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Image result for 'nu jeans e 'na magliettaSto cercando di capire: ‘sto caos generale, che “mi rappresenta”?

Alla lettera, proprio: che volto ha per me?

Perché ieri, a uno scambio linguistico, una giovane avvocatessa catalana mi faceva notare: “Anche in Spagna, il governo è un casino”. Ok, e che dovrebbero dire gli amici emigrati in Inghilterra? Però, riguardo la nostra telenovela parlamentare, perfino un’amica politologa, interpellata sull’autogol di Salvini, replicava: “Sarà stata la droga”.

Quindi, prima d’incontrare l’avvocatessa, cercavo un riscontro privato che avrei fissato nella memoria come esempio di questi tempi confusi e (ben poco) felici. Devo dire che non ci è voluto molto.

Un’oretta prima dello scambio linguistico, avevo abbandonato il gruppo di una pagina Facebook in fondo simpatica, di nostalgici di un momento della TV della mia infanzia, pieno di caschetti biondi, di “cunfiette” (cioè di sparatorie), di bomboli con le salsicce che si freddavano al ritmo di canzoni molto nasali.

Da piccola una coppia di zii, amanti del jazz, mi aveva detto che un giorno avrei capito cosa c’era che non andasse, in quella roba lì, e tanto tempo dopo continuo a vederci un problema solo: il possibile rinchiudercisi come se fosse l’unico mondo possibile, un ricordo nostalgico di gioventù a cui ci afferriamo citazione dopo citazione, rimpiangendo soprattutto il programma erotico che tagliava le “inquadrature sporche” (dico spesso che di Rocco ho visto sempre e solo la faccia!). Il nome somiglia molto a quello della chat del gruppo che aveva stuprato una turista inglese a Sorrento, ma il programma, che aveva parodie fantastiche, sostituiva ben altri… programmi: quelli scolastici. Infatti costituiva tutta l’educazione sessuale che fornissero alla nostra generazione – a parte qualche frettolosa spiegazione della prof. di Biologia per metterci in guardia dall’AIDS.

In ogni caso, non accuso certo quello se un amministratore della pagina, e non un utente, ha postato un meme con una presentatrice modello Barbie, capelli gialli inclusi, immortalata accanto a un tizio con una capigliatura simile, e la barba scura. Il meme, in un napoletano senza vocali, recitava: “La ragazza che mi piace” (sotto la Barbie), “La ragazza che mi chiavo” (sotto la barba). Cinquantacinque like, finché non ho smesso di contare, per una narrazione che sì, ho ascoltato in altre lingue, ma mai così pervasiva: in questi gruppi impazza la presentazione come male necessario dei “purpi”, versione ittica dei “cessi” nazionali. Ragazze considerate brutte, che i poveretti della situazione sono tenuti a portarsi a quelle serate in cui si entra solo in coppia. Anzi, come suggerisce il meme, sono addirittura “costretti a chiavarsele”, forse per prescrizione medica, o perché schiavi della loro “prorompente virilità” (scusate l’ossimoro). In tempi meno magri si sarebbero limitati ad abbatterle a colpi di sfottò, magari seguendo gli stessi standard hollywoodiani che non sarebbero generosissimi coi tanti di loro che sono alti un metro e una vigorsol, sfoggiano stempiature precoci, e hanno perlopiù il fisico estivo delle braciole tenute troppo tempo a soffriggere.

Fatto sta che qualcosa della loro educazione (in realtà, tutto) gli ha fatto credere che anche così potessero giudicare ragazze pronte ad affermare di “amare gli uomini con un po’ di pancetta”, oppure “soprattutto simpatici”, da tenere a bada con un controllo ferreo del cellulare: d’altronde, uno stipendio di commessa in certe zone può anche non superare i 600 euro, e questo passa il convento.

Credo esibisse una biondina nella foto profilo quello che, commentando il meme di cui sopra, si chiedeva sempre senza vocali: “È meglio una pecora nera, o una nera a pecora?”. O forse la biondina la vantava il tizio che gli rispondeva che lui non aveva dubbi sulla risposta, ma i sardi magari non sarebbero stati d’accordo.

Prima di uscire dal gruppo li ho invitati a sfogarsi piuttosto con una pastiera, che la torta di mele mi sembrava un po’ esterofila, oppure ad accettare una volta per tutte il noto invito di un filosofo di Gomorra.

Poi mi sono chiesta cosa m’innervosisse tanto: quella gente m’interessa? Mi sembra interessante sotto un qualunque profilo, intellettuale o fisico o almeno umoristico?

No, mi sono risposta, in realtà sticazzi.

E allora cosa mi turba dell’episodio?

Beh, che nessuno dicesse niente. Che nemmeno per il commento sulla nera a pecora e sui sardi ci fossero rimostranze di qualsiasi tipo, almeno per un quarto d’ora, e non parlo certo di un intervento dell’illuminato amministratore che aveva postato il meme iniziale. E sì, queste cose si verificano anche nelle pagine più caciare in altre lingue: ma lì, come anche in pagine nazionali con più iscritte, una persona o due finiscono per intervenire, fosse anche per denunciare un sentore di obsoleto, stantio. Immobile.

E so che eppur si muove, e meno male: sempre più spesso ci rendiamo conto che dagli anni dei cunfietti sono successe tante cose. Perlopiù brutte, secondo i più nostalgici, ma sono successe.

Godiamoci pure i caschetti biondi, anche quando i loro proprietari imbiancano bene e senza tradirsi, ma teniamo presente che da allora le tinture sono migliorate assai.

E non solo quelle.

(Il mio medley preferito di tutti i tempi, scusa Freddie)

 

 

 

 

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Il ragazzo ghanese prende il microfono e dichiara in italiano che “la sorella” ha già detto tutto su razzismo e persone nere, ma già che c’è le chiede se conosce un suo compaesano che si è ribellato a tutto questo: Kunta Kinte, ha presente?

L’attivista di Black Lives Matter, che ha chiamato il figlio Lion e ha legittimato il giamaicano come lingua accademica, sorride prima alla traduttrice e poi al ragazzo: sì, qualche volta l’ha sentito nominare…

E niente, a Torino non mi ero neanche portata il caricatore del computer, per farvi capire come va in questi giorni.

Da qui la settimana di pausa del blog, che siccome avete una vita non avrete neanche notato. Di buono c’è che ho avuto qualche giorno in più per digerire questa nuova toccata e fuga in una città che mi piace sempre di più ogni volta che ci vado.

Stavolta mi ha regalato il brivido molto “fisico” della cioccolata di Grezzo, non più solo romana, quello meno eccitante di scoprire le tracce della gentrificazione (sì, c’entra un po’ anche Grezzo), e la curiosità di decifrare la lingua franca dei conterrOnei più anziani, quando ridono in siciliano-pugliese-torinese dalle parti di Porta Palazzo.

Lì vicino c’è anche una realtà fantastica come lo Spazio Popolare Neruda, dove ho avuto il piacere di conoscere Non una di meno (mi commuovete, ragazze) e questa reverenda statunitense di origine giamaicana che ha spiegato che, se non vengono tenuti in conto i loro immaginari, i loro problemi, i loro figli che non sopravvivono a povertà&polizia, non è un femminismo per nere. E infatti alcune di loro, seguaci di Alice Walker, parlano di Womanism. Ok, ci sono le figure a cui mi aggrappavo in quell’oceano d’informazioni nuove, volti familiari del mio antico master come bell hooks o Angela Davis: Black Feminists, fiere di esserlo. Ma Ms Griffith ha specificato che “for us to own it”, perché lo facciamo davvero nostro, il movimento dev’essere inclusivo e rispettoso delle differenze, non bastano due attiviste nere messe lì per contentino, mentre le bianche della Women’s March si fanno i selfie con gli stessi agenti che minacciano vite afroamericane.

Insomma, dopo l’incontro sono andata a cena già sazia: di parole più salutari rispetto al cinismo che mi stava prendendo in questi ultimi tempi, e che benedico nei suoi risvolti più pratici, come quello di trovare soluzioni rapide ai problemi. Però so che non può nutrirmi per sempre.

Mi resta l’idea di “own it”, farlo nostro, che mi consola anche degli arrivederci del caso.

Quelli a Torino, agli amici emigrati là, al solito concorso a cui partecipo invano tutti gli anni, e al vincitore dell’anno scorso, che invece di farsi offrire il caffè ha offerto a me acqua e suggerimenti preziosi, come il suo libro di memorie familiari.

Ho salutato anche gli scorci, l’aria rarefatta che a volte brucia sulla pelle e altre fa rabbrividire dal freddo, e perfino qualche bellezza in bicicletta, o a piedi, che mi sarebbe piaciuto avere più tempo di ammirare.

Ma appunto, per “fare mio” tutto questo ho deciso di non cascarci: non è Torino o non solo, non è quella conferenza, quel morso di farinata, quel ciuffo di ricci che mi sarebbe piaciuto sfiorare, per saggiarne la consistenza. È la sensazione che devo portarmi sempre dietro: un misto di curiosità, fiducia, e perché no, di gioia, che imparo o riscopro ogni volta che questa città mi lascia con la voglia di riappropriarmi di tutto.

Perfino di me.