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Ecco qui (scorrendo dal basso) le puntate precedenti.

Alcuni nomi e fatti sono stati alterati per questioni di privacy, ma le cose sono andate più o meno così.

Dove non muoiono le sirene

È il matrimonio a farmi decidere.

I futuri sposi con cui ero stata a cena dopo l’esposizione ci ospitano in costiera per le nozze, e con altri italiani a Barcellona volo fino a certe montagne a strapiombo sul mare, che fanno da sfondo al paese dello sposo.

Sono montagne del Sud Italia, brulle e perfette, fatte apposta per ridicolizzare il mio dolore che passerà, come tutte le cose umane.

Al banchetto nuziale, i piatti destinati a me fanno il giro dei tavoli. Li cedo a chiunque con la scusa della mia transizione a una dieta vegetale, ma nessuno si meraviglia troppo: è un’altra stranezza di noi “stranieri per caso”, approdati alla cerimonia con tenute improbabili e un italiano atroce. Se da fuori sembriamo un’armata Brancaleone, vestita per tutte le occasioni e per nessuna in particolare, al nostro interno le differenze geografiche si notano eccome.

Io e l’altro napoletano abbiamo insistito per offrire una “busta” consistente (che abbiamo finito per versare da soli, senza rivelarne l’importo generoso perché pareva brutto). Se ci svegliamo presto, scendiamo giù al villaggio a prendere i cornetti per gli altri, che magari preferivano solo il caffè. Io non è che mi svegli presto: in realtà non dormo affatto. Singhiozzando con la testa affondata nel cuscino, per non disturbare, riesco a chiudere gli occhi tra lo spuntare dell’alba e le sette in punto, quando suona la sveglia della mia compagna di stanza: dice che dal cellulare nuovo non sa spegnerla. E comunque lei continua a dormire come un sasso.

Al matrimonio, gli uomini del mio gruppo esibiscono cravatte sgargianti o camicie hippie, mentre noi donne sfoggiamo pagliaccetti fioriti, pantaloni lamé con lo spacco, e scarpe più o meno comode. Io sono in abitino lilla, e ho camuffato gli occhi gonfi in sfumature già minacciate dal caldo. Riuscirei quasi a mimetizzarmi con le invitate del posto, se non fosse per i capelli tagliati in una scalatura estrema, tipica di Barcellona, che addosso a me sembra un innesto malriuscito.

“Che problemi abbiamo?” mi viene da pensare a un certo punto. Non riusciamo ad appartenere a nessun posto, e ne facciamo un vanto. Le altre invitate si sono accentuate i ricci con la piastra, e i loro abiti da cerimonia occultano tacchi che toglieranno all’apertura delle danze, sostituendoli con le ballerine che nascondono sotto il tavolo.

Io non ballo, non mangio. A un certo punto mi apparto su uno scoglio, Partenope inappetente e sfatta dall’insonnia. Con gli occhi a quelle montagne logore riesco solo a piangere al cellulare con l’Amico, che non mi regge più.

“Veramente fai? Vai a goderti la festa!”.

Non ci riesco, spiego. E all’improvviso l’eco di quelle parole tra gli scogli mi paralizza. Ma è un momento: subito mi risollevo dalla mia posa di sirena spiaggiata, e mi rassetto il vestito.

Io che non riesco a fare una cosa? Inaudito, devo imparare!

Ecco che riappare l’urgenza di essere all’altezza, di coltivare un’immagine di me che non esiste ancora, ma deve esistere, o “è la fine”, anche se non so mai di cosa.

E invece è l’inizio. È marcio e sbagliato, ma è un inizio. Stasera mi va bene anche questo.

Finalmente mi giro verso quel Mediterraneo mite e aromatico, più familiare di quello che osservo dai moli odorosi di paella surgelata. Mi sono scelta una terra dove il basilico fatica ad attecchire, ma i mostri marini vivono felici, si innamorano e generano terre fertili. Forse le sirene muoiono solo in questo mare qui.

Dov’è che imparano a vivere, invece?

I festeggiamenti sono proseguiti senza di me. Su uno schermo allestito apposta per trasmettere video di amici lontani, un Bruno accaldato e quasi serio augura agli sposi di essere così felici da non crederci neanche loro.

Decido di rubargli quegli auguri, come se per una volta li avesse fatti a me.

A venerdì per il seguito!

Se vi piace ciò che scrivo, date un’occhiata al mio Sam: non glielo ricordate, ma ha vinto un premio proprio figo.

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MostHilariousWeddingCakeEver“Mariamarche’, nun me sposo cchiù”.

Il tono al telefono è quello solenne di chi sta scherzando, ma mi faccio lo stesso strada tra gli strati di afa che in paese si tagliano col coltello e gli dico:

“Ua’, non esiste proprio! Si nun te spuse tu… Voi siete una speranza per l’umanità!”.

E non sono l’unica a pensarlo, del matrimonio che mi ha vista in riva a una spiaggia dello Ionio con dei perfetti sconosciuti (particolare che non mi ha impedito di cantarci in auto, litigarci, confidarmici e piangerci assieme nei numerosi momenti di commozione collettiva). Un’impresa titanica che ha trasformato un amore adolescenziale nella scommessa di una vita (“Mariamarche’, la vita fa giri esagerati, po’ vide”) e riunito gente di tutto il mondo in un paesino tutto toni dorati e pietre antiche, che per immaginarselo basta guardare la sposa.

C’erano tutti, i parenti calabresi, i prof. spagnoli, gli amici napoletani.

E quelli di Barcellona.

Che perlopiù spiccano per la refrattarietà ad abbronzarsi. Per le attività interessanti che svolgono, sempre poco retribuite e quasi mai legate a cose triviali come figli e mutui da pagare. Per gli abiti da cerimonia creativi, compresi dei pantaloni con spacco che detteranno moda per decenni. Per il silenzio in chiesa mentre tutti recitavano il Padre Nostro (l’unica cosa che si è sentita è stata il leggero russare del mio vicino). E soprattutto, per il loro italiano: potevi sentire davvero frasi come “Certo che comprare un piso è un’inversione, specie se paghi in effettivo invece di farti l’ipoteca”. Roba che non si capisce né in Spagna né in Italia, l’itañol nella sua essenza.

Facilmente individuabili, insomma.

Poi ci sono io, infagottata nel vestito comprato un anno, 3 chili e 4 vite fa. Io che ho rovinato in un nanosecondo la sorpresa sul repertorio musicale in chiesa (“Ah, in casa c’erano dei ragazzi a provare Ovunque proteggi, di Capossela, perché?”), io che non per fare sempre la parte dell’esclusa, quella che non sta bene da nessuna parte, ma sono scesa in Calabria in un’auto napoletana, tra frittatine di maccheroni e un inaspettato Baccini cantato a squarciagola (e le donne di Napoli “capaci di ridere anche sotto l’alluvione” hanno aperto le danze di Radio Lacrima). Poi ho dormito coi barcellonesi, comprando cornetti per i coinquilini improvvisati 5 minuti prima che ci pensasse lo sposo. Ma senza presentarmi in spiaggia una notte che fosse una, sempre troppo stanca per condividere la “capa fresca” neocatalana che fa organizzare macchine per guardare l’alba, mentre il gruppo di Napoli ricorda che alloggia a un’ora dal mare (“E allora?”). E i napoletani mi sfottevano: “Sei di Barcellona, ma sempre con noi stai, no?”.

No. In realtà me ne sono stata a lungo anche sul muretto fuori al castello del banchetto nuziale, appollaiata sulle panche tra le montagne e Brasile-Italia, guardato in maxischermo dagli uomini del paese fuori al bar della piazza. A sorridere della tripla alienazione di napoletana in Calabria, barcellonese in Italia, italiana a Barcellona.

Ma questi e altri riscenzielli non erano niente, ho scoperto, rispetto alle vicende umane di chi ha voluto esserci nonostante le ferite recenti e laceranti, gente che non conosco ma che rispetto e ammiro, sentendomi un po’ scema ad aver pensato anche un momento di rinunciare.

Ma ribadisco, è merito degli sposi. Del momento in cui la sposa ha coperto l’entrata della chiesa, illuminandola col suo abito avorio, mentre lo sposo non sapeva se trattenere più l’emozione o le risate, a vederci tutti sul pizzo delle panche in un ping-pong di teste girate tra portone e altare.

Della loro storia incredibile che a raccontarla non ci credono, “Eh, sono tornati insieme da qualche anno, ma si sono conosciuti quando lo sposo teneva ancora i capelli”. E della sensazione, in loro presenza, di trovarsi di fronte all’amore come dovrebbe essere. Come è.

Perfino a Barcellona.