No, ma io ‘sta storia di pensare al futuro la devo spiegare meglio.
Ribadisco: pensare al futuro è la strategia più impopolare di tutte. O stiamo lì a decostruire il passato, o ci soffermiamo tutto il tempo nel presente. E infatti io, a suo tempo, mica lo chiamavo “pensare al futuro”.
L’espressione che usavo era “fare spazio”.
Pensateci: una persona che non ci azzecca più niente nella vostra vita, perché ce la tenete ancora? In virtù di quello che è stata nel passato, quando ci azzeccava eccome. E poi, sì, un po’ per il presente: per le volte in cui vi “riconoscete” un’altra volta, cioè intravedete nella vostra interazione quelle caratteristiche che vi hanno unito all’inizio. Capita anche con un lavoro indegno, una situazione che non ci fa più bene…
Mi è capitato con amici conosciuti in diversi momenti, qui a Barcellona, che per l’estrema mobilità delle persone è più emblematica, in tal senso, rispetto al mio paesone d’origine. Mi è capitato con tutor universitarie, o con fidanzati che, a ben vedere, non c’entravano più niente con me. E io mi affannavo a soprassedere, a salvare la relazione (tutte le relazioni) in nome di quello che era stata un tempo, mentre messaggi arrabbiati, o assenze ingiustificate, o inviti a eventi a cui avrei preferito la morte, infestavano il mio presente come sacchi della spazzatura che non mi decidevo mai a buttare.
Sul serio, non sapevo immaginarmi senza tutta quella monnezza: era come se quell’eventualità non fosse un futuro possibile. Perché pensare al futuro come a qualcosa di positivo, o almeno di non inquietante, è considerato una sciocchezza. Sarà una reazione a tutto quel pensiero positivo, che pure ha sfracellato le gonadi, ma nella cara vecchia Europa se non vedi tutto in chiave funesta non sei abbastanza intellettuale esistenzialista. Anche se, come dicevamo qui, piuttosto che pensare allo scenario peggiore dovremmo farci furbi e concentrarci su quello più probabile. Che poi, passi pure il pessimismo della ragione, ma dove abbiamo messo l’ottimismo della volontà? Vabbè, adesso non voglio neanche scomodare Gramsci per questo post cretino! Mi preme soltanto sottolineare che si può pensare senza troppe remore almeno a migliorare il futuro prossimo, la nostra giornata: esiste una versione della nostra giornata in cui, invece di sacrificare mezz’ora a chattare col Supercompagno che organizza eventi a casaccio… non so, ditemi voi cosa preferireste fare!
Io, quando mi capitava, sarei andata a passeggiare. Oppure avrei fatto il cambio di stagione. Oppure mi sarei spinta fino al fantomatico negozio vegano sulla Diagonal, per vedere se esisteva davvero. Qualsiasi delle tre opzioni sarebbe stata meglio di convincere il Supercompagno che investire mezzo fondo cassa in potenziali chupitos era un passo azzardato, per un evento di cui non potevamo prevedere il tasso di partecipazione (vedete? Nella vita proviamo a prevedere le cose sbagliate!).
Anzi, sapete che c’è? Il Supercompagno lo dilapidasse pure, ‘sto fondo cassa. Possibilmente, senza disturbarmi la passeggiata.
Questo, per me, significa fare spazio. Concepire una vita in cui quella persona o quella situazione siano considerate a tutti gli effetti la palla al piede che sono diventate, così che, una volta avvistato l’elefante nella stanza, ci sia dato di fare altro. E immaginatevelo bene, questo “altro” che potreste fare: nove su dieci, vi sarà difficile almeno all’inizio, perché non vi volete “illudere”. Beh, smettere di vederla come un’illusione è il primo passo per far sì che succeda.
Perché qua non si tratta di visualizzarci con in mano il biglietto vincitore dell’Euro Million, in modo da vincere davvero (principio reale del pensiero positivo!). Si tratta di immaginare cinque minuti per noi, senza interferenze del passato, in attesa che diventino dieci minuti, poi mezz’ora, poi una vita.
Se non ci riconoscono più, buon segno. Noi lo sforzo di cambiare l’abbiamo fatto.
Un intellettuale esistenzialista in azione!