.
Temo che certe realtà non ci lascino mai del tutto, così come io non sarò mai libera, né intendo esserlo, dalla “provincia denuclearizzata” in cui i figli dei professionisti finiscono nelle migliori sezioni e si ritrovano trent’anni dopo in consiglio comunale, o nelle stesse posizioni di comando occupate dai genitori.
Però riuscire a farne qualcos’altro, decidere che “noi non finiamo lì“, credo sia l’unica parte importante che possiamo giocare nella nostra esistenza.
E se c’è bisogno di chiamare più spesso “uno specialista”, per aiutarci nel processo, ben venga. Se qualcuno o qualcosa può fare la differenza tra un giovane emarginato e uno in pace, mai come oggi sappiamo che ignorare ci costa più che agire. Come abbiamo scoperto anche a Barcellona un 17 agosto, non sempre ci vuole la sfera di cristallo per capire che certi disagi non porteranno a nulla di buono.
Topolino ci ha ingannati, con le sue storie a bivi: non sempre si può scegliere quale strada prendere.