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Bell’ e buono aggio visto ‘nu rummore, e se n’è caruto ‘o Palau…

Ok, ricomincio.

Alla fine de L’Amante di Marguerite Duras, “l’esplosione di un valzer di Chopin” fa capire alla protagonista che in fondo lei un po’ lo amava, quel signore cinese che si era appena lasciata dietro per partire.

Circa novanta anni dopo, l’esplosione di una rumba di Peret mi fa capire che ‘sta quarantena non mi ha tolto l’amore per la musica, le sorprese e le figure di…

No, scherzi a parte: tornavo a casa dopo la passeggiata serale 1×1 (un chilometro per un’ora massimo) e, all’incrocio tra via Laietana e una stradina afferente al Palau de la Música, noi passanti ci fermavamo di botto, ci facevamo due domande, non credevamo alle nostre orecchie. La qualità del suono che ci giungeva dal vicolo del teatro poteva essere quella arrangiata di un palco da festa di quartiere, oppure la registrazione era perfetta al punto di riprodurre la sensazione della folla che canta in coro El muerto vivo. Quasi quasi c’era da accontentarsi di questa eco e non andare a controllare: era inconcepibile, l’idea di uno scenario montato davanti al Palau, con il pubblico intento a cantare con la mascherina e ballare mantenendo la distanza di sicurezza!

Infatti, con la cocciutaggine che a volte farei bene a lasciare a casa, mi sono avventurata nel vicoletto con altri curiosi, e salió la verdad: il bar del Palau aveva ripreso le sue attività. Al piano terra dell’edificio c’era una sorta di fascia elastica a fare da barriera tra i clienti e il cortile in cui, fino a tre mesi prima, si affollava la gente in tenuta da sera, con un bicchiere di cava in mano. Adesso, invece, un tavolino che sembrava un banco di scuola tagliato a metà era sormontato dal sifone del vermut, e affiancato da un trespolo che reggeva il menù della serata. Sotto i due fogli zeppi di bibite, e tapas da portar via o consumare in piedi, campeggiava l’offerta mangia & bevi a quindici euro. Perfetto, ma… la musica di prima? Mi sono sporta un po’: in effetti, sul palchetto montato in un angolo di cortile alla mia sinistra, c’erano due musicisti con strumenti tipici da rumba: chitarra e cajón. Avevano però finito di suonare, e delle casse riproducevano in stereofonia un effetto simile a quello che avevo sentito poco prima: una folla intenta a godersi un’altra canzone mitica del genere rumbero. Insomma, non capivo se i due musicisti erano in pausa da tempo, e io avevo ascoltato una registrazione fin dall’inizio, oppure il casino arrivato fin sulla strada principale era stato opera della potenziale clientela che passava in mascherina, e che adesso, a ogni buon conto, chiedeva: “Ma poi tornate a suonare, sì?”. Gli interpellati sono scesi dal palco con lo sguardo rivolto a noi che eravamo dall’altra parte del trespolo col menù: sì, sì, hanno assicurato.

Allora mi sono tornate alla mente due immagini uguali e contrarie, di normalità che sfida la crisi.

Un articoletto di Zucconi, quasi vent’anni fa, descriveva un angolino centralissimo di New York, paralizzato per una mezz’ora da un allarme bomba. Credo fossimo al massimo nel 2002, e capirete, ogni zaino incustodito per strada scatenava una puntata dal vivo di Ris. Ma ormai la paura era diventata ordinaria amministrazione, e la piccola folla bloccata in attesa dei controlli sorbiva caffè lungo, chiacchierava… Certi ragazzi che tornavano dal lavoro scambiavano qualche parola con le infermiere di un vicino ospedale: qui non m’era piaciuto il “Forse si rimedia” buttato lì dall’autore dell’articolo, che s’immedesimava in quel rimorchio estemporaneo, ma ne avevo colto la connotazione di vita che prosegue al di là dell’orrore, eccetera.

Quanto alla seconda immagine che mi è balenata in mente, spero la conosciate: è quella dei ciclamini! Quasi sessant’anni fa, un certo filobus numero 75, guidato dalla penna di Gianni Rodari, aveva deciso di uscire dai binari e andarsene a zonzo nelle campagne romane, insieme al suo affollato carico di pendolari ansiosi di arrivare in tempo al lavoro. Si erano ritrovati invece ai margini di un boschetto, e avevano cominciato a litigare tra loro senza neanche scendere da quel mezzo di locomozione così indisciplinato. Era finita però che una signora, osservando bene il prato fiorito che per un giorno sostituiva cattedre, banconi e aule di tribunale, aveva adocchiato dei ciclamini, fiori che adorava e che non coglieva da tempo. Così avevano finito per scendere tutti, e allora c’era chi “adottava” una fragola, chi giocava a pallone accartocciando dei giornali, chi condivideva un panino con la frittata… finché il filobus non si era messo in testa di ripartire, e i passeggeri erano saltati su di nuovo col timore di aver fatto ormai tardissimo. E invece le lancette non s’erano spostate di un millimetro: era il 21 marzo, primo giorno di primavera, e si sa che il 21 marzo tutto è possibile.

Rodari non poteva sapere che il 21 marzo del 2020, a Barcellona, sarebbe stato impossibile godersi, mettiamo, il ramen del Grasshopper (“Il… che?”) senza dover sfruttare gli schiavi di Uber Eats, e allora noi che avevamo ancora il lusso di fare la spesa dovevamo arrangiarci con quel poco di pasta scadente che non era stato saccheggiato nei supermercati insieme alla carta igienica.

È a questo che servono la rumba e i ciclamini, e le altre esplosioni improvvise di eccezionale normalità (lo zaino di New York, va da sé, è una fortuna che non sia esploso!). Servono a ricordarci che sì, anche quando ci sembra quasi un affronto voler andare avanti, può scoppiare nell’aria un motivo che una volta ci era parso pure scontato, e che adesso, invece, salutiamo come ‘o rummore che forse (grattatevi) non avremmo più “visto”.

E allora, che volete farci? Allora tocca proprio ballare.

 

 

Peret

 

 

 

 

 

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“Ragazza!”.

Ora, quante probabilità ho che mi succeda di nuovo, di girarmi e scoprire che ce l’hanno con me?

Quindi mi sono voltata verso la parte di Sant Pere Més Baix che mi stavo lasciando alle spalle, e ho scoperto che era il cantante.

Quello che alla Festa del Marocco ci ha fatto intonare un ritornello in arabo che ho ripetuto sulla fiducia, e i Menas presenti erano entusiasti: Menores Extranjeros No Acompañados. Quelli che Vox accusa di essere il male del paese.

“Sono il futuro della Catalogna!” ha detto invece Med, presentandomeli. E mi ha spiegato, da bravo organizzatore dell’evento, che a rubare non è che l’1% di loro, ma i pregiudizi sono duri a morire.

“Ciccio, io sono di Napoli” gli ho ricordato.

I ragazzi non sapevano bene cosa intendessi, e dove fosse Napoli. Allora Med, passando all’arabo, ha pronunciato la fatidica parola: mafia. Niente, manco una criminalità “a parte” ci riconoscono. È un po’ come quando mi consigliano “una bella pizza croccante” in quel ristorante pisano, ho presente?

I ragazzi sono stati gentili: mi volevano dare due coche invece di una, e l’autrice del couscous più buono della mia vita – in opzione veg su richiesta dell’organizzazione – mi ha offerto un piatto delizioso, anche se meno abbondante di altri. Forse credeva che questa blanquita presentatasi con un vestito sopra il ginocchio avrebbe mangiato come un uccellino.

“Allora, tornate a ballare o state ancora divorando il couscous con frijoles?” scherzava il cantante, confondendo apposta il piatto maghrebino col riso e fagioli latino.

Per lui ero cilena: “¿De dónde sos?” mi ha chiesto – che poi “sos” invece di “eres” lo associo più all’Argentina, e gli argentini mi chiamano “tana“, o al massimo “tanita”. Poi ha detto che gli piaceva la tarantella.

“Tu di quanti posti sei?” ho replicato, per ricambiare.

Marocchino d’origine, ma culturalmente era “del mondo”. Più di preciso, di Sant Pere, quartiere in cui Marocco e Caribe convivono nelle stesse palazzine popolari: infatti il suo concerto comprendeva reggae, salsa, reggaeton e questi ritmi arabi i cui ritornelli imparavo a fatica. Il suo giovane pubblico, intanto, si era impossessato del microfono rimasto acceso: una ragazza con i capelli raccolti in un foulard color sabbia cantava pop arabo e latino; due Menas si alternavano, con tanto di base presa dal cellulare; un bimbo s’intrufolava ogni tanto con lo stesso rap: “Se viene la polizia la uccidiamo, se c’è una spia la accoppiamo…”.

“È tuo, questo bambino?” mi ha chiesto poi il fotografo, indicandomi il piccolo afrolatino che riprendeva il compagnello rapper (“¡Vaya canción que has cantado, loco!”).

“Magari” ho risposto, dubbiosa all’idea di riuscire a generare dei ricci così fitti, o anche la pelle caffelatte della bimba accanto a me, che chiedeva a una pallida zia di “fer un monyo” (fare uno chignon, in catalano) a una brunetta che mi pareva gitana.

“Mi è nato un figlio da quattro mesi” mi ha confessato invece il cantante, dopo avermi chiamato “ragazza” sulla strada della metro. Per questo è passato da quel micromondo arabo-caraibico all’Hospitalet charnego (che è come dire “terrone”) della sua fidanzata, che ha i genitori andalusi. Beh, è un posto tranquillo, lo confortavo io.

“Sì. Ma sai cos’è?” ha sospirato. “Lì sembra proprio di essere in Spagna!”.

E vi giuro che a Barcellona, invece, è una sensazione rara, quella di essere in un posto preciso del mondo: lo ammettono anche il resto dei catalani.

“Qui, invece, è Europa” ha concluso infatti il ragazzo.

Europa. Quella mattina ero stata alla formazione di Mediterranea Saving Humans, e avevo scoperto un’Unione Europea impotente, incapace di far fronte a invasioni solo presunte, e più che disposta ad appaltare le soluzioni a terzi, perlopiù bastardi dentro.

Intorno a noi, invece, il Sant Pere mezzo gentrificato diventava via Laietana – con le transenne di stagione fuori la Policía Nacional –  e poi Plaça Urquinaona: ma io già attraversavo il carrer Comtal, dopo aver dato due baci napoletani al “marocchino del mondo”.

Lui mi ha ricordato che sabato prossimo c’è un evento simile, con altra musica, e che ho una promessa da mantenere: a quel karaoke improvvisato dopo il concerto, uno dei ragazzi più grandi mi chiedeva di continuo di prendere il microfono, e gli ho garantito che sabato prossimo, se lui canta in arabo, anche io faccio la mia parte.

E questa è la canzone che ho da offrire all’Europa.

Image result for mariah carey fail all i want is you Ho scoperto questo maestro di canto, su YouTube, che commenta le esibizioni di famosi e meno famosi, per evidenziarne punti forti e possibili errori.

Quando si tratta degli errori, non assume quello che potremmo definire “l’atteggiamento X-Factor” tipo: “Ehi, tu, merda, come osi anche solo prendere un microfono in mano?”.

No, lui spiega cos’è successo, o almeno fa ipotesi, tecniche e dettagliate. Ci prova perfino con la rovinosa esibizione di una Mariah Carey senza voce, oppure con una concorrente di American Idol che sbatteva stivali da cowgirl mentre, a giudicare dalle urla, sembrava fare piuttosto la brutta copia di una danza indiana.

È quello che nel suo paese (e nel nostro, ma nel suo mi sa che è quasi un’ossessione) si chiama “critica costruttiva”, e credo sia qualcosa di cui davvero abbiamo bisogno, senza scivolare in un eccesso di condiscendenza.

Infatti, tra i commenti, una ragazza lo invocava come “maestro di vita”, più che di canto: l’avrebbe pagato per applicare alle sue scelte personali lo stesso metodo d’insegnamento, tutto suggerimenti e valutazioni “oggettive” dei problemi. Da qui il commento che trovo più divertente, e che traduco dall’inglese:

Io (uccido letteralmente qualcuno)

Sam: “Non ti preoccupare, semplicemente non è stata una bella giornata”.

Questo canale mi ha fatto venire voglia di dedicarmi a cose che non farò mai benissimo, per la gioia del Daily Mash, che denuncia un eccesso di arte orribile ad opera dei pensionati inglesi. Sì, cose in cui sarò sempre una dilettante, come il canto, appunto, o la poesia, o la cucina. Le avevo cominciate un po’, e poi abbandonate per due attività in cui o sono una professionista, o vorrei diventarlo: insegnare e scrivere (romanzi).

Io dico che non bisogna per forza infliggere agli altri gli scarsi risultati di qualcosa che stiamo imparando a fare solo adesso, benché abbia amici che suonano egregiamente anche se nella vita fanno i fisici teorici. In ogni caso, cominciare a fare qualcosa che sbaglieremo spesso aiuta davvero tanto con quelle che, in teoria, dovremmo azzeccare quasi sempre. Perché, ci ricorda Sam, se perfino Beyonce può avere “una brutta giornata” al lavoro, figuriamoci noi!

Non so voi, ma io avevo il terrore di sbagliare. Così tanto che, quando non ero portata in qualcosa, non mi ci applicavo proprio, per la gioia del mio prof. di chimica e biologia!

Invece, se passo per questa gogna, oltre a sentirmi più eroica di Superman e di Mario Merola, scopro aspetti di me che posso mettere a frutto in quello che mi riesce meglio.

L’altro ieri, ad esempio, ho preso una penna in mano e ho scritto una poesia piena di citazioni sfacciate, ma che mi ha fatto sentire meglio nel periodo di forte confusione e cambiamenti, nel bene e nel male, che sto attraversando.

Quindi, avete indovinato, questa sì che ve la infliggo:

Buongiorno rabbia

amica mia

mangia con me

e poi stai zitta

solo stavolta

ridi con me

perché non pianga

e non ti dica

che ti ho tradito

troppe volte

ma ti perdono.