Mi fa paura scriverlo, ma in questi momenti critici ho il lusso di stare bene, perché ho anche l’altro lusso, che è la chiave, di fare ciò che più voglio al mondo.
Nel mio caso è scrivere, ed è un privilegio incredibile, il fatto che possa dedicarmi solo a questo. Un tipo che mi ha ispirato un certo libro sta cercando di conciliare la stesura della sua autobiografia con la necessità di mangiare: adesso proverà la strada del lavoro part-time, che gli consenta di affittare almeno una stanzetta. È una precarietà difficile da accettare, per lui che viene da un paese in cui a trent’anni hai un lavoro fisso e due figli. Ma lui ritiene ancora più difficile passare una vita ad avere qualcosa che non vuole (tipo un lavoro fisso e due figli), mentre ciò che cerca davvero è una stabilità emotiva. Decliniamoci ciò che desideriamo in termini che abbiano un senso per noi.
Fare ciò che vogliamo non dovrebbe essere un privilegio, ma ho notato che ci sono molte esperienze che, con qualche accorgimento, possiamo viverci anche senza rimandarle a quando avremo più tempo o soldi. Uno dei ragazzi senzatetto che ospitavo nei mesi scorsi è tornato in strada, nonostante le opzioni di alloggio e lavoro che gli sono state presentate (soffre di ansia, e la salute mentale non è ancora gratuita). Mi sa che non ha neanche il coraggio di chiedere l’elemosina. Però ama leggere e non ha mai smesso, nonostante tutto: lo ammiro, perché io al suo posto starei già bestemmiando in trecento lingue diverse, altro che centellinarmi Proust!
Nei limiti del possibile, dunque, dedicatevi a ciò che vi fa stare meglio, fossero anche cinque minuti di danza del ventre! (Sul serio, mi sono iscritta a una scuola online di fusion: ogni volta che alzo un piede da terra viene Archie ad azzannarmelo…). Diceva Watzlawick che il più piccolo dei cambiamenti influisce su un intero sistema.
E fare ogni giorno, almeno un po’, la più accessibile delle cose che amiamo, cambia davvero il quadro.
Lo faccio nel più classico dei modi: non dormendo.
Oddio, non è che l’insonnia mi capiti spesso, ormai: la melatonina fa miracoli! Però ci sono ancora due problemi che possono rompermi il ritmo circadiano, e pure le gonadi: l’apparecchio notturno per i denti, e il ciclo.
Per fare il botto, i due ostacoli devono combinarsi in qualche modo creativo, e deleterio per la mia salute mentale.
Quanto all’apparecchio per i denti: ricordate quando lo andai a ritirare in pieno lockdown, dopo trentadue giorni che me ne restavo tappata in casa? Avevo lasciato il compito di fare la spesa al compagno di quarantena, che al contrario di me aveva sempre l’urgenza di uscire. Quindi, dopo un mese passato ad attaccarmi come una cozza ai miei manoscritti (e al Kobo), me n’ero uscita vestita da marziana, con tanto di guanti di plastica e mascherina regalata da un vicino: mi aspettavo scenari da 28 giorni dopo! Invece mi ero ritrovata davanti stormi di uccelli installati in pianta stabile in plaça Urquinaona, e certi palazzi che, da vuoti, sembravano ancora più grandi.
“Mi raccomando” mi aveva poi ordinato il dentista da sotto la mascherina “il primo anno ti metti l’apparecchio ogni notte. Dal secondo in poi, l’importante è la costanza“.
Ricordatevi bene ‘sto fatto della costanza, perché io l’altra notte me l’ero scordato. Perché? Avevo un piccolo problema a fare da interferenza: certi crampi mestruali che, sul serio, sembrava che stessi per partorire in una notte sola tutto il mio odio. Verso chi? Beh, verso:
la ricerca: se fossero gli uomini la maggioranza mestruante, sarebbe già in commercio un’anestesia locale portatile che ti addormenta la zona per due settimane, premestruo compreso;
la ginecologia, che ancora nel 2021 consiglia il magnesio o l’impacco caldo (rimedi che, per usare un tecnicismo, me chiavo ‘nfaccia); oppure la pillola, che oltre a gonfiarmi come un pallone idrostatico ha il curioso effetto di farmi guardare anche Kim Rossi Stuart (che come sapete è mio marito) con la stessa libido con cui osserverei un piatto di broccoli scaldati.
Insomma, intanto che covavo odio, e fissavo il vuoto con la panza in mano (quando le spinte allo stomaco non mi costringevano a trascinarmi in bagno), mi dicevo: “Oddio, mi sono dimenticata l’apparecchio notturno!”. Che, in quelle circostanze, sarebbe diventato una tortura che neanche i colleghi del buon diavolo Geppo, quando Satana è in forma.
Ma io stavo seguendo un regime scrupolosissimo: come da prescrizione, avevo indossato l’apparecchio ogni notte per tutto il primo anno, e da qualche mese lo facevo a notti alterne. Dunque, quella notte che stavo letteralmente con la panza in mano, stavo trasgredendo alla grande regola imposta da… Da chi? Da me.
Vi ricordate la costanza di cui parlava il dentista? Vi risulta che in qualche lingua si traduca in “una sera sì e una no”? Anche nelle riviste mediche online, gli articoli in inglese ‘mericano, che chissà perché ci risultano più autorevoli degli altri, parlano di portare l’apparecchio notturno circa tre volte a settimana. Ergo, magari due giorni di fila te li puoi anche saltare! Specie se ti ritrovi come unica invitata al grande festival dell’insonnia, che si tiene giusto in camera tua. Anzi, già che ci siamo: se l’apparecchio, piuttosto scomodo, è già efficace tre volte a settimana, perché devo aggiungerci io quella volta in più?
Ma niente, ero intrappolata nelle mie stesse regole, segno che per crearci dei bisogni inutili non serve desiderare una Mini Cooper, come scherzavo l’altra volta. Spesso vantiamo anche l’abilità di confondere il sacrificio col lavoro, e il solo fatto di consacrarci alla gettonatissima professione di Tafazzi (vedi sotto) equivale per noi a lavorare per il nostro bene.
“Eh, questo trenta me lo sono proprio meritato: ho fatto le nottate sui libri!”. Sì, ma era necessario? Nel senso, di mattina lavoravi? Se è così, massimo rispetto. Altrimenti, studiando due o tre ore al giorno per un mese, magari beccavi lo stesso voto. “Se bella vuoi apparire, un po’ devi soffrire”. A parte che la pressione estetica ha un po’ rotto, forse chi come come me odia i tacchi farebbe meglio a mettersi scarpe rasoterra e guadagnarci in sicurezza, piuttosto che camminare come se andasse sulle uova e rischiare anche di rompersi il muso.
Cosa voglio dire con tutta questa pippa mentale? Che soffrire non è un bisogno, né tantomeno un rimedio. Al massimo, in alcune circostanze, può essere un mezzo per raggiungere un fine: quello di raddrizzarmi i denti era uno sfizio che volevo togliermi da un po’, dunque l’apparecchio notturno è più che sopportabile, se ci manteniamo sulla formula “minimo sforzo, massimo risultato”. Quello che proprio non mi serve è seguire alla lettera una routine a giorni alterni che mi sono inventata io, quando un dentista vero e svariati articoli ‘mericani mi hanno fatto capire che non è necessario.
Ripetiamo insieme: il dolore innecessario non serve a un ca’. E sì che abbiamo bisogno di ribadircelo, con le nostre relazioni tossiche (davvero, cliccate sul link: è una pagina stupenda!), e le sciarpette che portiamo anche a maggio per ripararci da quella famosa malattia che esiste solo in Italia: il colpo di freddo.
Ah, le vette sublimi del sacrificio inutile: facciamone a meno, una buona volta. Lasciamole pure all’idolo qui sotto.
Ci credereste? Leggevo la data sul calendario, sapevo benissimo che fosse lunedì, e non mi rendevo conto che avrei dovuto scrivere qualcosa sul blog. Sono anni che aggiorno il blog di lunedì e di venerdì, ma stavolta questo dettaglio non mi veniva proprio in mente.
Due riflessioni al volo:
il mondo è andato avanti lo stesso. Anzi, lunedì vi è venuto in mente di controllare il mio blog? Naaa. Ecco un buon promemoria per quando crediamo che ciò che facciamo freghi a qualcuno. (E vi assicuro che non lo scrivo con amarezza, ma con sollievo!)
Mi sono dimenticata del blog perché sono troppo assorbita da attività che mi piacciono un sacco!
Sì, perché, a parte i mille manoscritti che mando a concorsi e a case editrici (campa cavallo), mi sono iscritta a un sacco di corsi su Coursera: sto approfondendo le tematiche di psicologia che vi illustravo, ma in una prospettiva solo junghiana, quando avevo quella mia crisi globbbale totale che mi stava trasformando in una santona del self-help. Ora, se seguite il blog da quei tempi lì, conferitevi pure una medaglia al valore, e sappiate che ammiro la vostra tenacia. A un po’ di voi, tra l’altro, quegli appunti confusi sull’Ombra, e sul dolore che era una stanza, e sui cuori spezzati, hanno fatto più bene che male, almeno a giudicare da due o tre commenti che mi hanno commossa assai.
Insomma, per farla breve: ciò che crediamo di “dover” fare, spesso non frega a nessuno, e non cambia le sorti del mondo.
Quello che ci piace fare, invece, cambia la vita a noi, che è la cosa più importante. Poi ogni tanto, con santa pazienza e un po’ culo, migliora anche un pochetto la vita altrui.
Fate un po’ voi.
Su, vi lascio con Hegel, che ogni tanto ci azzeccava.
Buone notizie! Il guru degli esercizi psicologici ha questo sito, che, a dirvi la verità, nessuno di noi adepti/scrocconi spirituali aveva ancora visitato.
E che cavolo, già ci facciamo trovare allineati e coperti alle 10.15 di domenica mattina, al Sandwichez di Sant Antoni (ho già detto che io faccio sempre un po’ tardi?): e solo per fargli da cavie disinteressatissime per il libro che vorrebbe pubblicare! Adesso vuole che scrocchiamo pure online?
Allora lui ha avuto una bella idea: l’esercizio di fine anno l’ha postato proprio sul blog, così dovevamo proprio andare a controllare. E che esercizio!
Sì, è la solita lista di bilanci & propositi di anno nuovo, ma con in più due dettagli “a cazzimma”: la voce “bilanci” dev’essere proprio un elenco di obiettivi raggiunti, e da stilare in cinque lunghi minuti; la questione “propositi”, invece, è tassonomica al massimo, nel senso che il tedescun naturalizzato inglese ci chiede proprio stime, tempistiche, e scadenze.
Vuoi andare a fare quella visita da zia Genzianella per chiederle un prestito? Scrivimi la data esatta in cui andrai, oppure, se proprio hai strizza, specifica entro che mese.
Io, per esempio, mi sono data fino a marzo per sistemare i due-tre manoscritti con cui cazzeggio da un annetto a questa parte, e dedicarmi finalmente al best seller che rivoluzionerà la letteratura mondiale! Aspettate seduti, mi raccomando. Anche se il guru, per sicurezza, ha preteso che alla data limite delle nostre imprese aggiungessimo un messaggino per noi stessi in quel giorno: roba tipo “Ueue’, a che stiamo? Guarda che l’impegno, ormai, l’hai preso…!”.
Insomma, Nightmare Before New Year. Però questa doccia fredda di buonsenso e meri calcoli mi ha fatto bene!
Per esempio, ho scoperto che l’elenco degli obiettivi raggiunti non è mica male, e scommetto che capiterà lo stesso anche a voi! Non fate il mio errore di misurare unicamente i successi evidenti (successi, po’): nel mio caso i libri pubblicati, cioè zero, visto che il romanzo nuovo mi è slittato da novembre di quest’anno ad aprile 2020. Invece, l’anno in cui sono tornata a vivere da sola è stato pieno di sorprese e novità. Di processi avviati o continuati, di quelli che fanno poca scena, ma funzionano e, alla lunga, portano a risultati tangibili.
Il fatto è che, con la filosofia diffusa del mainagioia, quando una gioia ci capita sul serio la vediamo tardi, e la facciamo passare sotto silenzio: ok, l’associazione espatriata si è rivelata un covo di fighetti, ma andandomene ho ereditato un paio di amiche interessanti, viaggiatrici, curiose di tutto. Ho pure avuto la conferma che, più che buttarmi in marmaglioni accomunati da qualcosa di molto blando (vivere all’estero, tipo), preferisco condividere passioni e interessi, come scrivere e svolgere strani esercizi psicologici…
E ben vengano le applicazioni che propiziano questo genere di attività! Infatti ho disinstallato le app d’incontri in tempi che, almeno in un caso, arrivano al record di tre minuti d’orologio: a me non piaceva nessuno, e come over 35 con più titoli universitari non rientravo negli standard femminili dell’app, rimasti più o meno all’Inquisizione spagnola. Per fortuna, ormai, non ci serve niente: come si diceva, “A volte ritornano”, in barba ai due sfigati che hanno scritto La verità è che non gli piaci abbastanza. Con buona pace del fan club dell’uomo cacciatore (grazie, sono vegana), a volte le scuse di uno per non farsi avanti sono più complesse, e una mano tesa da parte nostra fa tutta la differenza tra il chiedersi “come sarebbe stato” e scoprirlo ogni giorno, pure in questa distanza forzata che io chiamo follia collettiva, e altri feste di Natale.
Sì, insomma, se quel mascalzone di un guru mi perseguita pure da lontano con i suoi bilanci, mi porto questo, di proposito, nell’anno che verrà: quando ci tengo, tocca farmi avanti.
Cominciare le cose.
Ce ne sono alcune che, dopo la spinta iniziale, arrivano da sé.
Oh, alla fine l’ananas dell’altra volta, sparato a caso su abiti altrimenti carini, serviva a riassumere questo: spesso m’illudo che qualcosa mi stia andando bene, e alla fine non è così.
Una sensazione familiare, vero?
Adesso in Italia lo chiamano #mainagioia!
Allora vi faccio una domanda: cosa succede quando già vi preparate a una bella delusione… e vi accorgete che stavolta non vi tocca?
Perché non tutti la prendono bene, eh.
Nel giro di due settimane sono riuscita a farmi insultare sui social sia da un papà che ha figliato per maternità surrogata, che da un giovane vegano. Perché? Beh, perché ero dalla parte di entrambi! E loro proprio non riuscivano a crederci.
Nel primo caso, argomentavo che una cosa sia battersi contro le mafie che controllano la maternità surrogata, e un’altra “insegnare a campare”, per esempio, alla moglie di un marine, che decide di dedicarsi a quello con la stessa “libertà” con cui decidiamo di lavorare in un call center per otto ore, e pagarci l’affitto vendendo cose inutili. Che aveva capito, il papà, di tutto questo? Che io volevo “insegnare a campare” alle mogli dei marines! Ammetto che il mio spagnolo non sia perfetto, ma posso ipotizzare che il babbino caro non fosse proprio un fulmine di guerra? O magari era così abituato agli slogan categorici di altre commentatrici, che ha infilato anche me nel calderone!
Nel secondo caso, provavo a smontare il cliché sui vegani salutisti con l’argomento più potente che avessi: la mia dieta! Infatti odio frutta e insalata, e mangiavo un sacco di pasta fino a cinque minuti fa (e in questi cinque minuti ho perso quasi due taglie, insieme a qualsiasi traccia di tette ancora riscontrabile sul mio corpo!). Ma niente, quello se ne esce con: “Come si permette lei di giudicarci? È vegana, per caso?”. Sì, coglione, è questo il punto! E capisco che l’Italia se ne cade di filosofi che ti muovono critiche del calibro di “Slurp, bistecca!”, ma il fuoco amico anche no, eh.
Vabbe’.
Un esempio più ameno dell’ostinazione a non accettare “una gioia ogni tanto” è quello di un’amica che, a proposito della sua nuova fiamma, mi faceva un discorso che Antonio Albanese aveva già previsto dieci anni prima:
“Ho il terrore di essermi innamorata di lui. Quindi dobbiamo chiuderla qui prima che la nostra storia si trasformi in sofferenza… Lo so, sembro egoista, vero?”.
Per la verità, in quel caso appoggiavo il commento finale di Albanese/Epifanio: “Ma che sei scema, oh?”.
Alla fine eravamo solo gggiovani, tutte e due. Perché anche io, quanto a pippe mentali, non scherzavo mica. Che ne so, ero a un passo dal realizzare il sogno d’ammmore dei vent’anni? Meglio spararmi qualcosa come undici anni a Barcellona, e mi sa che ci rimango addirittura! Oppure, nella prima casa di cui fossi “titolare” e non coinquilina semplice (il che, nel regno del subaffitto, è un passo gigante per l’umanità…), osservavo un compagno d’università crollato sul divano dopo il pranzetto d’inaugurazione, e mi dicevo: “Tutto qui? Dovrei essere più contenta, per quanto mi sono sbattuta ad arrivarci…”.
E a questo punto, miei due lettori e mezzo, avrete indovinato anche dove voglio andare a parare: niente ci andrà veramente bene, se non gli diamo il permesso! Se non ci diamo il permesso.
Con questo non voglio mettere pressione sulle vittime di sfiga cronica. Il fatto è che, dopo anni passati con la sindrome del gabbiano Jonathan Livingstone, siamo proprio fissati con l’idea che non sia possibile trovare… una gioia, appunto, o almeno una connessione estemporanea con qualcun altro.
Eppure, vivere nello stesso pianeta a rischio, e con lo stesso tipo di pollice, ogni tanto unisce più del comune odio per la pizza all’ananas, che comunque mi sembra un’ottima base da cui ripartire! Molto più della rabbia che siamo costretti a nutrire per l’aspirante genocida di turno.
Visto? Da qualunque parte la si guardi, l’ananas c’entra sempre.
(Buoni primi quarant’anni a una tizia che una gioia non ce l’aveva manco per sbaglio! Tant’è vero che è morta a trentaquattro…)
Avete presente la storia per cui ci accorgiamo dell’aria solo quando ci manca?
Ecco, ieri mi sono accorta di avere le tette – almeno quella sinistra – quando ci è piombata sopra una porticina di legno massello. Le stelle che ho visto sono state per me la prova più lampante di essere provvista sul serio di questa parte anatomica!
Quando già era o amato o detestato – come una certa adolescente svedese su cui ci stiamo scatenando anche in Italia – Roberto Saviano raccontò in TV la storia di un tizio in gulag, che si fece non so quanti giorni di reclusione ai limiti della sopravvivenza: non aveva acconsentito a “dare la sua anima” a un carceriere. L’aneddoto, che non riesco a ritrovare, si chiudeva col tipo che sospirava: “E io che neanche sapevo di avercela, un’anima”.
Che combinazione! Io non sapevo di avere una tetta sinistra. Finché non ci si è schiantata sopra una porticina di quelle che si schiudono tirando un piccolo manico in alto: come una cretina l’avevo aperta solo a metà.
E mentre mi massaggiavo, jastemmando in napoletano, mi sono resa conto una volta di più dell’ingratitudine che ho nutrito verso questa parte del mio corpo, che da adolescente accusavo di non rientrare negli standard del mio contesto d’origine (dove, più che la coppa di champagne, si predilige con convinzione il proverbiale secchiello), e che credevo ormai ridotta a leggenda metropolitana adesso che non sto mangiando più come un bufalo (e qual è la prima cosa a sparire, in questi casi?!).
A quanto pare, tuttavia, non è svanita abbastanza per non “stroppiarsi”, come avrebbe detto mia nonna, di fronte a questa mannaia inaspettata, che mi ha punita per l’errore in cui cado sempre: per accorgermi di quello che ho, mi serve sempre un promemoria, fosse anche doloroso.
Ditemi la verità: non starete facendo lo stesso errore?
Io sono un disastro soprattutto con le cose che riesco a ottenere, piuttosto che quelle che mi ritrovo (o meno) in dotazione per default.
Per esempio, non vi sto a dire quanto ho studiato negli ultimi anni della laurea in Lettere – anche perché ero un po’ in ritardo con gli esami; però a ventidue anni, quando i voti contavano molto per vincere la borsa Erasmus, ho guardato ipnotizzata l’impiegato di banca che mi faceva frusciare davanti tutti quei bigliettoni, e ho sussurrato all’amico che mi accompagnava:
“Questo che vedi è l’equivalente di un anno e mezzo sui libri”.
Mai convertire un pezzo dei tuoi vent’anni in carta stampata! Ma il mio amico aveva passato lo stesso periodo in modalità cicala (e se io ero la formica, stava proprio fresco!), così è rimasto impressionato dal fatto che la mia scarsa vita sociale avesse avuto quegli esiti pecuniari.
Di recente, al compleanno della libreria italiana, ho discusso con una mia coetanea di progetti accantonati, o in forse. “E hai già pubblicato qualcosa?” mi ha chiesto lei, quando le ho spiegato che scrivessi. Allora, con mia somma sorpresa, ho sbirciato sugli scaffali alla mia destra e scovato subito il libro col mio nome in copertina, che ho mostrato con la noncuranza un po’ eccessiva di chi suggerisce: “Tranquilla, adesso non devi anche comprarlo. L’importante è averlo qui”.
Sì, perché quel mucchietto di carta col mio nome sopra mi dimostrava che questi anni passati a fare scelte strane, e tanti sbagli, hanno prodotto un risultato. Di “carta stampata”, come per l’Erasmus, anche se ahimè i due tipi di stampa non sempre vanno insieme…
E voi cosa state sottovalutando, di quello che avete ottenuto? O, semplicemente, di quello che avete.
Foto di Bruna Orlandi sulla pagina di Non una di meno – Milano
Ok, oggi è primo aprile e potrei fare battute gustosissime sul governo che ha smesso di essere “cafone”, come si dice adesso, sull’Italia che si sveglia gay-friendly, e sull’articolo che dimostra che le donne guadagnano esattamente quanto gli uomini… Ma lo faranno altri meglio di me e, quanto all’ultimo punto, gli articoli così abbondano anche gli altri giorni dell’anno (qualcuno spiegasse a questi come funziona il primo aprile).
Quindi, permettetemi piuttosto di dirvi che l’universo, o il karma, o forse proprio la vicinanza delle elezioni a Barcellona – che è l’ipotesi più probabile – hanno risposto a una mia domanda spinosa: “Perché invece di andare avanti andiamo indietro?”.
Si pone il problema anche questo signore sulle condizioni della scienza oggi:
Insomma, gli scienziati perdono terreno, e sono costretti a difendere quelle questioni che si credevano ormai “pacifiche” da qualche secolo a questa parte.
Vi ricordano qualcuno? Qualcuno che manifestava l’altro giorno a Verona? Qualcuno che è dovuto passare dalla lotta per le “famiglie arcobaleno” a difendere quello che resta della possibilità di abortire?
Ecco: perdiamo terreno, e difendiamo palmo a palmo quello che credevamo scontato. Perché si ha un bel dire, ma chère Simone De Beauvoir, che non dobbiamo mai dare per scontati i diritti, ma a un certo punto pensiamo che siano così elementari che… No, eh? Fantastico.
Allora, come vedete, di fronte all’avanzata di quello che, come sommo complimento, stiamo chiamando Medioevo, succedono due cose:
il dibattito si polarizza in maniera ingiusta: chi è a favore dell’aborto non impone a chi è contro di abortire, ma non si può dire che questi ultimi ricambino il favore di “farsi gli affari loro” (semicit.);
si arretra e ci si trincera in quelle poche fortezze che credevano inespugnabili, e vi assicuro che per una studiosa di genere una metafora bellica è mortificante!
Mi chiedevo come uscire da questa storia, e ieri mi è venuta incontro una giovane politica, sulla Ronda de Sant Antoni. Tornavo avvilita dal “tutto esaurito” (giuro!) di un incontro domenicale tra due esperte nella decostruzione dell’amore romantico, dove c’era tanta di quella gente in piedi che non sentivo la voce delle relatrici: poi dite che amo Barcellona.
All’altezza del Mercat de Sant Antoni ho trovato questo padiglione con il simbolo dei Comuns, il movimento di Ada Colau. Il microfono era in mano a una ragazza che, davanti a un esercito di uomini dai capelli bianchi, diceva una cosa fantastica: bisogna andare al di là del “No passaran” (siccome parlava in catalano lo scrivo in questa lingua, per lo spagnolo vedi titolo).
Ovviamente, si parlava di Vox. La visita barcellonese del leader di questo partito, che non avrebbe sfigurato al WCF di Verona, aveva provocato due manifestazioni: una dei movimenti antifa con qualche risvolto viuuulento (ovviamente finito in prima pagina come se stessero tutti lì con la mazza ferrata), e un’altra che mi pareva più flower-power della Women’s March, con la presenza della stessa sindaca (come vi dicevo, le elezioni sono alle porte).
“Sembra che stiamo lì solo a fare resistenza” concludeva la candidata dei Comuns “che è importantissima, ma è importante anche andare più in là di questo. Abbiamo un nostro programma, una nostra agenda politica…”.
E giù a indicare gli obiettivi di tale programma, con attenzione all’uguaglianza sociale, a strategie economiche per uscire dall’impasse stipendi bassi – gentrificazione, diritti civili… Ebbene, ci credereste? Tutti quei signori anziani in ascolto, che per un pregiudizio mio temevo poco sensibili a quelle argomentazioni, hanno fatto un bell’applauso, e io li ho imitati mentre andavo via, col rischio d’inciampare di fronte a dei turisti straniti.
Perché qui non è che facciamo le vittime, lo siamo davvero, stiamo perdendo diritti. Ma secondo me dobbiamo impostarla di più su ciò che vogliamo costruire.
Vi traduco qualche passaggio da quest’articolo de La Vanguardia, fresco di oggi. Attenti a quando l’autore, Xavier Mas de Xaxàs, parla di Salvini:
C’è una profonda breccia tra ciò che pensano gli spagnoli e ciò che propongono i partiti politici, nell’imminenza delle prossime elezioni, secondo un’inchiesta elaborata da YouGov per l’European Council of Foreign Relations.
L’inchiesta, elaborata sulla base di 5.000 interviste realizzate tra gennaio e febbraio, rivela che la politica dell’identità non preoccupa troppo gli spagnoli. Rispetto all’immigrazione, per esempio, li preoccupa molto di più la gente che deve andare a lavorare in altri paesi rispetto alla gente che arriva. […]
I discorsi nazionalisti e xenofobi dei leader populisti dell’estrema destra, come nel caso di Viktor Orban in Ungheria, Matteo Salvini in Italia o Santiago Abascal, leader di Vox, in Spagna, hanno un impatto limitato nell’insieme della società. Il problema per le democrazie che permettono l’accesso al potere di queste proposte politiche è che i loro responsabili incontrano gli strumenti sufficienti a livello costituzionale e legale per stravolgere il sistema e permettere la diminuzione delle libertà e dei diritti civili della maggioranza.
Io avrei tante cose da dire sulla società che voglio, e non sono tutte utopiche. Nei prossimi mesi mi riprometto di intervistare persone che sappiano dimostrarvi che i migranti portano ricchezza e posti di lavoro, oltre ad avere quello scomodo diritto alla sopravvivenza in condizioni dignitose. Che le donne sono sprecate per lavorare gratis e sostenere così il welfare, pratica che non ci ha resi né più stabili né più felici. Che una società dove non la facciano da padroni quelli che hanno il vero potere politico (= quelli che hanno i soldi) non ci sta portando granché bene.
Quindi: continuiamo a combattere quello che temiamo, ma pensiamo anche – soprattutto – a quello che vogliamo. E proponiamolo al mondo. Hai visto mai che gli piace.