A vent’anni dovevo essere veramente insopportabile, perché dopo più di 10 anni fuori casa mia madre se lo ricorda ancora.
Ai tempi stavo scoprendo altre cucine che mi piacevano, ero un po’ stufa dei rituali domenicali partenopei e nei giorni di festa dovevo essere proprio una pittima, tra lamentarmi perché mangiavamo “sempre le stesse cose” ed esigere della pasta al forno tagliata in “cubi perfetti”, come chiamavo i blocchi compatti di quando mozzarella e pomodoro si fondevano bene.
Adesso, quando torno in paese, sono molto più tranquilla, forse perché mangio con le bacchette un giorno sì e uno no e mi cimento nella versione italianizzata di molti piatti per cui, nei paesi originali, sarei giustamente linciata o esposta al pubblico ludibrio.
Ma mia madre non deve rassegnarsi al fatto che io, per dirla in catalano, non sia più quella cacacazzo della sua bambina. E allora crea la classica profezia autoavverantesi: dà per scontato che mi arrabbierò per qualcosa, si mette sulla difensiva, una parola tira l’altra e ci azzuffiamo per davvero.
Assistono a queste battaglie all’ultima padella, costellate di eccessivi acini di sale: mio padre, che non ha mai acceso un fornello se non per farsi il caffè; mio fratello, che ogni tanto si stufa, si mette a fare una serie di diavolerie alla MasterChef (tostare il riso prima di versarlo nella pentola?!) e zittisce i miei sfottò con un risultato spettacolare, che scatena tutta una serie di bis.
“Duje parrucchiane ‘int’ a ‘na chiesa nun ponno sta’ “, motteggia puntualmente mia madre ogni volta che ci ritroviamo da sole a iniziare questa pantomima. Due parroci in una chiesa sola non ci possono stare. Ed è subito predica.
Queste piccole battaglie domestiche, che riprendiamo lietamente a ogni festa comandata, mi hanno fatto riflettere sulle dinamiche del litigio.
Perché non ho parlato a caso, di profezia che si autoavvera.
Ho imparato da tempo che non ci rassegniamo facilmente ai cambiamenti altrui, anche quando sono in meglio. È più comodo schedare qualcuno una volta per tutte, con tanto d’informazioni su come evitarne le ire e prevenirne le ripicche, piuttosto che ammettere di avere a che fare con una persona cambiata dal tempo e dalle esperienze.
Allora, a volte, riusciamo nell’intento diabolico di trasformarla nella persona di prima, quella che ci era familiare. Se mia madre, convinta che mi arrabbierò, prende per critica qualsiasi mia osservazione sull’olio della frittura, è molto facile che lei scatti e io le risponda a tono, avverando la sua tragica profezia sul mio terribile umore.
Allora, a parte questi battibecchi inoffensivi che accompagnano le nostre feste, sarebbe bello rinunciare a credere di sapere tutto di chi amiamo, solo perché, appunto, amiamo la persona in questione. Sarebbe ancora più bello accettare la sfida di guardarla sotto una luce diversa, meglio se prima di perderla irrimediabilmente, in caso di rapporti meno stabili di quelli familiari.
Infine, sarebbe davvero fantastico rivedere le nostre personali convinzioni, dalla quantità di pepe nel risotto al senso della vita, anche solo per confermarle così come sono. Ma solo dopo il sovrumano sforzo di ammettere che non sono le uniche idee possibili, e potrebbero non essere le migliori.
Due parroci in una chiesa non possono starci, ma ci chiamiamo un po’ tutti Legione, abitati da infiniti mondi, da tutte le persone che possiamo essere.
Non dimentichiamolo.
Neanche quando riusciamo finalmente a impiattare la pasta al forno in cubi perfetti.