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👌 Homemade Hawaiian Pizza (Best Hawaiian Pizza Recipe)

Non sarà l’attesa di Megafona essa stessa, Megafona?

Me lo chiedevo stamattina alle sei e un quarto, mentre aspettavo che le signore delle pulizie vicino casa cominciassero il loro concerto mattutino in mondovisione: come sempre, su tutte spiccava la soprano del “Me he cortao!”, e “Mi abuela era así!”. Con affetto la chiamo, appunto, Megafona.

Il concerto iniziava alle sette meno un quarto (ed è subito Quelo…) così, nell’inutilità di riaddormentarmi, mi sono messa a fare una serie di ricerche inutili su Google, tra cui qualcosa tipo: “Da quando in qua lo yoga è la panacea di tutti i mali?”. Sì, ho il dente avvelenato: ho provato varie tipologie, dall’Hatha all’Ashtanga, e l’unica posizione che mi sia mai piaciuta è stata quella del cadavere, che sì, è proprio quella che state immaginando adesso. Mi sono imbattuta in articoli interessanti: una statunitense di origine indiana lamentava la trasformazione dello yoga in un’aerobica con la musichetta più spirituale, e la considerava una mancanza di rispetto della sua cultura originaria. Massimo rispetto per lei, allora, ma la comica indo-canadese Lilly Singh mi aveva invece raccontato una storia diversa: gli indiani non fanno yoga, non è così diffuso nella cultura mainstream. Qui ho intuito il conflitto politico (c’è addirittura un ministero dello yoga in India) e le questioni economiche non tanto sottili: come le pratiche pseudo-orientali usate per manipolare i dipendenti d’azienda, e il simulacro di yoga “occidentale” che offrono ai turisti a Goa. Insomma, basta pagare.

Sapete a cosa mi ha fatto pensare tutto questo? Alla pizza all’ananas. E dai, siate indulgenti, erano le sette del mattino e avevo lo stomaco rivoltato!

Lo so, la questione dello yoga e dell’appropriazione culturale sono eterne e di difficile risoluzione (di solito si abbraccia la conclusione, economicamente vantaggiosa, che un tipo di yoga non esclude l’altro), ma a ben vedere la questione autenticità mi prende molto da vicino: sono stata accusata di “ananassofobia” da un portoghese gay che sosteneva che la pizza fosse come il matrimonio omosessuale: la gentaglia come me sosteneva che, rispetto a quella “autentica”, non era una vera pizz… ehm, un vero matrimonio. Ok, a parte che per me tutti i matrimoni sono una pizza (ah ah ah), scusate se mi rode un po’ vedere una cultura egemonica in Italia che decide che la pizza debba croccare, e una tendenza tutta internazionale a decidere che solo per la pizza “more is less”: inso’, più ingredienti ci metti e meglio è. Al che io, quando una catalana mi ha rivelato che quello della pizza è lo stesso principio del pa amb tomàquet (che io adoro, eh, ma resta il fratello scemo della bruschetta), le ho risposto: “Ma ti capisco benissimo, in fondo tu una pizza non l’hai mai provata in vita tua!”.

Sono fiera di me? No. Vaffanculo lo stesso? Sì. Con tanti cuoricini.

Perché ho già capito dai tempi in cui dovevo studiare Baudrillard, che di questa storia dell’autenticità non ne verremo mai a capo. E a questo punto, confesso, neanche me ne curo troppo. Magnateve un po’ quello che volete, fate yoga con i Metallica in sottofondo… Che me ne frega a me.

Però… Un giorno spiegherò meglio il mio però, quando la battaglia culturale smetterà di essere, appunto, una battaglia. Per il momento basti dire che mi sembra sia avvenuto un grande passaggio, nel discorso sull’autenticità di un fenomeno: non la stabilisce più chi lo ha inventato, ma chi ha più soldi per imporre la sua versione.

Ci torneremo.

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Abbassate le armi! È solo un dolcetto della Majani 🙂 .

Lo so, quando parliamo di pizza mi spuntano i baffetti (insomma, più del solito), e mi compare al braccio una fascia con una fresella sezionata ai lati, che è la cosa più vicina a una svastica che io possa mai indossare.

Ma poi riconosco che il principio di fare un impasto di acqua e farina, e magari metterci sopra delle cose, è abbastanza diffuso, in questo angolino di galassia: ammetterlo ci fa sentire più “paranza”, e la scoperta di tutte le declinazioni dello stesso principio gastronomico ci ricorda che abbiamo tante storie culturali, e familiari, da raccontare.

Anzi, l’autore del divulgativo Sapiens – testo sul riduttivo andante, ma piuttosto godibile nella parte sulla preistoria –  ci ricorda che l’idea di vedere un nesso tra dei semi caduti, e le piante che spuntavano poi nello stesso posto, non è sorta in un solo pizzo di mondo, come si beavano quegli sboroni dei turchi, ma si è diffusa in punti diversi, in momenti in cui non c’erano scambi diretti tra gli agricoltori in questione. Inso’, siamo “andati a zappare” spontaneamente (e magari chi so io lo facesse ancora!), in più punti del mondo: con risultati spesso analoghi, considerando che quello il pianeta uno è.

Quindi non mi arrabbio troppo se una tizia, su Facebook, chiama la pizza napoletana “aquesta coca rodona”, paragonandola dunque alla coca catalana: la poveretta non sa quel che dice, e comunque la coca mi piace molto.

Così come a suo tempo non ho abbattuto a padellate la coinquilina cinese appena arrivata in studentato, che vedendomi buttare la pasta affermava stessi cucinando i noodles, specialità del suo paese che non si è maaai chiamata spaghetti!

Tutto questo per dire che mi dispiace sul serio se su filindeu sardo, ormai confezionato da pochissime donne nuoresi, rischia l’estinzione, e spero proprio che si riesca a conservare la ricetta. Però un po’ mi conforta il fatto che degli chef cinesi e coreani offrano ai clienti una pasta (o anche un dolce!) di consistenza diversa, ma di simile preparazione.

Quindi mi piace pensare che si possa rispettare la tradizione locale, e al tempo stesso proporre delle variazioni sul tema, come sempre si è fatto man mano che gli ingredienti disponibili per un certo piatto cambiavano, a seconda della congiuntura economica, e della disponibilità di materie prime. In Marco e Mattio, Sebastiano Vassalli raccontava dell’accoglienza non proprio favorevole che nella Val di Zoldo suscitarono le patate… E non ho bisogno di “spoilerarvi” come sia andata a finire!

A Napoli, da mangiafoglie che eravamo, siamo diventati mangiamaccheroni, dopo che i maccheroni in questione s’erano fatti meno dolci, da servire con miele e zucchero, e più piatto salato da mangiare sciué sciué col solo condimento di formaggio (qualcuno, con un antipatico anacronismo, dice street food). Ed è stato due secoli prima che si diffondesse sul serio ‘st’ americanata della pummarola. Eh, questi piatti “locali”!

Dovunque io vada, poi, adoro il concetto di pasta ripiena, che si chiami raviolo o jiaozi o gyoza o dumpling: che poi questa parola, in inglese, indicava le palline britanniche di acqua e farina che arricchiscono soprattutto le zuppe. Adesso designa, con i termini generici cari a quella lingua, anche le preparazioni ripiene. Non succede solo col cibo: secondo il mio prof. di letteratura greca antica, le piramidi si chiamano così perché ai greci, vedendole, ricordavano certi dolcetti che facevano loro… di forma piramidale, appunto.

Ma torniamo ai ripieni che mi stanno a cuore: la mia versione preferita, va da sé, è tutta acqua, farina e verdure di stagione, dai funghi alla zucca, passando per spinaci e melenzane. E poi, Giovanni Rana fa i tortelli al cioccolato e io non posso mettere il lievito nei miei? Come scriverebbe il Falzo vegano: #nonpuoichiamarlitortellinisenonsonopiccoletorte. 

Non mi spingo oltre perché so che, tra paesani, quando cominciamo a parlare di cibo finiamo per prenderci a colpi di mattarello, quando come corpo contundente andrebbe bene anche la pizza roman… scheeerzo!

Però (le spunta addosso l’accappatoio di Rocky, e le si stortiglia un altro po’ il naso) se io ho potuto mantenere il silenzio mentre un’alunna d’italiano ordinava una pizza all’ananas, e nella migliore pizzeria di Barcellona, allora tutto il mondo può cambiare!

E buonanotte. Anzi, buon appetito.

 

Ieri sera tornavo in auto coi miei da Napoli, dove avevo ritirato questo premio, e volevo chiudere col botto: visitare l’allummata di San Sossio! O Sosio, per i puristi: ma, nella terra in cui “babà” si pronuncia con quattro o cinque “b”, una sola “s”, e per giunta sonora, mi sembra un po’ sadica.

Il patrono della mia ridente cittadina mi aveva già omaggiato – lui a me – con due giorni di festa della pizza, grande scusa per passeggiare tra effluvi di olio e basilico, e contemplare le luminarie, insieme ai tacchi argentati delle preadolescenti di una scuola di ballo.

Ieri sera non mi restava che chiedere ai miei, carichi di pergamene e souvenir del concorso, di lasciarmi all’incrocio con il Corso, perché proseguissi a piedi nell’abito tutto volant in cui mi ero insalsicciata per l’occasione (fortuna che non metto tacchi!).

Che bello, comincia il concerto, ho pensato una volta in piazza, mentre mi facevo strada tra bambini che correvano, e qualche papà che mi guardava allibito.

E invece no: stava solo provando il suono, la vincitrice di Sanremo canta Napoli, accompagnata alla chitarra dall’artista locale che era anche l’autore della sua canzone. Peraltro provavano con una cosuccia da niente: Tu si’ ‘na cosa grande, di Modugno.

Mentre la bellissima cantante l’intonava, con una pronuncia che mi ha fatto dubitare delle sue origini siciliane, ho scoperto una cosa strana. Della piccola folla che si era assiepata davanti al palco, ero l’unica a cantarla insieme a lei.

Eppure ricordo bene i miei anziani, ormai tutti scomparsi, che alle feste di famiglia imploravano noi nipoti di togliere i Queen e mettere “le canzoni napoletane”, cioè Murolo e Aurelio Fierro. Loro sì che le intonavano, Era de maggio e Reginella (di solito preferivano il repertorio malinconico), e Mimmo Modugno, rispetto a quelle canzoni lì, era roba recente. Ma i presenti di ieri sera, compaesani di ogni età, si limitavano ad ascoltare.

Magari sono io a fare sempre la spettatrice gasata: anche nel buffet seguito alla premiazione, avevo accompagnato con entusiasmo il duetto che intonava La garota de Ipanema, e una versione molto “Elvis” di ‘O sole mio.

Però una folla intera cantava con me, tre mesi fa, in una Piazza Dante intasata dai fan del noto Alessio, chiamato a cantare all’inaugurazione di un negozio. Ero pure l’unica a non conoscere i testi!

E allora Alessio sì, e la canzone classica no?

Generazioni che cambiano, dinamiche che cambiano: cantiamo quello che ascoltiamo più spesso. O così mi sono detta.

E in fondo ci sta. Io, dopo un’infanzia passata a parlare italiano, mangiare hamburger e ascoltare musica in inglese, ho deciso a sedici anni suonati di approfondire quella parte d’identità che per certa classe media, dalle mie parti, “fa brutto” riconoscere come propria.

Da allora, come “napoletana di ritorno”, ho scoperto una piccola grande verità: se non puoi essere una cosa, la studi. E diventi più realista del re, come me che insegno regole del catalano agli autoctoni che le ignorano (e che ricambiano col catalano che si parla sul serio). O come gli europei “folgorati dall’India” che, il Giorno della Terra, suonano il sitar in tuniche bianche, mentre gli indiani passano con buste di plastica tra il pubblico per recitare un unico mantra: “cervezabeer, cervezabeer…”.

Invece, magari, i ragazzi col turbante che ieri sera si perdevano tra le bancarelle erano più napoletani di me.

È difficile da spiegare, io napoletana mi ci sono sentita tardi. A Napoli ci sono arrivata dopo, anche se ci sono sempre stata.

Però ho cantato con fiducia quel brano scritto da un pugliese, ed eseguito in quel momento da una siciliana.

Perché Napoli è generosa, mi sono detta, accoglie tutti.

Perfino i suoi.

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“Quando la tua insalata ti racconta le barzellette”

Nell’eterna sindrome premestruale che è la mia vita, vi confesso un’idiosincrasia di più: il mio fastidio per l’insalata.

Adesso non mi riferisco alla pietanza in particolare, anche se è vero che io sono la schifezza dei vegani, e la detesto quasi quanto la frutta.

In questo caso parlo però dell’insalata che vendono in quei bar carucci in tutti i sensi (ma sempre meglio di Starbucks) in cui vado a prendermi i miei tè intrugliosi e a scrivere, il pomeriggio.

Le mie orecchie vengono affinate in modi strani dai mastini premestruali che mi dilaniano la pancia, e sono dunque molto sensibili al raspare di forchetta in piatti finto-rétro: è l’inequivocabile ricerca delle ultime foglioline unte, sfuggite ai denti d’acciaio. Quelli della forchetta, non della cliente. Che spesso è sola, seduta su un cuscino imbottito, col culo ben coperto da maglie “strategiche” di cui, a mio modesto parere, non avrebbe bisogno neanche se seguisse alla lettera le norme della pressione estetica.

Tra un momento pagherà dai sei ai dieci euro quell’insieme di verdure crude che, al supermercato, avrebbero superato l’euro solo se fossero state “gourmet” (?). Lo so che in un locale come quello paghi anche il condimento (che di Gourmet ha solo la marca discount dell’olio), la playlist stilosa, le lucine da party inglese, e un po’ addirittura il personale: ma che ci volete fare, quando accanto a me si siedono degli uomini è quasi sempre una festa. Mi arriva odore di pizza. Di lasagna. Roba che o si mangia con le mani o si taglia di netto, senza raspare. Scrivo contenta anche se già so che, 9 su 10, di pizza e lasagna quella roba avrà giusto l’odore.

In compenso, difficilmente mi si siede accanto un uomo con un gelato alla fragola. O al mirtillo. Non so neanche se ne sono coscienti, del curioso spettro di colori spenti che accompagna i loro gusti, e d’altronde la mia esperienza non ha valore statistico.

Comunque, tranquilli: anche se i mastini dovessero cominciare a maciullarmi le ossa, non prenderò mai una pistola per costringere le clienti del bar a ordinare pizza e lasagna, e gli uomini in sala a gustarsi il gelato ai mirtilli.

Però continuo a sospettare che, nelle piccole e grandi questioni, potremmo imparare un sacco gli uni dalle altre. Perché non si tratta di costringere l’altro a privarsi delle stesse cose nostre: siamo noi che dobbiamo godere in egual misura di quelle altrui.

Io, nel dubbio, torta al cioccolato.

 

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L’altro giorno ho assolto al compito non facile di consolare un amico per una rottura sentimentale.

Sono andata a prenderlo al lavoro e ci siamo goduti un Raval che cambia a vista d’occhio, magari per i motivi sbagliati, che però gli regalano anche angolini come quello che ci ha accolti.

Il mio amico non è uscito bene dalla relazione, ma si riprenderà presto, anche perché si è rallegrato di quanto le persone lo stessero coccolando, ascoltando, sopportando.

A un certo punto mi ha proposto:

– Dai, quando puoi andiamo a farci una pizza. Però più in là, magari, so che in questo momento non sono di grande compagnia.

Questa osservazione mi ha divertito molto: non sapevo se ricordarglielo o no ma, se ero lì con lui in quel momento, era stato anche per una pizza “sospesa”.

– Ricordi quanto ero “pesante” io, tre anni fa? – gli ho risposto infine. – Ti chiamai una sera che ero proprio disperata e tu mi dicesti: “Forza, andiamo a farci una pizza!”.

Ovviamente lui non ricordava niente di una serata che, nel suo caso, era stata uguale a tante altre, a parte la chiamata di questa ex cliente che invece di godersi il suo nuovo acquisto stava digiunando per uno che l’aveva lasciata senza accorgersene (finora la definizione migliore).

Io invece ricordavo tutto. Specie la risata che in altre circostanze mi sarei fatta davanti a quell’invito spensierato in pizzeria, anche perché ai tempi a stento mettevo in bocca un po’ di pane e tortilla precotta, e un panettone spagnolo che pugnalavo al “risveglio” per colazione.

La pizza l’avevamo mangiata qualche settimana dopo, ed ero stata comunque una commensale leggera quanto l’accoppiata peperonata + cheesecake.

Ma ieri pomeriggio, tre anni e sette vite dopo, ero lì ad ascoltare lui anche per quella proposta telefonica deliziosamente fuori luogo.

– Insomma – ho concluso, rammentandogli l’aneddoto – quest’amore che stai ricevendo, l’hai coltivato. Hai seminato una risata muta tre anni fa e adesso hai raccolto un caffè, in attesa della pizza sospesa.

– Mica l’ho fatto per quello – ha sorriso lui.

– Lo so. O non avrebbe funzionato.

 

Modestamente, il primo chitemmuorto è partito dai miei amici.

Che sono arrivati così presto da aggiudicarsi un tavolino al Bar Blau con Milan-Napoli.

Io no, ho passato una di quelle domeniche c’ ‘a pazzaria, come direbbe mia nonna, che vanno bene sole e palestra e donne che corrono coi lupi e tutto quello che vuoi tu, ma Vasari scrive più strano del solito e non tanto si traduce, la gatta non si rassegna al fatto che il divano sia off limits e insomma, adda passa’ ‘a nuttata.

Che non ce la facesse passare, e brutta, il Milan, ho pregato entrando nel locale, laddove entrare è un parolone: una distesa di sgabelli mi separava dall’invidiato tavolino amico, e modestamente il primo alla mia destra llevaba mi nombre, era l’unico libero. Parallelo a quello dell’altra femmena del gruppone, e che cavolo. Poco importava che lo schermo lo vedessi spaccato in due dallo stipite dell’ingresso, e la finestra che mi hanno pregato (in spagnolo) di aprire non aiutasse la visuale.

L’importante è che non si siano accorti che a cinque minuti dal mio arrivo abbia segnato Flamini. Se no non starei qui a raccontarlo.

Il mio occhio è stato attirato come una calamita dalle macchie azzurre che si muovevano frenetiche dietro al bancone: le cameriere, con le scritte allisciatece stu bebè e figl’ ‘e bucchino senza core. La citazione commuove quasi quanto il gol di Pandev, che ha mandato all’aria qualche sgabello, e pure il tavolino di cui sopra, che quello del chitemmuorto avrebbe voluto schiattare nei reni del solito criticone stile “Lo sapeva fare pure lei!” (alla sua promessa sposa, peraltro).

Poi, nell’intervallo, l’hooligan mi ha proposta come primo premio per la lotteria dell’evento di sabato, Ricomincio da te, il 20 aprile dalle 16 alle 22 al Casal Pou de la Figuera, venite numerosi. Niente paura, alla fine ci siamo accordati perché non esca dalla pastiera gigante vestita solo di una foglia di fico e due mele (anche se due cerase sarebbero bastate), ma faccia da deterrente per chi resta a casa. Se non venite e non diffondete il messaggio, mi ritrovate sul vostro divano a raccontarvi la storia della mia vita. Sì, un’altra volta. Io vi ho avvisati.

E il secondo tempo ha fornito più di qualche capitolo alla narrazione. Canterò, ad esempio, del vecchietto ‘mbriaco che mi ha poggiato una mano sulla spalla per alitarmi in faccia vari bicchieri di birra e la dolce confessione: “Devo andare al bagno, ma non so come passare”. Sono drammi.

O della farfallina che proprio non voleva saperne di uscire dalla finestra, che le avevo lasciato socchiusa apposta. Il cane di Pavlov le fa un baffo, la sindrome di Norimberga per lei è un raffreddore. Ma semblable, ma soeur.

Continuava a girare impazzita tra tifosi che urlavano qualsiasi sconcezza a Flamini, giustamente espulso, mentre io stessa, all’ennesima sputazzata di un giocatore del Milan (stasera le facevano artistiche quanto i loro capelli), gridavo Chi schifo!, facendo voltare divertito chi stava seduto davanti a me.

A metterla su youtube si sarebbe aggiudicata per compassione il titolo di Presidente della Repubblica italiana alle Quirinarie, a pari merito col Pulcino Pio.

Ma starà ancora danzando nell’aria sulle note di Curnutone, sparato a palla, finalmente, alla fine di un pareggio che avrà deluso tanti, ma inso’, io ormai ho imparato a vedere il bicchiere mezzo pieno.

Specie se accompagnato, come stasera, da una grande parigina*.

* Curiosità: nel paese mio e d’Insigne (quando è entrato ho pensato Santu Sossio sia con te) la parigina si chiama tramezzino. Le più buone della mia vita le divoravano le mie compagne di classe al bar di fronte alla succursale del liceo, prima di sedersi a tavola e mangiare pure primo, secondo e contorno. Da noi negli anni ’90 gli uomini nun ‘eveno tucca’ l’ossa. Io ovviamente ero un’alice salata. Andando all’università abbiamo scoperto che a Napoli si chiamava parigina. L’abbiamo intuito perlopiù al terzo club sandwich servitoci al posto del delizioso ripieno, dopo averlo regolarmente pagato. Piano piano ci arriviamo anche noi.