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L'immagine può contenere: spazio all'aperto

Panorama dal mio balcone. Foto di Stuart Farquhar

“È che a queste cose mettono sempre dei nomi così insulsi…”.

La donna seduta accanto a me si è tolta il bavaglio per sfottere il soprannome dell’idrante “La Ballena”, che quella sera, venerdì 18 ottobre, sarebbe stato usato dalla polizia catalana per farsi strada tra le barricate in fiamme. La tipa era l’unica, bizzarra imbavagliata del gruppetto dell’altra volta, a cui mi sono accollata stavolta per riprendere lo sciopero generale: migliaia di persone sono venute apposta, a piedi, a Barcellona. Come l’altra volta, eravamo soprattutto noi donne a chiederci perché diavolo dovessimo andare proprio verso le mazzate: in questo caso, verso il fumo che si alzava in volte nere, più alte del Corte Inglés.

 Una volta al sicuro, avremmo guardato il video in cui la polizia apriva le danze sparando su manifestanti seduti. Dice che è stata provocata, ma dalle immagini non si evince. In ogni caso, la tizia del bavaglio aveva ragione: ecco un elenco di cose di cui abbiamo solo il nome nudo.

Folla: mezzo milione (e secondo la questura!), con tanto di odore di stallatico negli angolini del centro… Ma i giornali parlano molto di più dei facinorosi, magari con titoli differenziati per pubblico.

Bandiere: tra quelle indipendentiste sventolava, ogni tanto, quella della Repubblica spagnola, contro un re schiaffato lì da Franco, e un primo ministro che viene solo a visitare i poliziotti feriti (mentre quattro persone hanno perso un occhio per lo sparo di proiettili di gomma).

Paura: di chi? Ormai sul tardi, le camionette avrebbero rincorso gente ferma in Plaça Catalunya, per costringerla a raccogliersi al centro della piazza.

Aria.

Quella cosa di cui ti accorgi solo quando manca.

Non avrei mai pensato che potesse essere un problema, non verso le otto, mentre tornavo a casa. E invece, da un lato della mia strada c’erano loro, giovanissimi e imbavagliati, e dall’altro c’era una transenna gialla, con dietro tre sagome in elmetto e fucile. Provavo a farmi strada tra incappucciati e telecamere – anche i giornalisti avevano rinculato, brutto segno – e non capivo in che direzione detonassero gli scoppi.

“Corriamo, loco!” ha gridato quasi divertito uno dei ragazzetti col volto coperto. Loco è un appellativo usato con una certa insistenza dalla gioventù tamarra locale, e il tamarretto è riuscito nell’intento: eccoci a defilarci come marionette ai suoi ordini, per scoprire solo dopo che non c’era un reale pericolo. Un giornalista, che parlava a debita distanza davanti a una telecamera, mi ha guardata con insistenza: che faccia dovevo avere?

Torniamo alla voce paura: la coppia di cinquantenni che era venuta a piedi lungo le autostrade bloccate mi spaventava perché non sapeva cosa fare in una manifestazione – defilarsi senza panico, chiudersi a paguro davanti agli idranti… – ma ci credeva. Quei ragazzetti incappucciati sapevano piuttosto bene come andavano queste cose, ma in realtà non sono sicura che credessero in qualcosa, che non fosse la loro divertita capacità di far correre tutti. Quello che voglio dire è: alcuni sembrano avere le idee chiare, almeno sulla funzione difensiva delle barricate davanti alle violenze. Quelli che mi facevano spazio venerdì sera, nel mio secondo tentativo di rientrare, mi sembravano più giocare alla guerra. Ma sto speculando: la vista di una folla preoccupata che usciva dal vicolo mi ha convinta a tentare di nuovo, facendomi sotto le pareti per evitare eventuali proiettili.

Sono passata quasi liscia: l’imbavagliato fuori al mio portone non si è neanche girato a guardarmi. A conti fatti, avrei potuto essere sua madre.

Sono in salvo, ho pensato chiamando l’ascensore. Poi me ne sono accorta.

L’aria: mi faceva male respirarla. Prima la gola, poi il naso. Come quando avevo messo troppa soda nella ricetta del sapone, e avevo dovuto aprire le finestre, o quando avevo inalato il peperoncino che bolliva con l’aceto, per fare il sambal oelek.

Qui era peggio: una parte di me mi diceva “Non respirare”. E mi buttava sulle scale prima ancora che capissi che erano i lacrimogeni, usati nella piazza, e nella metropolitana, a due passi.

Salendo i quattro piani, l’affanno si aggiungeva al bruciore, e dal telefono a cui mi ero attaccata mi arrivavano domande strane: “Hai del limone?”. No. “Te lo vengo a portare adesso!”. No: non venite, nessuno venga. Vi sparano.

Allora sono partite le istruzioni: apri la finestra – una che dia sull’ascensore, e non sulla strada – fatti una doccia, lava i vestiti, bevi tanto.

Sì, sì, dicevo. Mi sono resa conto solo dopo delle macchie di mascara sotto gli occhi. Non credo fosse solo la tosse.

Dopo aver fatto la doccia – “Devo lavare pure gli stivali? Ma no, sono i più comodi che ho per scappare!” – mi sono accorta che Siri Hustvedt aveva vinto il Premio Princesa de Asturias, e l’erede al trono di Spagna aveva fatto il suo primo discorso, in presenza dei regali genitori che si lanciavano sguardi orgogliosi.

Anche io ascoltavo questa tredicenne bionda impappinarsi, e impegnarsi a servire “la Spagna e tutti gli spagnoli”: l’ascoltavo sullo sfondo dell’elicottero e degli spari.

Forse il problema è tutto qua.

Tweet di Nacho MG, ripreso da publico.es

 

(Questo è un video girato da Stuart Farquhar, il mio inquilino che ha due balconi sul carrer Comtal, prima che facesse buio e arrivassi io. Lo sentite gridare: “Jesus!”).

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Un po’ di gente in Plaça Catalunya, per i migranti

Ero indecisa tra questo titolo e “La nit degli imbrogli”, pensando alla giornata di ieri.

Lo so, vi starete chiedendo perché non sto già a Repubblica a scegliere i titoli in prima pagina. Ma vedete, la giornata di ieri si era aperta con il tecnico che, in chat, ci chiedeva 60 euro per riparare una serratura “con maniglia nuova”, e 100 per la stessa serratura, senza cambiare la maniglia. Tra il primo e il secondo preventivo era passata una notte di mezzo, e il tipo non aveva neanche avuto l’intelligenza di andarsi a rivedere i WhatsApp iniziali, prima di spararci un’altra enormità.

Era con umore tetro, quindi, che mi apprestavo ad andare alla grande manifestazione contro la Ley de Extranjería, che non permette agli extracomunitari neanche di risiedere ufficialmente nella casa in cui vivono. Queste manifestazioni sono belle partecipate, a Barcellona: infatti eravamo più di mille, e secondo la Guardia Urbana, eh. Solo che, cvd, gli amici che cercavo non erano tra gli energici ragazzi africani (e non) in testa al corteo, ma in coda. Tra autoctoni che, come aveva osservato uno dei compagni, “Sono come noi: contenti di essere qui, ma anche stanchi della settimana di lavoro”. Passo strascicato verso la Rambla, pochi slogan improbabili…

Io mi sono allontanata all’altezza di carrer del Carme, alla vana ricerca di un fabbro nel mio Raval. Tutti chiusi anche lì. Sapete dove l’ho trovato, alla fine? Su Facebook: italiano con buone referenze e tariffe FISSE. Accordo raggiunto su WhatsApp in un breve scambio di battute e fotografie “artistiche”, tra maniglie e lucchetti. Cari luddisti antisocial, sinceramente nun ve capisco.

Il momento di scollamento è venuto la sera, quando il mio telefonino mi ha annunciato in spagnolo che “El primer ministro italiano renuncia a su cargo”. Da Nassirya in poi, quando leggo notizie sull’Italia in un’altra lingua, mi viene questo momento di alienazione in cui non so dove mi trovo.

Poi mi sono ricordata: mi trovo un posto che ci ha messo mesi, a sua volta, a scegliersi un president, con tutti quei candidati in galera o giù di lì. Ok, lo confesso: mi sono chiesta anche se fossi io a portare sfiga.

Tutta la storia della rinuncia di Conte l’ho appresa a casa, più dai drammi su Facebook che dalle notizie: “Il governo lo decidono i mercati!” tuonava anche chi schifa la Lega. “Adesso che si torna a elezioni, vedrai quanto prende Salvini!” si lamentava un altro.

“Meno male, ‘sti fasci non sono saliti al potere” esultavano invece quelli della manifestazione, reduci da un cineforum col film sul giovane Karl Marx. Infatti, la dichiarazione che mi è piaciuta di più è stata: “Riassunto della giornata: The young Karl Marx is for dummies, the old Mattarella is for communists”.

Il riassunto della mia, di giornata, è stato: l’impotenza a volte è un sollievo. Se la porta è bloccata e ho fatto di tutto per aprirla, mi siedo e aspetto il tecnico. Se nei miei due paesi non riescono a formare un governo, oh, mi è bastata la lezione dello scorso ottobre: penso al mio lavoro, ai miei maldestri tentativi di svoltare e faccio il poco che posso.

Per esempio, racconto a chi è rimasto in Italia che qui scendono in piazza 1200 persone (soprattutto autoctone) contro le nuove leggi razziali.

Hai visto mai che, prima o poi, succede anche da noi.

 

 

a36b369f1a05f3a434cdd8d784e1c075Quando in tasca ho più biglietti da visita di agenti immobiliari che biglietti della metro, lo sto rifacendo: cerco la svolta. Tipo una casa da  abitare e affittare per metà, in una città che costruisce le case o per viverci o per farci i soldi. Di solito finisco per rinunciare e prendermi un gelato, in attesa di tempi migliori.

Ma intanto imparo molte cose sulla specie animale a cui appartengo.

Stavolta ho scoperto una cosa che già mi aveva segnalato Dostoevskij: anche un bigliettaio del treno si dà importanza per quel minimo di potere che ha. Se consideriamo che genere di biglietti ho in tasca in questi giorni, capirete chi altro abbia questo vizio.

E mi dispiace, perché so che tanti agenti immobiliari sono pagati uno schifo, e fomentati tipo i teleoperatori di Tutta la vita davanti. Mi fa tenerezza la bellissima tedesco-russa-rumena che mi fa le imboscate WhatsApp alle dieci di sera per vendermi un appartamento caro e impersonale, creato per farci i soldi e non per viverci. Mi verrebbe da “risolverle la vita”, come a volte mi viene in testa di fare, senza mai riuscirci ovviamente (però spesso procuro contatti e indirizzi utili).

Quello che non posso più ascrivere a coincidenza, invece, è il senso d’importanza che si danno quelli che operano in zone esclusive (Avinguda Diagonal, carrer Enric Granados…), dove, mi sono accorta ben presto, i soldi per svoltare non ce li ho. Può succedere che in un caso o due confonda la ragionevolezza con l’arroganza, se un agente respinge un’offerta con la frase “È pur sempre la Diagonal!” (purtroppo non so tradurgli il napoletano “e tiritittittì“). Ma m’incuriosisce il fatto che, per un appartamento accanto a Plaça Catalunya (cioè, caro e centralissimo), nell’arco di 24 ore abbia un architetto a illustrarmi gratis eventuali migliorie, e per un piano terra accanto alla Diagonal (con giardinetto, ma sempre un vascio) la responsabile che accompagna l’agente dichiari che chiamerebbero l’architetto “solo se fossi realmente interessata, perché è un pomeriggio di lavoro!”. Che il rispetto per il lavoro altrui sorga solo in simili situazioni? D’altronde, nel caso specifico, il… soldato semplice, al momento di salutarmi, mi ha trattenuto la mano e mi ha rivelato con curiosa confidenzialità che “i proprietari avevano rifiutato un’offerta più bassa”: insomma, mi era sembrato di tradurre, facessi pochi scherzi e pagassi subito, o lasciassi la casa a chi capisse il russo! Alcuni annunci in zona, infatti, sono unicamente in questa lingua. La domanda è: chi capisce il russo si compra forse un vascio, fosse anche sulla Diagonal?

Ovviamente non si parla di lotta tra poveri, ma ripenso a quel bigliettaio che si credeva chissà chi perché in quel momento, e solo allora, aveva qualcosa che gli altri volevano.

E di cui lui, badate bene, era solo custode e non padrone.

Vabbe’, almeno ha riaperto la mia gelateria preferita.

Risultati immagini per harley quinn joker L’altra sera, nella bolgia infernale che diventa Plaça Catalunya sotto Natale, ho girato un piccolo video ai miei sulle luminarie delle feste. Nel rivederlo prima d’inviarlo (avendo il cellulare dei Puffi, le immagini erano sfuocate), ho dovuto alzare al massimo il volume per ascoltare in quel caos la mia spiegazione da guida improvvisata. All’altezza della Fnac, un signore anziano che andava a braccetto con una donna più giovanile, ha bofonchiato a distanza di sicurezza, e a voce bassa:

– Qué pesadita que eres, niña! (“Quanto sei scocciante, bimba!”).

Vi risparmio i dettagli della breve conversazione che è seguita, perché immagino li conosciate. Personaggio nervosetto che dice e non dice, convinto che non gli verrà ribattuto niente, ma che quando la “bimba” di turno gli controbatte qualcosa si barcamena tra l’offendere apertamente e il cercare di dileguarsi. Il picco più alto: “No tengo por qué aguantar tus tonterías!” [“Non sono tenuto a sopportare le tue sciocchezze!”, riferendosi al video ai miei].

Vorrei però soffermarmi sulla donna che si accompagna a un personaggio così, che di solito in questi battibecchi riveste esattamente il ruolo della gentile signora che guardavo: mano ferma intorno al braccio del marito, nel tentativo un po’ allarmato e un po’ materno di dirigerlo lontano dalla disputa, e un immancabile sorrisetto, dissimulante qualcosa tra indulgenza verso il maschio alfa (“E che sarà mai!”) e la voglia improvvisa di sparire in una botola sotterranea.

È un atteggiamento diverso da quello dei pochi uomini che ho messo nella sua stessa situazione, e sempre in risposta a provocazioni, nella mia carriera di “rispostera” (vedi sotto): impassibili, ma evidentemente a disagio e più che solleciti nell’esprimermi il loro disappunto, appena allontanatici dalla persona con cui litigavo. Nessuno ha adottato quel sorrisetto da donna mite ma saggia, che sa cose che io non so.

Non posso sapere, per esempio, quanto sia gentile quel signore con famiglia e amici, adorabile burbero dal cuore tenero che tanto piace a un certo profilo femminile, magari educato sotto una dittatura che sfornasse decaloghi del genere.

Non posso conoscere i motivi per cui quel signore fosse così nervoso da ritenere opportuna una reprimenda alla bimba chiacchierona di 35 anni alle sue spalle. Nessuno conosce i guai di nessuno.

Io, però, so qualcosa che quella signora non sa.

Conosco infatti la supponenza dell’adorabile burbero quando crede di poter sfogare le sue frustrazioni su una “niña” sconosciuta.

E so che lei non ha bisogno di sdrammatizzarle, per essere una buona moglie. Né ha la necessità di sentirsi dire “sei proprio una santa, come fai a sopportarlo”, per sentirsi qualcuno.

So infine che i ruoli disponibili per le donne non è da molto che siano aumentati, ma ripenso alla madre di una mia amica (queste amiche che ci somigliano tanto, ma capitano tutte a loro, vero?) che osservando un “genero” particolarmente improbabile aveva chiesto alla figlia:

– Vuoi fare l’infermiera per tutta la vita?

E tu che hai fatto, avrebbe voluto dirle la ragazza. E che hanno fatto le coetanee tue e quelle prima di voi, le vecchiette che dopo la messa andavano a dire a Don Michele, prendendo per mano la nipote, “Chesta ce responne ‘o nonno”. Risponnere, in napoletano, nel senso di essere scortese. Ma letteralmente, guarda un po’, significa “permettersi di controbattere”. Le lingue sono filosofie di vita.

Tutto, pur di proteggere adorabili burberi così bisognosi di sante al loro fianco, trattati in un’ingenua vendetta come gaffeurs incapaci di abbinarsi da soli la giacca con la cravatta o di scaldarsi il pranzo, anzi allontanati dalla cucina, dove “potrebbero fare solo guai”.

Sempre circondati da donne inconsapevoli che si possa fare molto meglio che sorridere, sorridere e, intanto, sperare di sparire in una botola sotterranea che, ahimè, non si apre mai.