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Risultati immagini per funny memory loss Sto perdendo la memoria.

Dimentico quello che avevo detto fino a qualche istante prima, e non compio più le prodezze che mi erano valse la diffidenza e i tentativi di corruzione degli amici (che cercavano di comprare il mio silenzio su oscuri episodi di vent’anni prima).

E vabbe’, mi direte, l’età avanza e puoi campare senza.

Sarei anche d’accordo se non fosse per un problema: io “sono” la mia memoria. Sono “quella che ricordava tutto”. O così credevo fino a poco tempo fa.

Spesso, in epoche precoci della nostra vita, di tutte le nostre capacità cogliamo una sola caratteristica (bellezza, intelligenza, generosità) e lasciamo che “diventi” noi.

Se fossi stata una modella, tanto per buttarla sulla fantascienza, mi avrebbe mandato in crisi la prima ruga. Non bisogna essere Naomi Campbell, e nemmeno un’indossatrice, e a ben vedere nemmeno donna, per rimanerci un po’ male quando la sgamiamo guardandoci allo specchio. Però, se un volto giovane e liscio era la cosa che più apprezzavamo di noi, la prendiamo ancora peggio di altri.

Perché finiamo per identificarci con la storia di noi che ci raccontiamo.

Che succede se perdiamo la caratteristica che ci definisce?

Be’, si esce dal copione che ci siamo scritti da soli e “si recita a soggetto”!

Non tutto il male viene per nuocere: quando le condizioni che ci definivano non si verificano più, approfittiamone per confessarci di essere molto di più, di quelle. Di non essere solo un bel volto o una memoria lucida, o un grande lavoratore prossimo alla pensione, o una madre che si ritrova con i figli ormai fuori casa e “non ha più niente da fare”.

Sostituiamo un sistema di pensiero con un altro, ma stavolta ampliamo gli orizzonti: per esempio, cosa sono io, rispetto alla ragazzina che ricordava quale giacca indossasse il suo primo amico quando lo ha conosciuto?

Piuttosto che pensare a cosa NON siamo più, soffermiamoci su cosa siamo ORA.

La cosa più assurda di tutta la vicenda, sapete qual è? Che dobbiamo liberarci di chi crediamo di essere, per scoprire chi siamo.

Fare i conti con la realtà è un vizio sottovalutato.

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funny-haircuts-facebook-styleCon la mia parrucchiera mi faccio un sacco di risate. È una ragazza di Miami, originaria della Costa Rica, che quindi parla uno spagnolo eccellente ma con l’accento di Stanlio e Ollio. Scherzi a parte, è proprio brava, immune a quel taglio anni ’80 che qua a Barcellona continua a essere l’ultima sensazione.

Lei, poi, ci tiene tanto, al suo lavoro. Si studia il taglio che vuoi (se le parli dell’acconciatura di un film se la cerca su Internet) e ti racconta per filo e per segno che modifiche gli farà per adattarlo alla tua testa. Soprattutto, veniamo alle dolenti note, ti spiega cosa devi fare tu per mantenerlo bello e ben pettinato.

Messo così, un salone di parrucchiere diventa un posto niente male, per imparare a campare: la gente arriva con certi tagli in mente, che ti smascelli dalle risate. Ragazze con due peli in testa vogliono la criniera afro, che so, oppure sono di origine cinese e vogliono dei ricci fittissimi, che si mantengano intatti fino alla prossima messa in piega.

E poi, d’estate, impossibile prendere appuntamento: tutti lì a farsi qualche taglio sexy che li faccia sentire il re o la regina della Costa Brava!

Dalla mia parrucchiera imparo la differenza tra le aspettative della gente e quello che possono ottenere. Soprattutto, scopro quanto sia difficile per le persone capire che devono lavorare, per mantenersi certe cose. Pensano di comprarsi tutto il pacchetto, tutto il mese, a prezzo di una tinta e una piega.

Ma la cosa più buffa l’ho appresa qualche giorno fa, quando mi ha spiegato:

– Ci crederesti? Non sai quanta gente viene qui a dirmi: voglio fare un cambio radicale ai capelli, ma voglio solo tagliarmi le punte. Glielo devo spiegare io, che è una contraddizione in termini?

Già, è una cosa che va spiegata. È quello che dicevo a proposito del vittimismo del “capitano tutte a me”, riferito alle disgrazie, o dell’opposto “a me non succede mai”, ovviamente in riferimento alle cose belle.

Perché, in fondo, quando vogliamo fare un cambiamento, anche in qualcosa di frivolo come un taglio di capelli, si tratta di due cose: capire quanto siamo disposti a lavorarci (non ci crederete, ma la tipa della foto col taglio che ci piace, 9 su 10 ha un parrucchiere personale), e soprattutto accettare che non puoi cambiare radicalmente se non sei disposta a farlo, se non accetti di vederti diversa per un po’, se non corri il rischio di scoprire come staresti con la frangia, o con la tinta più scura, o, come ho fatto io una volta, di entrare con la chioma giallo paglierino che ti eri autoimposta per soddisfare certi standard, e uscirtene in carré, col colore che avevi abbandonato per inseguire una che non sei tu.

Insomma, la mia parrucchiera m’insegna molto di più che la prof. di filosofia del liceo. Per cambiare sul serio dobbiamo:

1) lavorarci su

2) correre rischi

3) accettare che i miracoli succedono raramente

4) nell’attesa del miracolo, metterci in gioco.

Che la panacea di tutti i mali non è sempre darci un taglio.

lancia_spezzata_914144008Vittoria di Pirro. Vi ricordate, a scuola?

È quella in cui si perde più di quanto si guadagna.

Quella che riportiamo quando dimentichiamo per cosa, esattamente, lottassimo. Quando perdiamo il senso delle cose, quel famoso nesso tra gli sforzi che facciamo e i nostri obiettivi.

Ricordo all’università le colleghe di un altro dipartimento, dottorande in carriera che perdevano la loro vita al servizio di docenti despoti, salvo poi rendersi conto che, tra crisi e riforme universitarie, le magre consolazioni che ottenevano non compensavano lo sforzo fatto. Alcune si sono rassegnate a fare altro, ritrovando se stesse. Lì ti fa strano anche chiamarla “rassegnazione”, la consapevolezza che il motivo per cui continui a fare quella cosa non sussiste più. Poi ci sono quelle che lo fanno a oltranza.

In quante storie di re, di faide tra dinastie, dal Riccardo III (e Macbeth) di Shakespeare a Trono di Spade, tutto il casino che fa il sovrano di turno per prendere il potere non compensa i vantaggi che avrà una volta sul trono?

Io tutto questo lo chiamo vittoria di Pirro. Fare i debiti per comprarsi un’auto potentissima, ma anche spendere 500 euro in trucchi di marca e creme antirughe, e scoprire che l’acquisto non copre il senso d’inadeguatezza che l’ha mosso.

A me, indovinate un po’, capitava con le relazioni. Fare carte false per convincere l’indeciso di turno che l’idea di noi insieme non fosse poi così balzana, sopportare ere geologiche di ambiguità, tonnellate di dolore, e il peso terribile dell’assenza. Quando sono riuscita nell’intento ho avuto qualche mese di gloria, di bellezza, e poi secoli di incomprensioni, di nuove assenze, tutte le pause e le riprese di qualcosa che si è fatto ingranare con la forza.

Ormai un segreto ce l’ho, per riconoscere una potenziale vittoria di Pirro, me l’ha insegnato tale Kant: è quando ciò che voglio raggiungere è un mezzo e non un fine. Quando si tratta di qualcosa che mi “serva” a sentirmi meglio, invece che un obiettivo che mi faccia piacere raggiungere di per sé.

Nelle relazioni sballate, spesso l’altra persona ci serve come un mezzo per affermare le nostre capacità seduttorie, per convincerci che riusciamo a farlo, a sedurre chi non ci vuole. Se è questo, soprattutto, a spingerci, una volta raggiunto l’obiettivo non resta granché.

E, vi assicuro, come compagno di letto, Pirro è piuttosto scomodo. Ha i piedi freddi.

Ricordo l’alcolizzato di Donne che amano troppo, di Robin Norwood, che, dopo aver trovato la classica donna-santa che l’ha aiutato nella sua riabilitazione, l’ha persa quando ormai era diventato un’altra persona, sobria, attenta, presente. La santa non aveva più niente da fare, con lui, niente da dimostrarsi. La sua vittoria di Pirro era diventata una vittoria reale, e non le andava più bene.

E qui, allora, scatta la speranza. La speranza per cui, se il nostro amore è sincero, una volta sparita la causa per cui ci accanivamo, si possa trasformare, possa diventare un sentimento più sereno e sensato, facile da portarsi appresso e da godersi in due.

Ma non dobbiamo accanirci neanche in quello.

Le migliori “battaglie” si vincono deponendo le armi e scoprendo per cosa vale la pena davvero impegnarsi.

Spoiler: per questo genere di cose (amore, benessere, serenità), non si lotta affatto. Si lavora, si spera, un po’ ci si affanna. Ma, nonostante la fama che la precede, comincio a pensare che la vita, quella che davvero vale la pena attraversare, sia una grande pacifista.