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Un po’ ve l’ho raccontata, la storia del mio sofà.

Però ci ho ripensato all’incontro di scrittura terapeutica, che come immaginerete sta proseguendo online, a partire da… ieri mattina.

Una mattina speciale, tra l’altro: un biglietto aereo datato 22 dicembre mi obbliga a ricordare che col mio compagno di quarantena festeggiamo… tre mesi, e non di quarantena. Lui ha onorato la ricorrenza spezzandosi con la forchetta i capellini nel piatto (vi giuro, se le ambulanze non servissero a ben altro…) e non cogliendo uno scherzo molto partenopeo sul fatto che, in caso mi contagiasse, gli apparirei in sogno per dargli tutti numeri sbagliati di una cifra. “Allora non mi resterebbe che correggerli per difetto!” ha concluso con aplomb, che è una parola che usa sul serio. Incredibile, vero? Quando in tre mesi si bruciano tappe che manco nei fitanzamenti in casa (e più in casa di così…), o in convivenze meno improvvisate: addirittura il fatidico “Non andiamo più da nessuna parte”, che le circostanze attuali rendono non un rimprovero, ma un’ovvia constatazione.

A dirla tutta, questa storia qui è cominciata proprio perché un divano ancora non ce l’avevo: ci si arrangiava su una poltrona senza braccioli, che potevo condividere solo in compagnia di ospiti con cui avevo confidenza, o con cui ne volevo avere. Con quello là, albionico per giunta, non si poteva stare ancora troppo vicini, così dal mio angolino ero stata sul punto di cadere: lui mi aveva afferrata per il braccio all’ultimo istante, ed era scattato un momento che definirei da Via col vento, se non fosse che lo schizzinoso odia l’accento americano.

E il sofà che c’entra, in tutto questo? Un momento, ci arrivo. L’esercizio di ieri, nel gruppo di scrittura, prevedeva di completare delle frasi sulle nostre emozioni (“Mi sento felice quando…”, “Mi sento ignorata quando…”) e trovare similitudini tra i pensieri così espressi: ne avevo concluso, come altri, che quasi tutte le situazioni per cui provavo rabbia o tristezza erano dovute a decisioni altrui, di cui avevo pagato le conseguenze. Le anglosassoni in videoconferenza avevano ripiegato sul loro mantra, piuttosto attuale peraltro: “A volte non possiamo decidere ciò che ci accade, ma possiamo scegliere come reagire“.

Io però avevo l’asso nella manica, cioè il divano che ha rimpiazzato nell’ultimo mese la poltrona “galeotta”, e che, senza volerlo, mi ha insegnato un’altra tecnica di SSM (Superamento Situazioni di Merda): provare a trasformarle in un trionfo.

E veniamo a dove ho preso ‘stu bellu mobile, e perché mi ha aiutato tanto.

Per la verità è stato un “regalino” dell’ex inquilino francese, anzi, l’esatto contrario di un regalo: in una discussione piuttosto sgradevole, avvenuta davanti all’ascensore già pieno delle sue cose, il tipo se l’era fatto scontare intero dall’ultimo affitto (e fortuna che erano “solo” 80 euro), anche se l’aveva comprato di sua iniziativa e l’idea era di fare a metà. Secondo lui, adesso che traslocava, i suoi quaranta euro me li doveva rimborsare l’ignara nuova inquilina, che per la verità avrebbe barattato volentieri quell’arnese ingombrante con una poltrona mia a dondolo.

Allora, invece di cimentarmi nel mio scarso turpiloquio in francese, e solo per recuperare quaranta euro, ho stipulato con l’inquilina un Patto Dash: io ti offro le due poltrone mie – ti raccomando quella senza braccioli – e tu, in cambio, mi cedi l’oggetto del contendere. Ok? Ok.

Senza saperlo, ho fatto la fortuna mia! Innanzitutto, le manovre di trasporto sono state esilaranti: alza qui, abbassa là, e ci passa per la porta? Tirate fuori il goniometro… Poi è finita a tarallucci e vino, per recuperare le forze perdute. Infine, ne ha guadagnato anche la casa: con la quarantena mi sono ritrovata un angolo in più per leggere e scrivere, ora che dobbiamo centellinare ogni metro, in attesa di poter invitare di nuovo ospiti il cui spazio vitale rispetterei con più facilità – e senza rischiare rovinose cadute.

Sono convinta che l’operazione divano – che consiste nel trasformare una disavventura in una cosa buona – sia estendibile a tante situazioni di merda che ci sono capitate, ma che, rispetto a certe tragedie sotto i nostri occhi, possono davvero trasformarsi in opportunità.

Non sempre, eh. La prossima forchetta che si abbatte su dei capellini innocenti verrà punita con una diretta integrale di Gigione.

A ben vedere, è un’opportunità anche quella.

 

(La scena di spostamento del divano.)

 

 

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No, no, è cava!

In tutto questo, ho rinunciato.

Non vado più all’associazione che mi era sembrata una via d’uscita per il mio notorio problema di rapporti umani: ho la socialità di un orso in letargo. Non tutti se ne accorgono, ma è così. E, quel che è peggio, non credo neanche sia un problema!

Però ci ho provato, eh. Ho frequentato tutta l’estate, e quasi ogni giorno, le attività di questo covo di agenti immobiliari, counsellor di ogni tipo e creatori di startup, che cercavano soprattutto di procacciarsi clienti e cava in omaggio – disponibili entrambi al buffet di benvenuto.

“Mucho postureo”, sarebbe la definizione in spagnolo, simile allo “spararsi le pose” napoletano. È l’arte di darsi delle arie in nome del falso postulato: “Più sembro vincente, più lo sarò davvero”.

E sì, anche io ho creduto per un po’ al pensiero positivo, alla legge dell’attrazione ecc. Sono ancora convinta che, a cercare soluzioni invece di disperarci, nove su dieci le troveremo (“grazie arcazzo”, anyone?). E ci sembreranno provvidenziali, come ieri che uscivo da un noto magazzino con un mobile che pesava un quintale in più del previsto, e un “angelo” si è offerto di accompagnarmi al prezzo di un taxi normale. Miracolo! Che ci faceva un colombiano dotato di furgoncino, proprio all’uscita dell’IKEA di Barcellona?

Il bello è che nell’associazione che abbandonerò ho incrociato persone conosciute molti anni fa, quando ci consigliavamo libri di self-help. Ho dunque contravvenuto al dogma di farmi un quintale di cazzi miei, per amore del mio esperimento preferito: vedere che effetto hanno le scelte della gente nel corso del tempo! Infatti non ho potuto fare a meno di notare le posizioni dei conoscenti di cui sopra su queste parole chiave:

  • vittime & vittimismo: a me sembra che siamo spesso vittime di qualcosa, fosse anche di un malinteso! Riconoscere quando succede non equivale a gridare “al lupo al lupo”, ma è `piuttosto la chiave per risolvere il problema. E invece, stando a sentire questi ottimisti, le donne “fanno le vittime” quando denunciano, appunto, di essere afflitte da una differenza salariale documentabile, che non saprebbero colmare contando solo sulle loro capacità. Va da sé che le ultrà del pensiero positivo sono precarie quanto le più pessimiste, solo che non se lo dicono. I catalani, poi, “sono vittimisti a prescindere”: anche quelli che, invece dell’ormai proverbiale “Madrid ladrona”, si limitano a denunciare la scarsa separazione dei tre poteri, che confonde pure le presunte sinistre spagnole;
  • la paura: sentimento proibito. O diventa un’arma per “contrattaccare” (la vita, a sentire queste persone, sarebbe un’eterna guerra), o è una debolezza che non deve esistere. Non è mai una sensazione “amica” che è lì per avvertirci del pericolo, e che dovremmo ascoltare, assimilare, e magari tener presente, intanto che agiamo nonostante quella;
  • “Smarmella, smarmella tutto”: questa è la parte che mi dispiace di più. La rimozione dei problemi evidenti nella vita: ripeterti che sei superiore al collega promosso al posto tuo, o alla nuova fiamma dell’ex, senza chiederti perché senti tanto il bisogno di fare questo confronto. E sì, sono ruoli e problemi stereotipati perché, come intuirete, gli stereotipi sono pane quotidiano per chi deve fare l’enorme sforzo di rimuovere la tristezza dalla vita.

In effetti, nonostante la gioia rampante e l’entusiasmo d’assalto, quando si parla di politica i compagni d’associazione che mi lascio dietro sono i paladini del buonsenso, del “meno peggio, contro i barbari“: questione che non ha facili soluzioni, ma quello che mi colpisce è la rabbia. C’è una presunta ineluttabilità delle scelte, difesa con tenacia per apparire progressisti sì, ma non rivoluzionari. Il rischio è che la massima per cui il cambiamento più importante è quello interiore diventi un’ottima scusa per non cambiare nient’altro che se stessi (e a volte neanche quello).

Non fraintendetemi: i miei conoscenti ne hanno fatti, di progressi, in questi anni. La loro determinazione ha mietuto riconoscimenti e titoli di studio, e pagine in più di curriculum. Il fatto che questo non li abbia fatti uscire dalla precarietà non è colpa loro, ma è un sintomo dei tempi. Però, sospetto, è come se avessero passato il tempo a girare in circolo, senza mai allontanarsi troppo dal punto di partenza.

Che so, hanno aggiunto altri timbri sul passaporto, ma non mi parlano tanto dei bei paesi visitati, quanto della loro “intrepidità” nell’attraversarli. Ai figli che hanno o non hanno avuto accennano con convinzione arrabbiata, difendendo la loro scelta come se fosse l’unica sensata: allora, “legge della natura” e “condizionamento sociale” diventano termini assoluti e inappellabili. Ma quello che più colpisce è la totale rimozione dell’insuccesso. Magari, tra i presenti alla festa di turno, ero l’unica testimone di diplomi mai presi, o di relazioni sfumate, così sono loro i primi a mettere in mezzo l’argomento: solo per dirmi che “se lo sentivano fin dall’inizio”, che “investire” in quel progetto non li avrebbe portati da nessuna parte.

Dove li hanno portati, invece, i progetti nuovi?

Non troppo lontano, temo: però sono riusciti a convincersi che fosse la migliore delle mete possibili.

Hanno ragione! E secondo me lo resterà finché lasceranno il dolore fuori alla porta.

Quando gli permetteranno di entrare, forse sì che potranno andare dovunque.

O almeno, dove gli farà bene.

 

 (Scusate, non potevo esimermi!)