Ieri sera tornavo in auto coi miei da Napoli, dove avevo ritirato questo premio, e volevo chiudere col botto: visitare l’allummata di San Sossio! O Sosio, per i puristi: ma, nella terra in cui “babà” si pronuncia con quattro o cinque “b”, una sola “s”, e per giunta sonora, mi sembra un po’ sadica.
Il patrono della mia ridente cittadina mi aveva già omaggiato – lui a me – con due giorni di festa della pizza, grande scusa per passeggiare tra effluvi di olio e basilico, e contemplare le luminarie, insieme ai tacchi argentati delle preadolescenti di una scuola di ballo.
Ieri sera non mi restava che chiedere ai miei, carichi di pergamene e souvenir del concorso, di lasciarmi all’incrocio con il Corso, perché proseguissi a piedi nell’abito tutto volant in cui mi ero insalsicciata per l’occasione (fortuna che non metto tacchi!).
Che bello, comincia il concerto, ho pensato una volta in piazza, mentre mi facevo strada tra bambini che correvano, e qualche papà che mi guardava allibito.
E invece no: stava solo provando il suono, la vincitrice di Sanremo canta Napoli, accompagnata alla chitarra dall’artista locale che era anche l’autore della sua canzone. Peraltro provavano con una cosuccia da niente: Tu si’ ‘na cosa grande, di Modugno.
Mentre la bellissima cantante l’intonava, con una pronuncia che mi ha fatto dubitare delle sue origini siciliane, ho scoperto una cosa strana. Della piccola folla che si era assiepata davanti al palco, ero l’unica a cantarla insieme a lei.
Eppure ricordo bene i miei anziani, ormai tutti scomparsi, che alle feste di famiglia imploravano noi nipoti di togliere i Queen e mettere “le canzoni napoletane”, cioè Murolo e Aurelio Fierro. Loro sì che le intonavano, Era de maggio e Reginella (di solito preferivano il repertorio malinconico), e Mimmo Modugno, rispetto a quelle canzoni lì, era roba recente. Ma i presenti di ieri sera, compaesani di ogni età, si limitavano ad ascoltare.
Magari sono io a fare sempre la spettatrice gasata: anche nel buffet seguito alla premiazione, avevo accompagnato con entusiasmo il duetto che intonava La garota de Ipanema, e una versione molto “Elvis” di ‘O sole mio.
Però una folla intera cantava con me, tre mesi fa, in una Piazza Dante intasata dai fan del noto Alessio, chiamato a cantare all’inaugurazione di un negozio. Ero pure l’unica a non conoscere i testi!
E allora Alessio sì, e la canzone classica no?
Generazioni che cambiano, dinamiche che cambiano: cantiamo quello che ascoltiamo più spesso. O così mi sono detta.
E in fondo ci sta. Io, dopo un’infanzia passata a parlare italiano, mangiare hamburger e ascoltare musica in inglese, ho deciso a sedici anni suonati di approfondire quella parte d’identità che per certa classe media, dalle mie parti, “fa brutto” riconoscere come propria.
Da allora, come “napoletana di ritorno”, ho scoperto una piccola grande verità: se non puoi essere una cosa, la studi. E diventi più realista del re, come me che insegno regole del catalano agli autoctoni che le ignorano (e che ricambiano col catalano che si parla sul serio). O come gli europei “folgorati dall’India” che, il Giorno della Terra, suonano il sitar in tuniche bianche, mentre gli indiani passano con buste di plastica tra il pubblico per recitare un unico mantra: “cervezabeer, cervezabeer…”.
Invece, magari, i ragazzi col turbante che ieri sera si perdevano tra le bancarelle erano più napoletani di me.
È difficile da spiegare, io napoletana mi ci sono sentita tardi. A Napoli ci sono arrivata dopo, anche se ci sono sempre stata.
Però ho cantato con fiducia quel brano scritto da un pugliese, ed eseguito in quel momento da una siciliana.
Perché Napoli è generosa, mi sono detta, accoglie tutti.
Perfino i suoi.