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A imperitura memoria

Ciao! Questo è il solito post in cui vi invito a non sprecare troppo tempo in una cosa inutile, però stavolta c’è un colpo di scena. E pure un esempio, che deciderete voi se leggere o no.

Vedete, a Barcellona un mio amico molto nordico inizia ora una relazione con una “lokal”, e l’ho avvertito sulle possibili sfide di certe differenze culturali, che a volte portano a divergenze politiche (e sull’argomento ci ho scritto un romanzo, perché qualcosina ne so).

Il mio avvertimento/spoiler conteneva forse un pregiudizio su guiri e lokalz? Spero di no. Non ho detto in nessun momento: “Andrà a finire di sicuro così”. Ho solo precisato: “Se andasse a finire così, saprai cosa aspettarti e supererai meglio il problema”.

Ebbene, abbiamo discusso un’ora, l’amico è andato un po’ in ansia e io, oltre ad aver perso sessanta minuti che non riavrò mai, sono passata per la pettegola prevenuta che non si fa i fatti suoi. Quindi il mio consiglio stavolta è: se ci tenete all’amico perdetecelo, ‘sto tempo! Ma che non sia un’ora, cavolo. Gli aiuti non richiesti possono risultare odiosi e poco utili, oltre a sprecare le energie di chi li elargisce. A quel punto io metterei giusto la pulce nell’orecchio, e poi l’amico deciderà se alimentarla o meno: in fondo la vita è sua!

Una delle grandi svolte della mia, di vita, è stata quando ho smesso di voler controllare le esistenze altrui.

Qui finisce il post e comincia l’esempio (nooo, l’esempio no!). Proseguite solo se siete in vena di immergervi in un pezzo di cultura napoletana. Siete ancora lì? Bene, cominciamo!

Prendiamo il signore “sceso dalla Val Brembana” (semicit.) che con accento lombardo mi chiedeva, all’uscita della trattoria Da Nennella, se ormai fossero in chiusura: in fondo erano le due del pomeriggio! Inutile dirvi che quel signore veniva subito segnato come “Fuffi” nella lista d’attesa del mitico Ciro.

Mettiamo che Fuffi venga da noi e ci dica: “Sai? Ho conosciuto una tale Mariarca, detta ‘a Pulitona, che mi piace molto. Vive proprio ai Quartieri, dove lavora quel signore un po’ nervoso che mi chiama Fuffi. Non so in cosa sia laureata, anche se mi sembra che lavori nell’hi-tech, però vorrei approfondire la conoscenza: ho pensato quindi di andarci insieme a un apericena con finger food, poi a una rassegna di Kiarostami“.

Capirete che, per amore di Fuffi, potremmo anche prenderci la briga di precisare: “Magari hai capito tutto di Mariarca, Fuffi, ma metti che invece organizza i pullman per la Madonna dell’Arco, e a Kiarostami preferisce Maria Nazionale! E qualcosa mi dice che la grotta del suo presepe ha la vista sul Golfo di Napoli…”.

A quel punto Fuffi, che è una personcina un po’ ansiogena, potrebbe interromperci: “Grazie ma non voglio sapere tutte queste cose! Preferisco che sia una scoperta quotidiana, sai? Conoscersi a poco a poco, assaporarsi piano come un marron glacé…”.

E noi ci sentiamo un po’ scassagonadi e un po’ “capere”, cioè gente che non si fa i fatti suoi. Avremmo dovuto tacere? Forse. Però cavolo, mettiamo che Mariarca sentendo nominare Kiarostami sbraiti: “Come? ‘Ccà aro’ stamme?’. E si nun ‘o saje tu…”. Oppure commenti il finger food con frasi tipo: “Gli uomini da me vogliono solo una cosa: ‘a marenna p’ ‘a fatica!”. In tal caso io spero che Fuffi e Mariarca si sposino comunque di lì a un anno, e si trasferiscano insieme in Val Brembana, o sul presepe con vista sul Golfo di Napoli (che tanto è in scala 1:1). Forse, però, quella parolina che abbiamo detto a suo tempo al nostro Fuffi potrebbe propiziare il felice esito!

Quindi sì, facciamoci i fatti nostri che è sempre meglio, e soprattutto smettiamola coi pregiudizi: per esempio, l’intramontabile Mariarca è un mito a sé stante, e “le donne di Napoli” sono un mondo variegato, come tutte le donne.

Ma inso’, c’è una regola che vale anche per Fuffi: più ne sappiamo di una situazione/località/cultura, e meglio è.

Specie se siamo capaci in ogni momento di prendere ciò che crediamo di sapere, metterlo da parte e lasciarci stupire dalle cose, per come sono davvero.

(La mia prima Mariarca. In memoria di Loredana Simioli, che ci manca).

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Una versione quasi “pastello” dell’abito di cui parlo nel post: l’originale vi avrebbe creato problemi alla vista.

“Allora ricordo bene, che sei italiana!” mi fa il cameriere.

Il Buenas Migas è una catena che vuol essere un connubio tra gastronomia italiana e inglese (sì, avete letto bene). Ci vado ogni tanto col compagno di quarantena, perché ci sembra il modo migliore per punirci a vicenda. Per esempio, io ordino un tè Earl Grey ghiacciato con pezzi di mela, e al compagno di quarantena dichiaro: “Questa è la vendetta per il frappuccino!”. Lui risponde ordinando un caffè con otto litri di latte dentro.

Adesso il cameriere mi ha riconosciuta dopo avermi vista solo un’altra volta, nonostante la nutrita clientela del locale. La mia prima reazione è stata lisciarmi i capelli con fare suadente e dirmi: “Eh, il mio fascino senza tempo mi rende indimenticabile!”.

Poi mi sono resa conto che, sia stavolta che nella mia visita precedente al locale, indossavo un vestito di colore viola, arancione, rosa shocking, fucsia e giallo. Con mascherina rosa shocking abbinata. Diciamo che almeno su un particolare avevo ragione: ero impossibile da dimenticare.

La parte ironica è stata che al tavolo, insieme al compagno di quarantena, mi aspettava il portatile aperto su una lezione del corso di Buddismo e Psicologia evoluzionistica dell’Università di Princeton: la nostra mente, per interpretare ciò che ci capita, tende sempre a trovare la spiegazione più lusinghiera per noi. Insomma, ci abbiamo i bias (una parola che va di moda), e a volte abbiamo pure i bias sui bias.

Devo dire, però, che in un’occasione mi andò anche peggio (oppure meglio?) con una collega di questo cameriere “abbagliato” dalla mia persona. Con la ragazza, pure italiana, al momento di pagare ci fu un malinteso sulla consegna del resto: la mia genuina confusione sui soldi che mi spettassero mi fruttò un’occhiata ambigua, e la sensazione di essere stata scambiata per una furbacchiona che volesse intascare di più…

E invece no! Di lì a poco la tizia, dopo avermi riconosciuta su un gruppo Facebook di italiani, mi aggiunse ai suoi contatti. Visto? Ok, magari si illudeva che come veterana a Barcellona (particolare che si evinceva dai miei post), potessi esserle utile… Oppure chissà, forse le stavo davvero simpatica!

Ebbene sì, il nostro cervello giunge a conclusioni affrettate e non sempre realistiche, in un senso o nell’altro. La soluzione sarà davvero il buddismo, come suggerisce il corso che sto seguendo? Ci ritornerò.

Intanto confesso di non esserne troppo convinta, ma mi sa che anche quello è un mio bias.

(Vabbè, a mali estremi…)

Polyamory Is Growing—And We Need To Get Serious About It – Quillette

Ah, ma non vi ho detto tutto, di quella volta.

Quando vi ho raccontato della prima fiera vegana dall’inizio della pandemia, sono stata imprecisa: il gruppo che mi aspettava lì non era esattamente una comitiva.

C’era il mio ex, e fin qui tutto bene. Andare d’accordo con l’ex comincia a non essere una rarità perfino in Italia.

C’era anche una nuova compagna del mio ex, e anche qui, andare d’accordo con l’ex passa pure per accettare le sue nuove relazioni.

Con loro c’era, però, la convivente della compagna del mio ex. Non la coinquilina: la convivente. Questa convivente e il mio ex non sono gli unici vincoli affettivi della compagna del mio ex. D’altronde, il mio ex non ha solo quella compagna. Se state pensando a scenari da harem e ammucchiate senza fine, ricredetevi: i vincoli in questione sono in rapporto 1:1, così come ve li ho descritti, e da monogama di fatto trovo pure che sia una faticaccia mantenerli, come spiego in questa serie di post sul poliamore.

Perché vi dico tutto questo, adesso? Perché, in quel momento, non capivo che quella situazione (un gruppo di persone adulte che scherzavano tra loro a una fiera), sarebbe stata quantomeno curiosa nel posto in cui sono nata. Anche se le cose stanno cambiando perfino lì.

Che tutto ciò potesse essere “strano”, me ne sono ricordata solo quando è arrivata l’ora di salutarci per andare a casa: a quel punto, mentre il mio ex e la compagna erano tutti picci picci, e occhi a cuoricino, la timidezza della convivente nel chiacchierare con me mi ha ricordato quelle festicciole al liceo, in cui io e un’altra malcapitata reggevamo il moccolo a una qualche coppietta formatasi da poco. Quella situazione così familiare e aneddotica mi aveva ricordato, per contrasto, la singolarità di quest’altra situazione.

In realtà, all’inizio ero scettica anch’io sui risvolti del poliamore. Poi li ho visti coi miei occhi, e sembrano la cosa più tranquilla del mondo.

Ecco, ho la sensazione che succeda con tutto. Perfino l’italica ostilità per i vegani diventa più ragionevole quando, invece di pensare a un fantomatico tizio che mangia erba e “impone agli altri le sue scelte” (ma dove?) i miei amici ricordano me che, da ‘O cerriglio a Piazza Dante, chiedo se la pizza fritta me la possono fare solo con le scarole. E allora il pizzaiolo scopre che si sottovalutava, perché il risultato è divino, e il resto della comitiva si mette pure ad assaggiare!

E non finisce qui! Questo video spiega che il “matrimonio gay”, negli USA, era considerato un tabù finché non si era passati dal discutere un’idea astratta al vedere in TV, e in giro, sempre più coppie LGBTQIA+. Così la sensibilità delle persone era cambiata in tempi record.

Quando un’idea che ci sembra campata in aria assume fattezze umane, e anzi, adotta un volto familiare, ci è tutto più chiaro. Non importa se quel tipo di relazione, quella filosofia di vita ci riguardi o meno in prima persona: ci è molto più difficile respingerla a priori come se fosse una stronzata megagalattica. Viene meno l’elemento più importante perché il pregiudizio resti in piedi: l’ignoranza dei fatti.

Scongiurata quella, il resto è una passeggiata alla fiera.

(Questa canzone è strepitosa!)

Nipponica #272 – Lady Oscar 40 (12): episodi 25-26 Antonio Genna Blog
Cioè, questa viene cresciuta come un uomo per volere del padre, si veste da donna per piacere a uno… Oooh, usciamo dal loop!

Nelle puntate precedenti, oltre a scoprire che sono Claudia Schiffer con la simpatia di Jennifer Lawrence, abbiamo lasciato le ragazze dell’entroterra campano, nell’A. D. duemilaequalcosa, separate come in due blocchi: quelle che, per ottenere rispetto, accettavano più o meno consciamente di entrare nel recinto delle ragazze, e magari ricorrevano a mille strategie per scavalcarlo senza farsi troppo male; quelle che si tuffavano a sacco di patate negli spazi tradizionalmente maschili, rinunciando ai vantaggi del recinto senza acquisire del tutto quelli dell’arena.

Cos’è successo dopo, secondo voi? Beh, tanto per cominciare è successo che siamo cresciute.

E ogni tanto le riconosco, “quelle dell’arena”: le ex ragazze che sono entrate in mondi popolati soprattutto da uomini, a patto di accettarne certe regole. E ne sono orgogliose: ti credo, è una faticaccia immane! La soddisfazione? Essere l’unica. Non sarai mai al vertice di tutto, ma cristo, sei l’unica! L’unico direttore con i capelli lunghi e biondi, l’unico ingegnere che tratta a tu per tu con gli operai anche dopo aver ricevuto il titolo ufficiale di Miss Culo del cantiere (tratto da una storia vera). Ma oh, almeno ti sei scappottata l’alternativa di essere considerata un cocktail esplosivo di ormoni, o una sfornapupi a orologeria. Fino al giorno in cui ti metti di traverso, oppure un pupo lo vuoi sfornare davvero.

Ma difendere la propria postazione, e tirarsela, è una tentazione che un sacco di ex ragazze che “sono state le prime/le uniche/tra le pochissime” sentono forte, proprio perché ci hanno buttato il sangue. Si sono sentite sminuite, derise, o sottovalutate perché nella radiolina a transistor che era l’identità di genere (vedi la seconda puntata), loro viaggiavano su frequenze diverse da quelle che si aspettavano i più. Per un compagno che mi osservava alla sbarra durante l’ora di ginnastica, io avevo “un fisico di merda”, però lo stesso compagno mi considerava una minaccia (benché meno di altri) nella sua triste gara annuale a chi avesse la media più alta. Perché sì, “andavo molto bene a scuola”, anche se per fortuna solo in italiano: la letteratura era comunque roba da donne. Quelle brave in scienze erano fottute, o erano salve da certi energumeni: come l’aspirante ingegnere che mi trovava preferibile a una studentessa di biologia, perché i ruoli ci vogliono. Ai nostri eventuali figli chi spiegava la matematica, la mamma?! Allora che speranze aveva un papà di farsi rispettare, visto che già non cucinava lui e non cambiava pannolini? A. D. 2004, signore e signori.

Dunque, sì: se fossi stata brava in scienze avrei avuto un diavolo per capello, altro che il gel profumato e gli occhialoni a piattaforma di atterraggio di Quelle che… il recinto.

Per fortuna o purtroppo, la cosa più stupida è sfottere queste ultime (che spesso io stessa, ahimé, trovavo ottuse o fifone) e sentirsi speciale perché tu sei nell’arena. La questione andrebbe piuttosto spostata su una domanda fondamentale: che ci fa, qui, quel recinto? Che bisogno ne abbiamo per sentirci protette?

Già vi sento: “Vabbè, sei la solita estremista! La sorella di mio cognato è bellissima e laureata in ingegneria aerospaziale, fa politica e sta con un compagno di movimento…”. Sì, avete ragione, e meno male. Si spera che in quasi vent’anni le cose siano migliorate molto. Però io ho migliorato la mia vita solo migrando, e conosco tante, qui a Barcellona, che magari si lamentano degli autoctoni che non saprebbero corteggiare (mentre io godo), ma poi sono felici di poter andare conciate come vogliono, oppure di passeggiare con un maggiore senso di sicurezza rispetto al posto in cui, come ammetteva un mio compagno di università, “se i miei vicini sono in strada con me e passa una, a volte mi sento giudicato male se non lancio uno sguardo malato anch’io”. Solo migrando mi sono resa conto appieno che questa terra di mezzo, in cui mi ero arruolata come non-uomo, era sì una soluzione alle restrizioni ancora imposte al mio genere, ma comunque non era una scelta molto sana per me. Per esempio, pure se ho molte riserve sull’umorismo iberico, di buono c’è che qui lo sfottò è solo uno dei tanti modi di scherzare, e non valica quasi mai i limiti della stronzaggine: se fanno commenti sul tuo fisico non la devi prendere sempre bene, col ricatto che “chi si offende scemo è” o con la possibilità di ricambiare lo sfottò (come se la pressione estetica fosse la stessa su donne e uomini). Qui è scemo chi offende, di solito, e questo fa tutta la differenza.

Vedete, la cool girl (o ragazza fica) ha un problema: non vince mai. Almeno non vince quella che per me è la battaglia più importante: l’equilibrio tra essere te stessa ed essere rispettata. La cool girl guadagna terreno, conquista spazi e si prende il diritto di parola, ma in cambio è chiamata a sacrificare, che lo voglia o no, i vantaggi di chi quegli spazi non se li prende e preferisce ripiegare su quella specie di aura sacrale che vede le donne come “il diverso“. Un diverso che nelle fantasie è “intoccabile” in più di un senso, perché toccare può essere ancora sinonimo di mancare di rispetto (pensate a “non starei mai con la sorella di un amico”). Le “vere donne” sono intelligenti, certo, ma proprio perché lo sono “non si perdono in battaglie inutili” (cioè, in quelle che non convengono al fidanzato). Sono quelle che possono sottoporti a delle “prove“, per sincerarsi del tuo interesse, e magari proibirti pure di avere delle amiche (ciao, sono la tipica “amica segreta” di compagni storici e colleghi di università). Peccato che lo facciano anche perché sono quelle che sanno che prima o poi rischiano le corna, in una società monogama in cui l’amore è possesso, ma gli uomini sono visti come queste bestie indomabili e, oh, “sappiamo come sono fatti”. A volte non si tratta neanche di cornificarle, le donne, ma di “tradirle” con una serata in pizzeria insieme ai “compagni”, magari con la partecipazione straordinaria di quella che ti lascia dire pucchiacca in sua presenza.

Sono grata al mio nuovo paese per avermi dato l’opportunità di essere me stessa fino in fondo. Sì, sono sicura che avrei potuto essere così anche in Italia, solo che lì non mi è capitato. Credo che possiamo far sì che capiti più spesso, specie decostruendo certe dinamiche di sessismo benevolo, per cui le donne sono “l’alterità”: basta con gli psichiatri vecchio stampo che infestano le televisioni, e basta anche con quefta falfa divifione tra puttane e spose, come cantava un gettonatissimo guru dei miei tempi: ovvero, la distinzione corpo-mente che, invece di emancipare le donne, le frega. Si presenta con un altro ricatto da smontare: l’unica condizione per realizzarti da un punto di vista intellettuale, è far sì che gli uomini del tuo ambiente dimentichino che hai un corpo. E invece no! Loro sono autorizzati a coniugare corpo e mente, tu pure possiedi entrambi, quiiindiii…

La strada sarà lunga, ma meno di quanto immaginiamo: abbiamo visto come certe sensibilità cambiano nello spazio di pochi anni, come per ondate improvvise.

Cavalchiamo questa, di ondata: la freschezza dei cambiamenti, che pure ravviso qua e là, è l’unica cosa “cool” che voglio ancora nella mia vita.

E una vera caccia era quella che avveniva durante il carnevale per le sfarzose vie della cristianissima Roma del Seicento: il malcapitato ebreo che per una qualsiasi ragione si aggirava in quei giorni per le strade, veniva preso, inseguito, massacrato a colpi di pietra o di bastone.

Dall’alto dello step, su cui ciondolo leggendo Maria Attanasio, osservo l’ebreo di casa (per origine e non per credo) che si stacca dal computer aziendale su cui fa il telelavoro, e siede col tablet sul divano.

Gli sorrido, si chiede che mi prenda.

Mi prende che, se fossimo nati nella Roma del Seicento, rispetto a lui avrei avuto un privilegio: quello di essere battezzata. Donna, ma battezzata. Come ce la giochiamo ai punti, donna battezzata contro uomo ebreo? Boh, magari dipende dal mestiere di papà. Si chiama intersezionalità.

Certo non mi sarei sentita in colpa per un vantaggio conferito da un fonte battesimale, in cui mi fossi imbattuta quando neanche parlavo. Così non mi aspetterei che si sentisse in colpa lui per una circostanza che nel suo caso, per forza di cose, avrebbe preceduto la circoncisione: possedere, appunto, un pene da circoncidere! Ma questo, lo so per esperienza, non ci trova d’accordo.

Lui crede nel “siamo tutti persone”, e nella bella storia di Varoufakis presidente (in realtà, portavoce) dell’associazione di studenti neri alla London School of Echonomics. Pure se era bianco come il mio ipotetico culetto, sospeso su un fonte battesimale romano del ‘600. (E pure se, come specifica Varoufakis stesso nel link che avrete certo visitato, la definizione di “black” in quel contesto era più complessa di quello che crediamo.)

You Can Check Your Privilege At The Door - Funny Journal: Amazon ... Ogni volta che discutiamo di privilegio, prima o poi affiora il concetto di colpa: tante persone non sanno pensare all’uno senza l’altra. Questa giornalista, ad esempio, sembra convinta che Michela Murgia, nel dire che gli uomini hanno un privilegio per il solo fatto di nascere tali, li stia accusando di avercelo, come se lo esercitassero tutti. Mi dispiace e mi mortifica scoprire che in Italia, nel recente 2018, il dibattito fosse ancora fermo al “Not all men“.

Io mi sento forse in colpa, di essere bianca? No, ci sono nata, non ho scelto io la quantità di melanina che mi avrebbe peraltro impedito per sempre di abbronzarmi, ma mi avrebbe regalato una vivace tonalità lampone alla prima spedizione sotto il sole di giugno.

Il mio privilegio lo spiegava una sindacalista latina che, nel corso della proiezione di questo documentario, precisava quante più probabilità di lei avesse una donna europea bianca, di classe media, di trovare un lavoro, o almeno di non essere trattata con ostilità o condiscendenza. Il fatto che le cose non siano facili neanche per noialtre color latticino – motivazione addotta, mutatis mutandis, anche da certi uomini precari e in crisi del nostro tempo – non toglie che sia ancora più difficile per altre categorie: a meno che proprio ci rassegniamo a non guardare al di là del nostro naso. Ecco, questa sì che sarebbe una colpa: esercitare coscientemente il nostro privilegio. Che va usato piuttosto, come suggeriva sempre la sindacalista, per impegnarci in una causa comune (quella di una società più giusta per tutti i suoi membri) in cui non tutte le persone coinvolte hanno la stessa visibilità.

Attenzione: questo non significa diventare una versione moderna del nostro ministro greco preferito, e farsi portavoce, in un contesto del tutto mutato, di persone che quel determinato privilegio non ce l’hanno. Mettermi nei loro panni è un buon esercizio empatico, ma la libertà (dai pregiudizi, dalle discriminazioni…) non si è mai ottenuta a botta di concessioni da parte di chi già ne ha un pezzetto. Non sono neanche sicura di condividere l’ottimismo di Toni Morrison, quando invitava i suoi studenti a dare potere ad altra gente (il famoso, ambiguo “empowerment”), e ho da sempre delle riserve anche sull’ammirevole operazione di autrici come Assia Djebar e la stessa Maria Attanasio della citazione iniziale, convinte di poter “dar voce” pure a donne del passato.

Ma di una cosa sono certa: questa storia della colpa ci confonde e ci separa, perché, scusate, è indice d’insicurezza. Mi sembrano insicuri gli uomini che, dopo la confusione iniziale di apprendere quanti vantaggi, anche nella miseria, possa conferire un pene rispetto al non avercelo, fanno la voce grossa contro la messaggera di turno in insulti assortiti.

Vabbe’, ragazzi, anche io trovavo insopportabile la prima puntata di Dear White People: guardavo la protagonista Sam, che mi sta ancora profondamente sul culo (#teamCoco), mentre mi spiegava come il blackface ancora tollerato dalla Rai non fosse accettabile, e pensavo “Ma va’”. Poi ho finalmente capito che ehi, megalomania canaglia, non ce l’aveva proprio con me! Di certo, non ce l’aveva con la parte di me che ha scelto il femminismo e l’intersezionalità e sa che con quello ha fatto solo la metà del suo dovere.

Non è difficile.

Privilegio: ce l’abbiamo per ciò che siamo (genere, origine, classe sociale).

Colpa: ce l’abbiamo per ciò che facciamo.

Il primo va messo da parte; la seconda, se la sentiamo per qualcosa che siamo, e non qualcosa che abbiamo fatto, buone notizie: non ha fondamento. Non posso sentirmi in colpa per essere bianca, ma dovrei se facessi un’osservazione razzista.

Buona autocoscienza a tutt*, a tuttu, a tu… Insomma, stateve buon’!

 

Image result for cartolina napoli Il ragazzo arriva che il gioco è già iniziato, così decidiamo che il prossimo ad andare sotto è lui.

Non se lo fa ripetere due volte. Siede al tavolo nel suo metro e settanta scarso, e ci rivolge un sorriso timido – in fondo siamo in dieci a guardarlo – che gli trasforma gli occhi in due virgole. O questa è l’impressione che ho io, e mi chiedo subito se non sia un paragone razzista. Anche la carnagione che sembra cotta dal sole è di quelle che ti fanno almeno capire, e mai giustificare, perché una volta si dicesse “pellerossa”.

Ci parla in catalano, perché il gioco è semplice: si tratta di indovinare la città da cui proviene ognuno, facendo una domanda a testa nella lingua che vogliamo perfezionare. Solo io, che coordino il tavolo, faccio un misto tra il catalano che dovrei ripetere e lo spagnolo che capiscono quasi tutti. A questo scambio linguistico in particolare, di solito o sono italiani o vengono per l’italiano.

“Nella tua città c’è il mare?” è una delle domande classiche del gioco, rivolta in molti modi, con tante sgrammaticature.

Il nuovo arrivato spiega di sì, e all’inizio dobbiamo pensare tutti a qualche posto sull’Atlantico, in America Latina. Qualche razzista su Youtube direbbe anzi che ha la “faccia da indio”, come fanno con Thalia (e allora la fan di turno protesta non mandandoli affanculo, ma affermando che la cantante sarebbe mestiza). Man mano che il gioco va avanti, però, le cose si complicano, e i conti non tornano più: i piatti tipici che il ragazzo descrive alla lontana, per non farci indovinare subito, fanno molto Mediterraneo. Quando ormai è il mio turno di fare congetture, lui afferma che nel suo paese ci sono molte regioni, venti, gli sembra. Gli altri sono ancora spaesati.

“Sei italiano” non chiedo, affermo.

Allora quello caccia un accento di Rimini come non ne ho mai sentiti prima. Poi si affretta a precisare che suo padre è cileno. Deve farlo spesso, come il collega nero con cui parlavo inglese da mezz’ora, a Manchester, prima che una supervisor ci rivelasse che eravamo connazionali, e subito lui: “Mia madre è giordana e mio padre del Ciad“. Più che rivendicare origini multiculturali, mi sembrava preso da una necessità di spiegare, che almeno io non sentivo.

Anche il coordinatore del gioco di cui sopra, passato un momento a curiosare al nostro tavolo, si accorge del nuovo arrivato e fa la battuta: “Tu hai l’aria di uno che è venuto a imparare l’italiano!”.

Ma il gioco non finisce lì. Adesso tocca a me. Devono indovinare la mia città.

E, come sempre in questi casi, la gente comincia a squadrarmi: biondiccia ma non alta, occhi chiari ma di colore incerto, non proprio le curve di Sofia Loren. Con me una volta si è sbilanciato solo un amico catalano, convinto di conoscere bene l’Italia: “Lei si vede lontano un miglio che è del Nord!”.

I connazionali intorno al tavolo giungono alla stessa conclusione, perché, quando comincio a parlare di “impasti d’acqua e farina” pensano a focacce e pani estrosi, e quando infine menziono il mare non hanno più dubbi: “È di Genova!”, bisbigliano tra loro.

Soprattutto il ragazzo di Rimini è proprio convinto, aspetta solo il suo turno per smascherarmi.

Vi racconto tutto questo perché dovremmo tenere a mente quello che mi disse un amico del Forum di Lettere, per consolarmi di una gaffe che avevo fatto con un collega gay che credevo etero: “Mai dare per scontato che non daremo qualcosa per scontato*.

Alla fine del gioco, col ragazzo ritardatario ci mettiamo a chiacchierare un po’: la genovese e il latino. Ci troviamo piuttosto simpatici.

(Ok, ve l’ho raccontato al presente, ma l’episodio è avvenuto un anno fa. Ci ho ripensato quando ho letto l’avventura di questa ragazza, che beccata a Roma senza biglietto insieme a mezzo autobus, al contrario degli altri si è vista chiedere il permesso di soggiorno. “Non ce l’ho”, ha dichiarato, e già la stavano portando in questura. “Non ce l’ho perché sono italiana” ha specificato poi. In un’altra occasione aveva scritto un commento sul corazziere nero e lo stupore generale che l’aveva accolto, e aveva concluso con uno scherzo su una pelliccia animalier. Quando un’amica nei commenti le aveva chiesto “dove potesse trovare la pelliccia”, lei aveva risposto: “T’ ‘a vuo’ accatta’, eh? Vrenzulooo’!”. Avevo dunque capito che eravamo conterrOnee.)

L'immagine può contenere: 8 persone, tra cui Marcello Belotti, persone che sorridono, folla e spazio all'aperto

Foto di Stefano Buonamici @stefanobuonamiciphotographie

Stamattina, Gad Lerner ha postato questo brano di Francesco Matteo Cataluccio. Mi ha colpito l’alzata di scudi, anzi di… offendicula, contro una famiglia di senegalesi subentrata nel condominio d’infanzia dell’autore. A Barcellona lo fanno a volte contro noi stranieri europei, mischiando un po’ le carte della filosofia locale Refugees welcome, tourist go home

Mercoledì, i miei amici a Barcellona manifestavano con la comunitat gitana in solidarietà con i rom italiani. Io, invece, ero in giro per Napoli a fare cose.

Tipo la dichiarazione dei redditi, seduta su una panchina in Via Luca Giordano.

Oppure il Lascia o raddoppia a distanza per vendere casa.

Oppure leggevo un brano del mio racconto contenuto in questa raccolta: il piglio allegro della presentazione mi aveva fatto escludere il passaggio, un po’ didascalico, che voleva provare al pubblico che noi vegani non siamo il diavolo. Ma sembra che oggi, ancor più del seitan preconfezionato a peso d’oro, vanno di moda i pregiudizi.

Soprattutto, giravo per Piazza Garibaldi, tra i baretti che una volta vendevano marenne unte, e che ora sono pizzerie fresche di restyling, in cui qualche cameriere nero “come il carbon” s’industria a parlare l’inglese che i colleghi autoctoni non tanto masticano.

In una traversina del Corso Umberto, tra icone sacre del XIX secolo, i negozianti pakistani chiudevano le saracinesche tra i pochi turisti e gli autoctoni che rincasavano: avevo trovato il posto in cui avrei potuto essere di qualsiasi posto, l’unico che ormai senta davvero mio.

Resta l’impressione che il problema non sia solo di etnia, ma di classe: in Italia non vogliono i poveri. Forse si sarebbero levati meno offendicula se l’autore del brano di cui sopra avesse dichiarato che ad abitare in quel palazzo ci sarebbe venuto “l’ambasciatore del Senegal“. Stessa cosa del mio antico proprietario, a Forcella (…), che aveva schifato un vietnamita perché “non voleva cinesi”, per poi andarci d’amore e d’accordo quando aveva visto che era uno studente fuorisede come tanti. Il pregiudizio è che tutti gli stranieri non nordici siano migranti, e che tutti i migranti siano poveri. E i poveri, si sa, sono anche brutti, sporchi e cattivi. Metti che sputano a terra e fermano le ragazze più di tanti miei compaesani. Metti che l’odore dei loro cibi invade le scale più del ragù, e, se non ti piace respirare quello un’intera domenica, si vede che era carne c’ ‘a pummarola.

W i poveri, dunque, e se stranieri meglio ancora: ci permettono di passare sottogamba le evasioni fiscali, la caccia alle raccomandazioni, e la paura che nostro figlio non trovi mai lavoro. E non perché c’è uno straniero a rubarglielo, che nostro figlio “non ha studiato per tanti anni per andare a raccogliere pomodori”; ma perché chi concentra tutta l’attenzione su quanto siano brutti, sporchi e pericolosi gli stranieri non è in grado di dargliene uno.

Alla luce di tutte queste osservazioni, è la prima volta che mi sento davvero straniera anch’io.

Risultati immagini per una noche fuera de control cartel Camminavo verso plaça Espanya, in grave ritardo sulla mia passeggiatina serale, quando mi ha colpito un dettaglio del cartellone cinematografico che ultimamente mi nasconde la vista di chi aspetta l’autobus sul Paral·lel.

Stavolta a interessarmi non erano né Scarlett Johansson né le comprimarie alle prese con un improbabile addio al nubilato, ma il nome della regista e sceneggiatrice: Lucia Aniello.

E niente, ho pensato che, per vedere una Lucia Aniello su un manifesto di Hollywood ne sono passati, di piroscafi sull’Atlantico.

Perché per me, napoletana di ceto medio che a sua volta non si chiama proprio Jennifer, Lucia Aniello è un nome “con le mani”. Lo diceva ai primi del ‘900 il filosofo Eugeni d’Ors, a proposito di una Teresa che veniva, per lui, a rappresentare tutta la “razza” catalana. Invece una Lucia Aniello, nei pregiudizi delle parti mie, potrebbe evocare una mamma a tempo pieno in grado d’indovinare i tempi di cottura della pasta ammescata nei fagioli.

E mai m’immaginerei di vederla su un manifesto di Hollywood.

Per tre motivi:

  1. è donna;
  2. è terrona;
  3. non chiamandosi Martina o Valentina o Simonetta, nomi in voga ultimamente dopo secoli di Mariegrazie e Immacolate, possiamo sospettare che sia “di umili origini”.

Perché una Lucia così finisca a Hollywood, questa matassa informe di pregiudizi che mi fa schifo pure scodellarvi si deve disfare e tornare a imbrogliare, si deve mescolare con altri grovigli di popoli e culture e deve sopravvivere pure a quelli, ai nuovi pregiudizi, ai nuovi immaginari.

Emigrare è anche questo: spostare immaginari, cambiarli di forma, rielaborarli. Reinventarsi.

Restare? Restare è combattere, secondo qualcuno. Contro i pregiudizi di classe, di genere, di etnia. Magari con l’aiuto di chi se n’è andato, ora che andarsene non significa farlo per sempre.

In attesa che una Lucia Aniello, donna e terrona come me, e pure povera, finisca dalle periferie ai manifesti di Ollivùd.

Immagine correlata Ho conosciuto un simpatico signore argentino che mi chiama “tanita”. Non è il diminutivo di una bambola della mia infanzia, ma deriva da “tano”, termine che in Argentina e Uruguay designa le persone di origine italiana. Sta per “napolitano”, perché indovinate da dove venivano tanti italiani approdati oltreoceano. Sarebbe bello che certi argentini se ne ricordassero al momento di vendere pizza al taglio che somigli a pan canasta, ma tant’è.

Intanto, il mio amico a un certo punto mi viene a dire con una risatella:

– Ma com’è possibile che tu sia tana? Tutti i tanos sono anziani!

Cioè, le persone nate veramente a Napoli, in Argentina, ormai sono attempatelle.

Se ci pensate, è uno scherzo che rivela tante cose serie. Perché mi riduce, con ironia consapevole, all’immagine che questo signore ha degli italiani, che in realtà nel suo caso sarebbero italoargentini. Fuori da quella, nello scherzo, non esisto.

Con estrema serietà, invece, qualcuno chiedeva all’attrice di Twin Peaks che interpretava Shelly Johnson, incontrata nell’orario in cui trasmettevano la serie, cosa ci facesse in giro, invece di stare a recitare in TV! Anche lì c’era la riduzione, stavolta di un’ingenuità spaventosa, dell’attrice al suo personaggio.

Purtroppo non è infrequente essere ridotti all’immaginario di qualcuno. Ne sanno qualcosa le persone corpulente quando dimostrano di essere atletiche (un amico escursionista ha smentito a suo tempo i miei personali pregiudizi), e gli italiani non proprio fermi al Piccolo Mondo Antico visti dagli stranieri (“Viaggi da sola e leggi? Non sei come le altre italiane!”).

A tanti fa più comodo incasellarci una volta e per sempre in una categoria sola. E noi ricambiamo volentieri: spesso non riusciamo a tollerare che il prossimo abbia una vita al di fuori dei nostri immaginari. Non è così incredibile che le scrittrici arabe che riescano a pubblicare siano quelle che “denunciano la condizione femminile nel loro paese”, cosa buona e giusta, ma pensiamo che, tra i miei amici spagnoli, l’autore italiano più conosciuto dopo Calvino è Saviano. Italiano mafia, arabo medioevo… continuate voi.

L’esempio che più mi colpisce, da tempo, è quando a una donna dicono: “E sorridi!”. Ricordo la prima volta che ascoltai il rimprovero “Non sorridete più”, mosso da un ospite del Maurizio Costanzo Show, al quale una ragazza rispose: “Eh, è vero, siamo così di fretta la mattina che ci dimentichiamo di farlo”. Ero adolescente e m’indignai molto, avrebbe dovuto dire: “Non devo sembrare contenta solo per far piacere a te”. Ma erano tempi in cui Internet non era così diffuso, non c’erano video che denunciassero cosa significasse per una donna anche solo passeggiare, e le narrazioni erano più monotematiche.

Adesso però che non sia piatta pure l’interpretazione, di tutto questo. A me “sorridi” non l’hanno detto solo uomini e non sempre in un bonario rimprovero. Me lo raccomandavano delle ragazze a scuola, e altre che non mi dicevano niente mi confessavano anni dopo che sembravo avere la “faccia da seccia”. Possiamo fare un lungo discorso su quest’obbligo di mostrarsi sempre felici e la gente può sempre farsi i fatti suoi, ma devo ammettere che tendevo a prendere tutto molto sul serio, da ragazzina, e perdere quest’abitudine mi ha solo giovato.

Una volta mi ha raccomandato di sorridere una giovane senzatetto a Tolosa, gridandomi “Souriez, madame!”, e disegnandosi con le dita, in caso non avessi capito, un sorriso alla Sofficini Findus. Nel suo caso, quindi, non c’era niente di discriminatorio, era un invito a prendersi la vita con più leggerezza da una che ci riusciva nonostante i problemi.

Per tutto il resto, c’è il napoletano in cui insulto il fighetto di turno nel Raval che pretende di spiegarmi quanto sembri stanca, tornando a casa con la faccia ‘ngrugnata.

Però gli immaginari altrui sono complessi, più di quanto crediamo.

Non ci resta che prenderne quello che vogliamo e restituire il resto al mittente.

Ma dico io. Una medita da anni di scriverci un articolo, con citazioni e bibliografia e tutto l’ambaradan, e arriva tomo tomo Truman Capote a rubarle l’idea. E solo perché è nato quei 60 anni prima. Che significa? Anch’io avrei voluto vivere negli anni ’60, adoro quei vestiti, e poi divido la storia in a. P. e d. P. (avanti Pincus e dopo Pincus). Da quando Cartesio mi ha rubato a 4 anni l’idea che la vita potrebbe essere un sogno (frutto delle mie premature notti bianche) è un continuo, anacronistico plagio ai miei danni.

Insomma, l’altro ieri leggevo finalmente Colazione da Tiffany (“perché è troppo bello, vedrai, mica come il film…”) e scopro che il brasiliano José, uno degli amori meno assurdi di Miss Golightly, non si rende conto di che gentaglia frequenti perché, da bravo “trapiantato” all’estero, è incapace di assegnare alla gente il proprio posto nel mondo (“Perhaps, like most of us in a foreign country, he was incapable of placing people, selecting a frame for their picture, as he would at home”).

Minchia, mi dico. Quello che ho sempre pensato io.

Ok, magari non in inglese, e a ben vedere manco sempre.

Arrivando a Barcellona sono caduta anch’io, per fortuna, nella trappola di José.
Per capire quanto la posizione sociale influisca sulle proprie conoscenze non bisogna scomodare Bourdieu. Ho imparato fin da piccola il mio posto nel mondo, che era il seguente: io ero perbene, il mondo era quasi sempre cafone, io parlavo italiano, il mondo cafone parlava napoletano, magari rubava, faceva le stesse cose dei film di Mario Merola (un altro cafone) e io dovevo essere gentile con tutti ma non dare confidenza agli sconosciuti, specie se cafoni.

E vedo che la gente perbene prospera, dato che su youtube i neomelodici sono considerati più volgari di Laura Pausini, e i fan di Laura Pausini commentano spesso le loro canzoni con “che gentaglia”.

Ora, quando lasci il tuo paese tutto questo cessa almeno per un po’.

Improvvisamente sei tu a essere fuori posto, e ti tocca dimostrare che sei “perbene”. Il che ti dà un’opportunità sublime: non capire più un cazzo su chi sia perbene e chi no.

I pregiudizi, m’insegnò una prof. durante un esame (quindi avrei dovuto saperlo io) sono un modo ragionevole per prepararci ad affrontare l’ambiente che ci circonda, l’importante è non lasciare che ti dominino. Quindi un pregiudizio è allo stesso tempo un limite e un’opportunità.

E scompaginare il castello di carte su cui si fonda la tua identità lo è altrettanto. Ti ritrovi così a condividere l’appartamento con gente che parla l’equivalente del napoletano, e allora ricordi che è proibito negli uffici pubblici mentre gli amici catalani cominciano a romperti con la storia che devi imparare la loro vera “lingua nazionale”.

Intanto ti affezioni a coinquilini che, a meno che non indossino divise come i soldati e i fricchettoni, non sai classificare subito, anche perché viene meno l’importante indizio rivelatore del “gusto”. Certo, quei leggings leopardati sono orrendi, ma che ne sai se li mette pure la principessa Letizia, quella che veste Mango? E sputare per terra, fare pipì in strada, lo fanno pure gli studenti universitari. E allora?

Allora, per la prima volta in vita tua, ti fai amicizie senza pregiudizi, perché non sai come formartene. E scopri molte cose interessanti: che la gente con la metà dei tuoi studi può avere certe intuizioni che te le sogni, e che quella che ne ha il doppio può vivere in un piccolo mondo antico che somiglia a quello che hai lasciato alle spalle. C’è chi parte e chi resta, e mentre i secondi a volte fanno quadrato contro le differenze, i primi lo fanno proprio in virtù di quelle.

Ma non illuderti: imparerai a farteli, i pregiudizi. E ancora una volta sarà un limite e un’opportunità.
Io per esempio noto una proporzionalità diretta tra ottusaggine e ossessione per l’igiene. Tra la tanto celebrata gentilezza della gente del Sud e il livello d’invadenza che possiamo raggiungere.

E poi ho visto che il razzismo non è questione di pelle, ma di classe. Quando l’America imparava a odiare gli italiani perché brutti, sporchi e cattivi, mica discriminava i fisici italiani che oggi lavorano al MIT, ma i cafoni (d’altronde, a noi cafoni ci han sempre chiamati). Cambia l’immigrazione, ma non mi sembra cambiare il fatto che 9 volte su 10 siano i poveracci con poca istruzione e pochissimi soldi a cambiare paese.

E a Barcellona, come d’incanto, il problema si risolve. Fai il concertino di musica “etnica”, le perroflauta fanno svolazzare le gonne daltoniche sui jeans, corteggiate da stranieri che fanno l’equazione “mi sorride = ci sta” (come a casa!), ti abbuffi di samosas e pensi che hai fatto l’integrazione.

E invece scopri che la vicina di 18 anni è sposata con un connazionale per un matrimonio combinato dai genitori, ed è scandalosamente felice. Mentre la coinquilina spagnola scopre che le tue amiche italiane hanno una reverenziale paura dei Tampax e non viaggiano mai da sole, e ci rimane secca come te quando l’hai vista pisciare per strada la prima volta.

Mi sono accorta invece che all’apertura mentale non sacrificherò la felicità. Ho chiuso le porte di casa mia a chiunque non mi garantisca due chiacchiere rilassate e qualche risata. I poveri ma belli che non ne sono capaci non ne hanno colpa, ma tant’è. E i connazionali con tre lauree e tanti viaggi alle spalle non hanno scuse.

Con questo metodo ho snobbato allo stesso modo ricercatori universitari e semianalfabeti.

Un pregiudizio però non mi passerà mai. Non importano le origini, il colore della tua pelle o le tue idee politiche: se metti il parmigiano sulla pasta col tonno, difficilmente andremo d’accordo.