Ma solo a me vengono le crisi esistenziali, quando mi sveglio nel cuore della notte?
Lasciamo perdere quella volta a Firenze, che aprendo gli occhi avevo visto il Duomo dalla finestra aperta, e mi ero alzata gridando: “I Medici! L’Inquisizione! Fuggiamo!”.
Ve l’ho raccontata, vero? Mio fratello mi sfotte ancora.
In realtà mi capita più spesso di svegliarmi e chiedermi cosa sto facendo della mia vita, una simpatica abitudine iniziata la prima volta che sono andata “fuori dai binari”: non ancora ventenne, avevo rinunciato alla relazione “dal basso” (iniziata, cioè, più o meno in tenera età) che mi avrebbe regalato una placida, immutabile esistenza al paesello.
Da allora mi sono ritrovata alle due di notte in un bagno barcellonese infestato dagli scarafaggi, o mi sono versata bicchieri d’acqua in cucine condivise con studentesse cinesi, e ancora appannate dal vapore della cena. La domanda era, è, sarà sempre: “Che sto facendo della mia vita?”.
Non c’è modo che riesca a rispondermi, nei fumi del sonno: “Esattamente quello che devo fare“. Perché ok, ci saranno cose più affini a me di altre, ma non c’è un solo cammino: ora so che anche rimanere al paesello sarebbe andato bene, a prenderla meglio. Ciò non toglie che preferisca un ambiente internazionale che ai miei tempi il mitico Jimmy il marocchino non riusciva a darmi da solo, nonostante vendesse spillette di Freddie Mercury.
Sapete però qual è la risposta che più si avvicina a lasciarmi in pace? “Sto facendo quello che voglio fare“. Nel mio caso, è scrivere. Troppo spesso ho rinunciato: sapete come funziona, vi prendete un piccolo impegno e diventa enorme, o le ore di lavoro raddoppiano come per magia, senza che lo faccia lo stipendio.
Quindi, se anche voi vi svegliate con la domanda “Che minchia sto facendo?”, provate a chiedervi: “Cosa potrei fare in alternativa?“. E visto che, come si diceva, non c’è una risposta unica, cominciamo ad ascoltarci prima di fare scelte sbagliate, e ritrovarci:
con tre figli, quando in realtà non li volevamo;
senza figli, quando avremmo voluto e potuto averne;
in paese, quando avremmo preferito vivere dall’altra parte del mondo;
dall’altra parte del mondo, quando ci bastava restare in paese, ma con più pazienza, calma e gesso.
Adesso non posso più dirlo alla me stessa di quasi venti anni fa: mi limito a rispettarne le scelte, di cui in qualche caso pago le conseguenze. Quello che posso fare quando mi sveglio di notte, prima di darci sotto di melatonina (e leggere un po’) è assicurarmi che il giorno dopo farò almeno una cosa che mi piaccia.
Lo so, ve lo dico spesso: sono preoccupata. Mi scrivete proprio in tanti.
Gente che per tentare la fortuna a Barcellona vuole lasciare l’Italia, o la Londra della Brexit e degli affitti alle stelle.
Il guaio è che quella gente sicura di trovare qui sole, Mediterraneo e prezzi bassi si vede chiedere anche 600 euro per una singola, se questa ha il matrimoniale e il bagno interno. Ci scherziamo su anche noi che già viviamo qui e più o meno sappiamo barcamenarci in questa nuova burbuja (bolla immobiliare), che ci ha spazzato via ogni eventuale progetto di abbandonare le stalattiti di un appartamento senza coibentazione per “qualcosa di meglio”. Finisce che aspettiamo con trepidazione degna di un horror la scadenza del contratto d’affitto, per vedere di quanto ce l’aumenteranno (tra i miei amici si è sfiorato il 50%).
Quello che mi preoccupa è l’epica del viaggio, e badate che la capisco. Uno scudo ci vuole, per ripararsi dalle inevitabili delusioni, per appenderci le aspettative e i buoni propositi di chi si sente piccolo e senza aiuto in una terra che non conosce.
Nei messaggi che ricevo, chi ha vent’anni si dice disposto a “fare sacrifici” (e mi tratta come sua madre, ma vabbe’). Chi ha la mia età o qualcosa in più dichiara i suoi anni insieme a un pudico “suonati” (32 suonati, 38 suonati), e ovviamente “si rimette in gioco”, o “ricomincia daccapo”. Nella costruzione delle frasi intuisco sottintesi che possono capire solo loro, compromessi che hanno raggiunto con se stessi, piani B che sono disposti a considerare “quando tutto è perduto”. Che so, finire in un paesello a un’ora e mezza da Barcellona e vivere in balia del riscaldamento dei treni regionali. Ehm, si ride per non piangere (o non vomitare: sono l’unica col mal di treno?).
L’ho scritto spesso, quello che più mi colpisce del libro Vivo altrove è che gli italiani intervistati spesso si chiedevano “come li avrebbe accolti la nuova città”. Ritornello pericoloso, perché dovremmo essere noi ad accogliere la città nella nostra vita, nella declinazione che meno ci fa male, che più ci fa crescere.
Perché va bene partire, ma nel nuovo paese ci dobbiamo restare a tutti i costi? Procurarsi il Nie è diventato un’impresa, ma ci conviene dare anche duecento euro a uno sciacallo che ci venda un precontratto? E soprattutto: siamo sicuri di aver lasciato il nostro impiego di cameriera sottopagata per lavorare dieci anni in un call center? Magari ci rallegreremo della farsa di contratto a tempo indeterminato che ci farà almeno sognare un mutuo, quasi impossibile di questi tempi. Fino al giorno in cui ci renderemo vulnerabili al licenziamento quanto un neoassunto col contratto di servizio.
Insomma, ‘sta canzone dell’emigrante non lasciamola a Mario Merola: facciamone un gioco tra noi e le note, cerchiamo “nuovi accordi e nuove scale“, come recitava una canzone della mia adolescenza. O non ci andrà bene. O torneremo indietro, più scoraggiati di come siamo partiti.
Allora se non possiamo permetterci il Gótico (che a me non piace) proviamo la periferia o, se ci sta bene, la provincia. Se per lavorare negli uffici e in certi negozi abbiamo bisogno del catalano, e impariamocelo, cacchio: per noi è più facile.
Se la solita solfa non funziona, cambiamola. Abbiamone il coraggio.
Si armonizzerà con la nostra vita finché ne seguiremo il ritmo.
E quello la Ryanair ce lo lascia ancora portare a bordo.
Anche lei, come me, si ritrova i quarant’anni più vicini dei trenta, benché non proprio dietro l’angolo, e anche lei, una volta a Barcellona, non si è fatta prendere subito da quell’entusiasmo da Carnevale eterno che rende altri espatriati un po’ difficili da tollerare. Io avevo vissuto quest’esordio “sobrio” a ventisette anni, dimostrando se ce ne fosse il bisogno che certe teorie su cosa piaccia a trenta e cosa a venti sono spesso luoghi comuni.
Può essere vero, però, che più il tempo passa e più è difficile partire, a meno che in effetti non si fugga da qualcosa come un divorzio, un tracollo economico… Lo dico per far contenti quelli che si sentono una specie di supereroi a non muoversi da dove sono nati.
Parliamoci chiaro, anche la mia amica ha ceduto a quest’affascinante retorica, infatti mi ricorda sempre che “sta ricominciando daccapo a trentasei anni suonati“, ed è subito armatura d’oro, fulmine di Pegasus, e andiamo a comandare armate di curriculum tra le aziende di copywriter sulla Diagonal.
I curriculum li aveva già tradotti almeno in spagnolo, perché se devo pensare alla cosa più saggia che abbia fatto la mia amica me ne viene in mente una sola: si è informata. E molto prima di far passare le sue tre valigie strapiene al check-in di Capodichino.
Pare la più scontata delle misure di sicurezza, e invece è l’ultima che si fa: spesso i nuovi arrivati sono troppo rapiti dal “chi la dura la vince”, e poi si sa, “il mondo è di chi se lo piglia” (ho già detto che Steve Jobs ha fatto più danni delle cavallette?).
Mi ritrovo così delle trentenni che sui social mi chiedono informazioni per insegnare italiano a Barcellona, “anche se non parlano un’acca di spagnolo”. Finiscono per stupirsi: “Ma come, non basta una laurea italiana?”. Ora, io detesto i parrucchieri che attaccano chi si taglia i capelli da sé (presente), quindi non riservo a nessuno lo stesso trattamento da professionista offesa: faccio solo notare che non si è molto competitive, se una scuola deve scegliere tra un’italiana con la laurea e un’altra con laurea, diploma d’insegnamento e documenti in regola per lavorare (sempre io). A questo punto, però, viene la carrambata: le mie interlocutrici o vogliono partire in queste condizioni dalla Germania, lasciandosi alle spalle un lavoro ben remunerato, o vengono al seguito di un compagno già assunto con un modesto stipendio locale. Il “probabilissimo” lavoro d’insegnante era per riuscire a pagare l’affitto di 80 mq a Barcellona (e qui trattengo le risate), e anche una scuola privata al figlio di tre anni, che si sa, quelle pubbliche insomma… A questo punto ricordo i 500 euro per una escola concertada, comunque più economica delle private, e non rido più: penso a questo frugoletto che una volta qui, oltre a dover imparare i pronoms febles, rischia di sciropparsi 30 metri quadri in culo ai lupi e un’iscrizione alla scuola pubblica fatta in ritardo.
La mia amica è partita da sola, ma ancora prima di rivolgersi a me ha avuto la presenza di spirito d’informarsi sui documenti e di trovare un alloggio temporaneo intanto che gira a caccia di stanze non lillipuziane, né proprio in Papuasia.
Perché il problema delle autonarrazioni non è la pretesa sacrosanta di ricominciare a trentasei, cinquanta o settanta suonati: ricordo una negoziante sessantenne che dalla Toscana voleva le trovassi un posto da cameriera! Il problema è scordarsi delle mille cose da fare per riuscirci, tappe che hanno meno a che vedere col “sudore della fronte” e più con ore di fila all’alba fuori a un commissariato, chilometri macinati coi curriculum in mano, eterne rassegne di ripostigli riciclati come stanze a 350 + spese.
Si tratta, dunque, di noia, di esercizio e della costanza di ricordare perché si sta facendo tutto questo, anche quando i perché cambiano.
Solo allora scopriamo il magnifico lusso di “ricominciare daccapo”, e ci godiamo il processo.
Mi scoccia un po’ la narrativa del “ci vuole coraggio a restare”. So che chi parte se ne costruisce spesso una uguale e contraria, stile “il mondo è di chi se lo piglia” + massima a caso di Steve Jobs. Ma questa del coraggio di chi resta sta ricorrendo un po’ troppo nelle costruzioni identitarie di collettivi che altrimenti ammiro.
Vi prevengo: mi sono chiesta se a muovere il mio fastidio non sia il senso di colpa che dicono di avere altri… “fuggitivi“. Ma non credo sia così, per due motivi.
Prima di tutto, l’Erasmus e altre esperienze all’estero mi hanno fatto costruire un’identità “transnazionale”: insomma, nostra patria è il mondo intero, per restare in tema di narrative seducenti.
E poi, credo che la cosa più utile che io possa fare, alla luce dei fatti, sia costruire ponti (altro cliché affascinante): confrontare le mie esperienze estere con quelle di chi resta. Continuo a pensarlo anche ora che mi hanno fatto sentire paranoica perché mi preoccupo della gentrificazione a Napoli (“Ma no, è il salumiere che si rifà il negozio per piacere ai turisti!”), nonostante lo sfruttamento dei lavoratori nel settore turistico e l’evidente aumento del costo della vita. D’altronde vivo in una città che, di tutte le critiche mai mosse alla sindaca, non ne ha mai avanzato nessuna contro il termine “sindaca“. So che dalle nostre parti c’è qualcuno che ancora liquida queste cose come quisquilie che distolgono dai “veri problemi”: i suoi.
Specie in tempo di elezioni, poi, alla narrativa del “se ne sono fuggiti” si alterna il “sono stati costretti a fuggire”: in un caso o in un altro, la nostra volontà di scelta va a farsi benedire. Non possiamo proprio decidere per motivi vari di voler fare una nuova esperienza altrove. Lo so, lo so, il buon vecchio Fëdor mi aveva messo in guardia sul rapporto difficile tra essere umano e libero arbitrio: ma qui si degenera.
Allora con un sorrisetto antipatico mi viene da guardare qualcuno che si senta “eroe” per il fatto di essere rimasto (o qualche eroina, che sono anche di più), e chiedere: “Neh, ma siete proprio sicuri che riuscireste a fuggire?”.
Perché non è affatto scontato, eh. È vero, la stagione a Londra e Barcellona se la fanno un sacco di diciottenni senza molti studi, che puntano subito ai lavori più umili “finché non imparano la lingua” (e, paradossalmente, dopo un po’ finiscono a parlare solo italiano nei call center).
Ma… Sicuro che riuscirebbero a restarci, fuori? E che sarebbe una fuga piacevole? Ricordo che mi avvicinavo ormai ai trenta, quando ho letto i primi messaggi disperati di coetanee in vacanza che chiedessero “come funziona la lavatrice”. E continuo a sospettare che non pochi coetanei maschi moriranno prima di scoprirlo.
Sicuro che ci andrebbe tanto di farci sfruttare dietro un bancone da qualche connazionale che approfitta della nostra scarsa padronanza della lingua locale per sottopagarci? Sicuro che ci andrà bene vedercela con agenzie e padroni di casa, e farlo in una lingua straniera? E no, lo spagnolo non è italiano con le “s” alla fine, i francesi se non arrotiamo le “r” non capiscono, e potreste diventare vecchi prima di dire l’unica frase d’inglese (o giù di lì) imparata a scuola: “the book is on the table” (io sto ancora aspettando questo momento). Spassionatamente: guardiamoci sempre Netflix coi sottotitoli in inglese, e forse non tenteremo il suicidio la nostra prima sera a Manchester.
Proviamo poi a farci degli amici che non siano quelli d’infanzia, o di scuola, o del lavoro fisso a cui avrebbe potuto aspirare nostro padre. Magari conosceremo più gente alla festa d’addio di un collega in partenza (evento frequentissimo nelle metropoli), che tra i vicini del nostro stesso palazzo.
Per non parlare delle difficoltà di “fuggire” verso una terra che, checché se ne dica, non è messa proprio benissimo, rispetto all’Italia: a Barcellona non ce la farà mammà, la nottata a Sant Cugat del Vallès per prendersi il Nie, che danno senza appuntamento solo ai primi quindici in fila. È vero che qualche mamma o papà s’iscrive di stramacchio sulle pagine d’italiani all’estero, per aiutare la prole a trovare casa anche a distanza. Ma è una parola lo stesso! La mia padrona di casa potrebbe dirmi all’improvviso, come altri proprietari nel quartiere, che devo lasciarle l’appartamento per “motivi familiari”: in tal caso, posso sospettare legittimamente che in realtà voglia affittarlo per soggiorni brevi al 50% in più del prezzo. Ormai, considerando che 1000 euro a Barcellona sono uno stipendio non disprezzabile, oltre il 50% di quanto guadagniamo serve a pagarci l’affitto.
Morale della favola: tanta gente che “fugge” non resiste tre mesi. Arriva a settembre, dopo un mese ancora non ha i documenti per lavorare e approfitta delle vacanze di Natale per tornare alla chetichella.
Spero che chi “non se la sente di fuggire” sia in grado di fare meglio!
Perché tutti quanti ci costruiamo un’autonarrazione, e l’indulgenza verso noi stessi deve sempre occuparvi un ruolo da protagonista.
Basta che non diventi un racconto consolatorio che impedisca di partire a chi starebbe meglio altrove, e di tornare a chi ha scoperto che non basta un altrove, per stare meglio.
Perché c’è un piccolo particolare da cui non riusciremo a scappare mai: il fatto che le cose, malgrado tutti i nostri sforzi, possano andarci male sia in Italia che in Papuasia citeriore.
Proviamo quindi a esercitare quel poco di scelta che abbiamo senza pregiudicarci nulla, che sia un trasferimento, un ritorno, o la sacrosanta voglia (che dovrebbe essere un diritto) di non muoverci proprio.
A volte ci vuole coraggio a partire, altre volte ce ne vuole a restare.
Un turista americano vuole aiutarmi con la valigia. L’Aerobus è appena partito da Plaça Espanya, prima tappa del viaggio che mi porterà a Parigi. Gli rispondo:
“No, thanks, they’ve just stolen my wallet”.
Mi hanno appena fregato il portafogli, con dentro i documenti per partire, e sono impassibile.
Cioè, non proprio.
È che annaspando nella borsa per riporvi il resto del biglietto appena comprato, ho capito subito che il portafogli fosse andato. Troppo voluminoso per non spiccare immediatamente tra le mie cianfrusaglie da partenza. Puntellando con il piede la valigiona che ero lì lì per stipare con le altre, do un’occhiata da lontano sul banchetto accanto all’autista.
Poi mi chiedo un istante se non sia stato il poveraccio seduto di fronte a me.
Infine capisco.
E mi verrebbe da ridere, se non fossi troppo occupata a urlare:
“Per favore, si fermi!”.
Le due spintarelle sul predellino, mentre ero in fila per il biglietto. Mi ero girata alla seconda, la zip della borsa lasciata aperta nel breve istante tra il prelievo dei 5,90 (pure le monete, avevo cercato) e un colpetto di assestamento alla valigia grande. Signora anziana, corpulenta, vestito azzurro maculato, sembrava avere difficoltà nel salire. Da brava bambina educata mi ero fatta da parte.
“Prego, dopo di lei”.
Aveva ricambiato il mio sorriso, vagamente lusingata. Come se nessuno le avesse mai dato la precedenza in vita sua.
Poi mi aveva invitato in uno spagnolo stentato a entrare per prima.
Senza seguirmi, inutile aggiungere ora.
Il mio portafogli in effetti era proprio un bel reperto da rubare: l’avevo rivestito col primo, patetico tentativo di fodera a costine fatta a uncinetto. Avevo pure sbagliato le misure, aggiunto all’ultimo momento un’appendice con le costine che andavano in un altro verso. Chissà se la ladra non stia già ridendo di me.
Anche perché non ha molto altro da fare. Il suo bottino è stato di soli 40 euro.
Va detto che l’autista ferma subito, con un compassionevole “Joooder”. Ma ancora una volta le sorti della mattinata cambiano sul predellino.
“Vacci, all’aeroporto” bisbiglia in tempo il passeggero in prima fila. “Sporgi denuncia al commissariato lì, ti danno un documento da mostrare al check-in e passi lo stesso”.
“Ma se non funziona non ho i soldi per tornare!”.
“Ma se ti ho dato 15 euro di resto!” ricorda l’autista, che magari mi aveva anche maledetto per l’esborso. E piano piano la memoria torna anche a me. La bustina col grosso dei soldi, ben nascosta nel bagaglio a mano, è intatta. Più che prudenza, era stata paura della commissione carissima che mi avrebbe inflitto la mia banca, per prelevare a Parigi.
In piedi con la valigia accanto al volante, ragiono meccanicamente. Bloccare la carta, subito. L’operatrice giusta la trovo al terzo tentativo, dopo due numeri sbagliati. Il servizio clienti di BBVA sembra avere problemi seri, ragazzi. Questa infatti, gridando al di sopra del rombo del motore, mi chiede: “Blocco anche il conto?”. Sono perplessa.
“Così nessuno va in banca a prelevare col suo documento spagnolo”, spiega.
Ah, già, nel portafogli c’era anche il Nie. Accetto riluttante proprio mentre la navetta ferma davanti all’aeroporto. Mi sono appena condannata a un mese a Parigi con un budget di 15 euro al giorno (l’ammontare dei soldi in borsa).
“A ver si hay suerte” mi saluta l’autista.
Non penso più, corro. Trovo il Commissariato. Spiego. A due poliziotte diverse, in spagnolo e in catalano. Nell’eternità che dura la trascrizione del mio verbale (ma perché ci vuole tanto?) mi organizzo: messaggio mio fratello al lavoro perché mi anticipi il versamento per la stanza, dopo la consegna delle chiavi; messaggio il mio ragazzo, in partenza anche lui, anticipandogli che al ritorno dovrà spedirmi delle cose con un corriere; messaggio l’amico avvocato che mi dovrebbe seguire la contesa con la vicina di sopra, il cui pavimento sta cadendo nel mio bagno; rassicuro l’inquilino, che ignaro di tutto vuole solo sapere quando tornerà a farsi la doccia, e lo avverto che potrebbe ricevere “entro quattro giorni lavorativi” una carta di credito per me. È subito solidale, nonostante la settimana senza docciarsi.
Ho di nuovo il tempo di pensare, e va bene. Perché sto bene. Mi hanno rassicurata subito, le poliziotte: col documento che ti facciamo riesci a partire. I soldi ce li ho e basteranno. I documenti si rifanno. Che mi manca?
Che mi mancava, più che altro.
Un motivo reale per partire. Ero assorbita da questo crollo in bagno, dall’irresponsabilità della vicina di sopra, dalle condizioni in cui devono vivere i suoi inquilini immigrati.
Adesso, invece, riuscire a partire è l’unica cosa che conta. Questo, strano a dirsi, è un passo avanti: ricordare quali sono le mie priorità.
Con quelle in mente mi metto in coda al check-in e ai controlli, sostenendo gli sguardi arrabbiati di chi scambia la mia confusione per un tentativo di saltare la fila. La gente si crede incredibilmente furba, nel sospettare che gli altri la vogliano fregare.
Io no, forse è stato questo a causarmi quest’inconveniente stupido.
Ma mi dispiace, la lezione è “Stai più attenta”, non “Smetti di fidarti”.
Perché nel casino che mi aspettava all’arrivo (pesca i soldi dalla bustina per l’RER, prendi la metro con le valigie, chiedi in francese la chiave nel bar dove te l’hanno lasciata, fatti i restanti 20 minuti a piedi…), in questo percorso a ostacoli che prima del fattaccio mi terrorizzava, mi aiutano in tanti.
“Voulez-vous que je vous aide, mademoiselle?”.
Uno mi porta la valigia per due rampe di scale. Un altro me la fa salire sulla metro, senza offendersi per la mia mano ferma sul manico accanto alla sua. Anche prima del furto, una ragazza con lo zaino mi aveva fatto affrontare senza colpo della strega le scale in salita della metro Espanya.
Senza un motivo, senza chiedermi soldi o il mio numero, senza guadagnarci nient’altro che gracias, thanks, merci.
Quando scesi dall’aereo Napoli-Manchester avevo 22 anni, e non sapevo come arrivare allo studentato in cui avrei trascorso l’Erasmus.
Agli Arrivi trovai un piccolo comitato di benvenuto per studenti: mi scambiarono per una della loro università. Così rimediai un passaggio senza capire cosa stesse succedendo.
Quando uscii dall’Aeroport del Prat di Barcellona, di anni ne avevo 27 e avevo fatto credere ai miei di avere già l’ostello prenotato. Invece presi un taxi (ignoravo l’esistenza dell’Aerobus) e mi feci portare alla stazione di Sants, da cui mi dedicai alla ricerca di ostelli.
Scrivo questo per dire che si parte sempre un po’ alla ventura, ma prima di farlo, secondo me, è meglio disporre di almeno uno dei seguenti requisiti:
un gruzzoletto per permettersi di non dormire sotto i ponti intanto che si cerca casa e lavoro (e non scattate col “grazie ar c…”, che non sapete in quanti si vantino di essere partiti con 150 euro);
la consapevolezza che, a partire senza progetti precisi, si potrebbe tornare a casa dopo pochi mesi (e la capacità di sopportarlo);
facoltativo ma importante: non essere troppo arrabbiati con l’Italia. L’incazzatura ci sta, l’odio profondo porta con sé un problema: scoprire che la rabbia è costante, sono i suoi bersagli a cambiare. Per chi ne è affetto, passare dal detestare gli italiani a fare lo stesso coi catalani è un attimo.
La questione è che, nel confronto Italia-estero, la prima gioca in svantaggio per un unico, fondamentale dettaglio: è una sola, o così crede qualcuno. Mentre l’estero, come idea astratta, ha l’unico grande vantaggio di non essere Italia.
È quindi quel luogo paradisiaco, vagamente mitologico, in cui finalmente potremo realizzarci, dire addio a raccomandazioni e familismo amorale e trovare la felicità. Lo dicono i giornali, parlandoci delle “nostre eccellenze” e sorvolando spesso su chi a 10 anni dalla partenza fa ancora lavori poco specializzati, e vive in stanze in affitto (che ci sta, se i suoi obiettivi erano quelli, ma erano quelli?).
Il problema principale di questa non-Italia? Quando finalmente diventa un posto, un indirizzo a cui bussare per una stanza, una fila in un Commissariato sempre difficile da contattare, si scopre che, contrariamente ai pronostici, viverci non è facile.
Io non so se chiamarlo selezione naturale, espressione positivista che non amo, il fenomeno per cui gente arrivata a settembre a Barcellona approfitta delle vacanze natalizie per tornarsene in Italia senza far troppo rumore. Credo sia una triste realtà che possa toccare a tutti. Ma soprattutto alle seguenti categorie:
ventenne indeciso se partire per Londra, Berlino o Barcellona, che scrive su pagine d’italiani all’estero per chiedere “se c’è lavoro anche per lui, che non parla la lingua locale”;
trentenne deluso da Londra e a caccia di sole, ma non di stipendi bassi a fronte di affitti sempre più alti. Si meraviglierà di tre fenomeni per lui inspiegabili: l’inglese qui non compensa l’assoluta ignoranza dello spagnolo; lo spagnolo non è l’italiano con le “s” alla fine; il catalano non è un dialetto;
coppia giovane che s’informa sulla vita all’estero solo dopo la partenza. Fuitina 2.0? No, “voglia di mettersi in gioco”. In un posto in cui solo per prendere il NIE ci metti due settimane quando ti va bene. Per fortuna quelli con figli al seguito tendono a informarsi prima un po’;
coppia matura che pensa di cambiar vita, ma invece d’investire il gruzzoletto accumulato in anni di lavoro malpagato viene con gli stessi piani del ventenne di cui sopra, e trent’anni di differenza: lavoretto malpagato per “imparare la lingua”. Tra i due profili, indovinate quale assumano;
professionista della gastronomia: quando gli spieghi che il prodotto ultralocale che vorrebbe esportare viene già servito almeno in due forni e tre pasticcerie, spiega che però il suo è “artigianale”. Sicuramente gli italiani in loco aspetteranno di assaggiarlo, per cambiare negozio, e gli autoctoni noteranno la differenza;
arrabbiato col mondo (vedi sopra): ci sarà sempre un paese migliore di quello in cui si trova ora. Se è in Italia anela alla Spagna, se è in Spagna alla Germania. Però, quando si rivolge a un avvocato per farsi dare una buonuscita più congrua (chissà perché lo licenziano così frequentemente) scopre che, guarda un po’, gli avvocati si pagano. Anche alla prima consulenza. Paese di parassiti, dirà sperperando il sussidio di disoccupazione, quella volta che sia riuscito a resistere abbastanza nello stesso posto per ottenerlo.
Menzione a parte per chi risponde a distanza a un annuncio per cameriere o lavapiatti, senza ancora aver fatto neanche il biglietto aereo. E spiega pure che “Se gli fanno una buona offerta lascia l’Italia e parte”. Non si capisce se quest’offerta gli debba venire prima o dopo che si faccia la fila davanti all’annuncio “cercasi”, esposto cinque minuti fa fuori al locale.
Quindi il mio non è, come può sembrare, un invito a non partire. È un invito ad accompagnare lo “Stay hungry, stay foolish” a frasi un po’ più utili per evitare pure lo “Stay sotto un ponte”.
Partite pure, se volete “mettervi in gioco”, sapendo da prima quali difficoltà troverete e giungendo alla conclusione che non vi fermeranno.
Chi è andato a vivere all’estero si sarà fatto questa domanda almeno una volta al giorno: che ci faccio qui?
Che ci faccio in un posto in cui la gente parla questa lingua che non capisco prima della terza birra, che sembra incazzata quando è contenta (e viceversa) e ha un’idea opposta alla mia di pranzo e cena?
Ok, magari non ogni giorno, ma almeno una volta alla settimana, mi sa che ve lo sarete chiesto.
Allora perché mi sentivo come se fossi la unica al mondo a provare frustrazione, confusione, smarrimento? Semplice: perché non era come me l’aspettavo.
A Manchester avevo un amico spagnolo che dopo qualche mese a provare a socializzare si chiudeva in camera a dormire alle sette di sera. O una collega sudcoreana di master che è sparita un paio di settimane, e alla seconda già sapevo cosa sarebbe successo: sarebbe arrivata una mail confidenziale della segretaria di dipartimento, ad avvertire che era tornata al suo paese. Avrebbero cercato di rimborsarle parte della retta.
Nonostante questo, mi credevo l’unica al mondo a sentirmi sola e spaesata in un posto pieno di gente che mangiasse fagioli al sugo a colazione.
Allora, siccome tra le tante cose buone là c’è lo psicologo gratis all’università, un bel giorno sono andata e ho spiegato tutti i miei problemi. Mi sono sentita rispondere seraficamente:
– That is so normal.
E mi sono ritrovata iscritta a un corso di mindfulness, meditazione “pratica”, che in quella prima occasione ho ignorato e irriso malamente (adesso, 10 anni dopo, la pratico 15 minuti al giorno).
Ok, poi in quella vecchia, sporca città, sono rimasta un paio d’anni. Ma quelli che se ne andavano, perché lo facevano?
Indovinate un po’: perché non era come se l’aspettavano. Perché credevano di avere le idee chiare su cosa dovesse significare la loro esperienza: tanti amici nuovi da tutto il mondo, sorridenti come nel dépliant dell’Erasmus, che li avrebbero subito accettati. Anche nelle stravaganze che un perfetto sconosciuto non è tenuto a comprendere.
Alcuni dei miei compagni di sventura, poi, pretendevano che niente cambiasse rispetto a casa. Che dispensare pacche sulla schiena in un posto in cui la distanza spaziale tra persone raddoppia dovesse incontrare la stessa benevolenza che a Palermo. Che la mania continua di scattare foto non fosse percepita da nessuno come sooo antisocial. Che la pasta la dovessero fare uguale che in Italia, e sta storia di mangiarsi una patata ripiena per pranzo fosse solo un errore nel menù.
Insomma, quante più aspettative si fossero fatti, meno resistevano.
Io, in un primo momento, ho covato molto rancore verso quella psicologa col capello platinato e il rossetto rosa shocking, che invece di dirmi che ero la nuova Virginia Woolf mi ha messo in posizione del loto a inspirare ed espirare al suono di una campanella. Ma col senno di poi le sono quasi grata.
Perché invece di dirmi che avevo un problema, mi ha invitato ad affrontare tutto: lo spaesamento, l’alienazione, la solitudine. E dargli la giusta importanza. Solo allora ho potuto vivere tutto il processo d’integrazione e scoprire le tante cose belle che quella città serbasse a chi sapesse guardare. Ho potuto innamorarmi, fumare shisha al gelsomino (so’ troppo tossica) e godermi un concertino con mostra per tre pounds. Farmi amici del posto che bestemmiassero in lingue conosciute solo ai Gallagher ma poi, al contrario dei colleghi Erasmus, mi chiamassero anche da sobri.
Tutte cose che non avevo previsto prima di atterrare e che, se si fossero attenute al mio rigido schema di “come avrebbe dovuto essere il mio Erasmus”, non ci sarebbero mai state.
Per questo, intanto che siamo occupati ad aspettarci cose, la vita prende il suo corso senza neanche chiederci il permesso. E se sappiamo accantonare i nostri progetti così rigidi, perché coniati lontano dalla realtà che ci aspetta, ci riserva le giuste sorprese. Tante sono negative, ma le positive non mancano.
Insomma, mentre siamo troppo occupati a controllare tutto, la vita ci sfugge di controllo per prendere il verso giusto.
Vabbuo’, io volevo farvi tutto un discorso sul passato che va lasciato alle spalle e muore Pino Daniele. Ecchecca’.
Ci provo lo stesso. Mi chiedevo come aveste passato queste feste. Mangiando panettone e giocando a carte? (Così accontento Nord e Sud). Qualcuno ha lavorato tutto il tempo e massimo rispetto, altri si sono presi una lunga vacanza.
Quelli come me, gli espatriati, avranno questa sensazione familiare di aver vissuto in una sorta di buco spazio-temporale, dormendo nella stanza in cui giocavano alle costruzioni e sentendosi interdetti alla cassa del supermercato, al momento di decidere in che lingua chiedere lo scontrino. Ma anche chi continua a vivere nel posto in cui è nato, nel rito delle feste di Natale vive giocoforza in una dimensione senza tempo, piena di ricordi e di attività sospese.
Per me è tutta salute, questo piccolo viaggio nel tempo che non ci assorbe, perché salvo qualche ovvia nostalgia sappiamo che qui non è più casa nostra, o meglio che lo sarà sempre ma il nostro presente e altrove. E allontanarci un po’ da quel presente, dalla casa in affitto che abbiamo in un altro paese, ci aiuta a vederlo meglio, a immaginarcelo, a programmarlo un po’, se vogliamo.
Le feste sono un’occasione d’oro, col cambiamento temporale che si portano in coda, per immaginare con calma e al riparo come vogliamo vivere questa nuova vita che tanto millantiamo su facebook e nella lista dei buoni propositi.
Sì, perché negli ambienti sicuri e conosciuti della nostra infanzia (un viaggio non sarebbe la stessa cosa) possiamo permetterci di cambiare occhiali, di vederci in un modo diverso, di dirci che quando torneremo alla nostra nuova casa vorremmo fare cose diverse. Di ogni tipo. Dal cambiare panettiere, che quello sotto casa è comodo ma fa pagnotte precotte, al non farci mettere più i piedi in testa da chi sappiamo noi, e smettere di dare a quella persona in particolare tutto questo potere sulla nostra vita. Tra un piatto di struffoli e una rimpatriata con gli amici abbiamo recuperato un senso di ciò che siamo, di ciò che vogliamo essere, e abbiamo scoperto che funziona anche lontano da quel contesto.
Anzi, le cose che ci preoccupano e ci angosciano nella vita di ogni giorno, viste da fuori sono quasi sempre sminuite, riprendersi i nostri occhi di bambini aiuta a vedere meglio lo scenario che ci siamo preparati da adulti. Anche le incongruenze.
E allora che facciamo, la deludiamo, la bambina che ancora si aggira tra le bambole impolverate che meditiamo seriamente di lavare?
Ok, quella voleva un castello e un principe azzurro e tutte quelle cose leziose che venivano comprese nel prezzo della casa di Barbie.
Ma su una cosa, scopriremo, siamo ancora d’accordo con lei: che dobbiamo vivere più meglio che possiamo.
E per una volta la maestra si sbagliava, a correggerla. Per una volta l’errore l’abbiamo fatto noi da adulti, a non accontentarla.
Solita trafila di nascite e morti, matrimoni, lavori trovati, qualche emigrazione. Di quelle calibrate, volte a inseguire un incarico al Nord o il posto fisso, aspettate pazientemente dormendo oltre trent’anni nella propria stanza di bambino.
Normale amministrazione, insomma.
Ma in quest’agosto curioso di città deserta di giorno e straripante di notte, di amici spariti e amici ritrovati, di presenze mute e assenze che parlano, mi capita di nuovo di vivere in un limbo in cui presente e passato si mescolano nei più strani abbinamenti.
Ecco quindi che l’altro giorno mi sono svegliata con in testa un pomeriggio di mare in cui un nonno lontano nel tempo, ma solo in quello, si fingeva illetterato per far ridere i bambini.
E, secondo un cliché caro alla mia generazione, mi identificavo ancora coi bimbi che ridevano, piuttosto che con le mamme che riponevano il thermos nella sporta da spiaggia. Anche se per la verità mi piacerebbe essere tra queste ultime.
Ma quel giorno toccava ancora il limbo di agosto e una tesina inutile da scrivere e le assenze che parlano e le presenze che tacciono.
Allora ho preso carta e penna e, tra i vaneggiamenti del flusso di coscienza, mi è uscita la parola rizoma.
Ora, confesso che sul momento non ho ricordato bene cosa fosse. In quelle frasi vomitate in fretta in una canicola assente mi dava l’idea di qualcosa di fisso e immutabile, la radice ultima che ho perso, che non ho mai affondato in una terra precisa, semmai in stanze. La stanza mia di bambina, poi la prima in affitto e tutte quelle che l’hanno seguita, e che non ho saputo chiamare mie che quando non lo erano.
E rizoma, nella mia patente ignoranza botanica, o nell’attimo in cui scrivevo, era tutto questo. Era radice fissa, ma perduta.
E invece le letture per la tesina che credevo inutile mi hanno riportato alla metafora del rizoma per Deleuze: radice che è tronco che è fusto che è radice, narrazione che può riprendere da qualsiasi punto per diventare un’entità indipendente. In un certo senso, direi, un’altra pianta.
Come gli emigranti italiani delle navi da cui non uscivi vivo, quelli che puzzavano e non sapevano scrivere, e i loro figli ora si chiamano italiani e mangiano macaroni cheese e in qualche caso votano per un paese che non hanno mai visto, che a volte non fa votare quelli che lì ci nascono.
Come noi emigranti per caso, di lusso ma non troppo, che facciamo la trafila dei paesi in cerca di un lavoro e in cerca di noi, o magari lontano da noi. Noi che ci diciamo (e spesso è vero) che non possiamo tornare per il lavoro, per la società, per la qualità della vita, anche quando magari non lo facciamo perché abbiamo perso una radice che non abbiamo mai conosciuto, riconosciuto, come nostra.
Almeno così capita a me. Che sento le mie radici portatili al sicuro tra le guglie di Barcellona e credevo di anelare a un’antica radice perduta, lasciata in qualche secchiello fluorescente del lungomare domizio.
E invece sono rizoma, sono radice che si fa fusto, fusto che si fa radice, passato che si fa presente, presente che si fa me.
Che bella figura ci facciamo, a essere vittime del destino. Vero?
La dea bendata è cieca, la sfiga ci vede benissimo, e noi vediamo a intermittenza, guarda caso quando ci conviene.
Ok, parlo per me.
Che la posizione di vittima l’ho coltivata per anni.
Quant’è nobile la figura di chi si sbatte per tutti, con gli amici, al lavoro, in coppia.
Quante perfette padrone di casa conoscete che si lamentano della scarsa collaborazione dei loro mariti? La distribuzione dei ruoli nella società è una delle tematiche che mi stanno più care, però da femminista mi chiedo: quante osano chiedere, pretendere la collaborazione maschile? Ai pranzi di Natale, dalle mie parti, ho visto spesso tutte in cucina e tutti davanti alla tele, cacciati dalla cucina se (raramente) si arrischiano a offrire aiuto. Magari con la sola padrona di casa, a meno che le ospiti non siano figlie sue, a cucinare per 20.
Ci piace, secondo me, dimostrarci di essere le sante che sopportano per tutti. Vale anche per gli uomini. E mi chiedo, se lo facciamo soprattutto per sentirci approvati, quanto ci sia di altruismo, in questo.
Ma non è l’esempio più scontato.
Quant’è bello fare la figura di chi soffre per amore, no? Di chi ha iniziato una relazione ambigua, caotica, della serie massimo risultato con minimo sforzo, ma poi si è innamorato, guarda caso non corrisposto. Ci restituisce al più classico dei copioni romantici in quella che era iniziata come la più prosaica delle scopamicizie. Che sono belle e divertenti finché tutti e due (tutti e tre, tutti e quattro…) vogliono esattamente quello. Se no, inutile domandarsi perché a un certo punto, a equivoco chiarito e non-storia dissolta, l’amato bene abbia difficoltà a rapportarsi con noi anche se cerchiamo almeno di salvare l’amicizia, o le apparenze. E ti credo, in che posizione l’abbiamo messo? Il cinico impassibile che di fronte a tanto amore, ricevuto da una personcina così speciale, proprio non risponde ai palpiti? Come se dipendesse da lui, vedi articolo corrispondente, come se non fosse cominciata in condizioni simili, come se la “voglia di sbattersi zero” (cit.) non fosse stata, inizialmente, reciproca.
E quando noi siamo dall’altra parte? Ma no, noi non siamo mai i cinici che non corrispondono. Noi siamo chiari fin dall’inizio, la dichiarazione d’intenti stile “È un momento terribile della mia vita, non posso darti certezze” è il nostro scudo per declinare ogni responsabilità. Gliel’avevamo detto. E allora perché i “te l’avevo detto” altrui non ci vanno bene?
Perché è solo paura, mi permetto d’ipotizzare ora che vengo invitata a uscire da qualcuno e mi dico “No, devo prima superare la precedente delusione”, e comunque c’è questa o quella cosa che non mi convince, nonostante sia bello, intelligente e sensibile. E mi congratulo con me stessa per “fiutare” finalmente, dall’inizio, le cose che non mi convincono, ma mi chiedo anche perché le abbia accettate, e magari le accetterei ancora, in chi invece ne aveva a josa.
E allora formulo l’ipotesi: è solo paura. Sfuggiamo alle nostre responsabilità nelle cose, al rischio di non ottenere quello che vogliamo, e allora ci chiudiamo da soli in un angolo e decidiamo di accontentarci. È un patto col diavolo per non affrontarle, le nostre paure.
Ma avete notato, come me (e Giorgio Nardone, e un’infinità di altri autori), che a evitare di affrontare le paure finiamo per incappare proprio in quello che temiamo?
Penso a una polemica a me molto vicina, tra italiani all’estero e in patria, sulla partenza dall’Italia come fuga. “Bisogna restare per cambiare le cose”. A me sembra che ci sia gente che parta per paura e gente che per paura resti. Finendo scontenta in tutti i casi. Preferisco quelli che scelgono di partire o di restare per coraggio. Il coraggio di fare ciò che vogliono. Non sto dicendo neanche di perdere i pochi soldi che avete in astrusi investimenti, magari all’estero. Solo che lasciare la via vecchia per la nuova, spesso significa passare da un fallimento che non ci siamo scelti a uno che almeno proveremo a evitare. Ed è la peggiore delle ipotesi, eh. Figuriamoci le altre!
Ho più esperienza, come si sarà notato, per dire che a evitare le delusioni d’amore si incappa proprio in quelle. Perché ci ficcano in quelle proprio le misure che prendiamo per evitarle, come fughe strategiche da relazioni “troppo dense”, o relazioni “libere” quando vogliamo un altro tipo di storia (se no oh, ribadisco, dove c’è gusto non c’è perdenza).
Quindi, mi sento di argomentare, ammantarci di vittimismo è un alibi che per il dolore che comporta ci evita anche di vederlo come tale (le scorciatoie non erano tutte comode?). Ma è un “manto” che dopo un po’ fa sentire freddo e fa anche perdere tempo.
E per tempo perso intendo tempo non impiegato a fare cose ce ci piacciano o ci “riempiano”, come si dice in spagnolo.
Allora, man mano che smetto di far cose solo per sfuggire alle mie paure o per avere l’approvazione altrui, mi sto rendendo conto che: 1) le cose che voglio, nei limiti del possibile, le ottengo; 2) divento altruista per davvero, e mai come quando divento altruista per davvero penso al mio proprio bene.
Ma di questo, se vi va, ragioneremo (magari insieme) nel prossimo articolo.