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Io: “Non so se ho capito bene la consegna”.

Prof.: mi mette zero.

Doveva succedere, altrimenti mi rifiutavo di concludere la mia trafila di titoli inutili! A parte il prof. “mucho español” che mi bocciò un saggio sull’antibellicismo in Virginia Woolf e Käte Kollwitz, di solito mi appioppano insufficienze lievi, perché io sono una leggenda nel non seguire la traccia.

In questo caso, l’intera classe virtuale del master sembrava insoddisfatta dell’ultimo corso, per questo non partecipava più alle attività virtuali “non vincolanti”, come questa rassegna succinta di tre abstract per cui ho preso zero: tanto il voto (è il caso che lo specifichi) non avrebbe influito sulla valutazione finale. A questo punto, io avevo svolto il compitino (posso dirlo?) per pietà, ma non avevo capito bene quale fosse il numero limite di parole, e se fai una cosa simile in un’università inglese non solo prendi zero, ma ti chiama la Regina in persona per cazziarti male, e condannarti a morte.

La questione, però, è un’altra: guardate come mi sbagliavo nel pensare di fare una “buona azione”! Mi sono detta che non ci voleva niente a buttar giù le mini-rassegne, e in realtà ci sono volute due o tre ore, che non riavrò mai indietro. Inoltre, scusate eh, dopo quasi due decenni di ricerche accademiche, saprò anche riconoscere un articolo utile a partire dall’abstract, che era l’obiettivo del compitino.

Quindi, per accontentare un’assistente annoiata, che magari sperava di non avere compiti da correggere, ho sprecato tempo che avrei potuto dedicare al nuovo romanzo, e per ricavarne cosa? La soddisfazione di chiudere la mia carriera accademica con uno zero!

Perché deviamo dal nostro cammino preferito, anche se non è necessario?

Su questo piano, sono io a mettermi un bello zero! Voi, invece, aggiudicatevi un bel dieci nella materia più importante: le vostre priorità.

(Ecco, adesso voglio anche questo zero qua!)

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Da cookpad.com. Anche in Cina mettono l’ananas in posti insospettabili…

Ieri sera, con il compagno di quarantena, mi sono seduta ai tavolini all’aperto del peggior cinese a Chinatown.

Sul serio: si mangia da favola in tutti gli altri locali dei dintorni, che vantano una nutrita (è il caso di dirlo) clientela cinese. Che ci facevamo, noi, al peggior cinese di Chinatown?

Beh, era l’unico con i tavolini all’aperto. L’unico “storico”, almeno. E in quel momento la nostra priorità non era mangiare bene. Il compagno di quarantena voleva un posto con un po’ di verde, e vicino a noi c’era un albero. Io non disdegnavo di prendere il fresco, e volevo mettere giusto qualcosa sotto i denti: erano le dieci. La vita è fatta di priorità.

E proprio di questo vi volevo parlare. Con l’arrivo dell’autunno, in casa mia ci chiediamo cosa fare.

Il compagno di quarantena è tornato deluso dall’ennesimo camino de Santiago: dormire all’addiaccio non gli dà le soddisfazioni di una volta. Sarà il cambiamento climatico?

Io, invece, sono già stanca del mondo editoriale italiano. Scrivo perché è quello che voglio, ma a certe condizioni ci tengo poi tanto a pubblicare?

Quanto ad Archie, sta escogitando nuovi trucchi per sgattaiolare fuori casa (campa cavallo).

Parliamoci chiaro: io adoro scrivere, il compagno di quarantena adora pellegrinare, e Archie, beh, adora le porte aperte. Ma qualche volta sarà venuto anche per voi, anche se avete il lavoro del secolo e una vita perfetta, il momento di chiedervi: cui prodest? O anche: chi m’ ‘o fa fa’?

A quel punto, ciò che amiamo in assoluto (e che è sempre bene tener presente) può passare in secondo piano rispetto ad altri fattori.

Ieri sera, la folla del peggior cinese di Chinatown non aveva dubbi: era gente del posto, a caccia di tavolini all’aperto e birra economica. Rispetto alle bravas bisunte, saziavano di più gli “spaghetti cinesi saltati”. Erano anche più economici dei mien che, proprio dietro l’angolo, scomparivano a vassoiate nelle salette prenotate da comitive cinesi, accorse per la loro versione della “mangiata di pesce”.

A noi, invece, toccavano spaghetti intrugliati di soia e una zuppa acquosetta. Quando sono entrata a pagarli, un tizio del posto chiedeva alla proprietaria a che ora chiudesse la terraza (cioè, i tavoli all’aperto). A mezzanotte, ha spiegato lei. Il tizio era quasi angosciato.

“Si può restare anche più tardi, vero?”

La proprietaria ha riso. Ce la vedevo, a spiegare a due agenti catalani che lei deve per forza chiudere all’una: in fondo, il suo è l’unico cinese orientato a una clientela locale, che preferisca la birra alle melanzane al profumo di pesce (che sono l’equivalente cinese delle vongole fujute).

Come dicevo, la vita è fatta di priorità: cambiano non solo a seconda della persona, ma anche a seconda del momento.

A volte, con i migliori mien del mondo dietro l’angolo, preferisci un tavolino all’aperto, una birra fresca, il venticello di fine settembre.

Le mie Collaborazioni

Stamattina, ancora in preda al sonno, cercavo l’occorrente per la colazione nella penombra della cucina, e mi sono ritrovata a pensare che mi conviene vivere con un uomo almeno per questo: mi serve qualcuno che lavi i piatti.

Alt. Stop. Avevo un sonno di pazzi. Odio lavare i piatti. In realtà odio lavare, e basta. Quando c’è il compagno di quarantena, io cucino e lui lava: il delitto perfetto, anche perché lui al massimo scalda al microonde certe pastine istantanee su cui schiaffa una scatoletta di sardine. Il bello è che lui odia lavare quanto me, e diciamo che non è attentissimo ai dettagli… Quindi la gente che ci viene a trovare, se è fissata con la pulizia, se ne va con tanti di quei numeri da giocare che potrebbe fare tombola piena.

Ma tant’è: avrete intuito che il compagno di quarantena è partito di nuovo. Si è pure anticipato, rispetto all’anno scorso: ogni tanto, quello lì prende lo zaino e se ne va, senza sapere neanche lui dove (lo so io: si farà per la trentesima volta il cammino di Santiago). Soprattutto, non sa quando tornerà, e non ritiene che ciò sia un grande problema, in una relazione, così come per lui non è un problema spegnere il cellulare e riaccenderlo solo al ritorno.

Intuirete che l’anno scorso ero piuttosto incazzata perfino io, che non sono nota per la mia convenzionalità nelle interazioni umane. Quest’anno, invece, non so come spiegarvelo, ma sono piena di speranze: come vi ho già detto, la quarantena mi ha fatto rivedere le mie priorità, ma saprete meglio di me che anche la più bella e tranquilla delle relazioni comporta un bel po’ di lavoro, che si tratti di decidere chi lava i piatti o di affrontare lo scoglio della comunicazione efficace. Quindi, diciamo che finora ho avuto poco tempo per esplorare come avrei voluto le seguenti questioni:

  • Flessibilità nei progetti: a 35 anni avevo una relazione un po’ più, ehm, convenzionale, e volevo essere madre. Adesso ho 40 anni, il sospetto di essere lithromantica, e una fertilità che, stando a certi test pure datati, potrebbe essere battuta pure da Maga Magò al decimo anno di menopausa. Cos’altro potrei fare della mia vita, senza la croce e delizia di mettere al mondo un altro essere umano? Come metto a frutto le risorse che l’altra opzione mi avrebbe succhiato via, benché per una giusta causa?
  • Metamorfosi: sfumato il progetto delle tette a fiori, mi sto trattando le occhiaie e sto considerando la possibilità di farmi i capelli lavanda. Mi ha divertito il fatto che la dottoressa del trattamento alle occhiaie girasse come un’anima in pena per la sala d’aspetto, alla ricerca della sua nuova paziente quarantenne, e non la trovasse da nessuna parte, perché lì c’ero seduta solo io. E non si tratta di assecondare la pressione estetica che ci vuole giovani per sempre. Si tratta di non assecondare i pregiudizi, duri a morire, su come si debba essere a quarant’anni.

Io, per esempio, sono contenta. Contenta che il compagno di quarantena sia andato a cercare sé stesso, anche perché, rispetto all’anno scorso, ho molte più informazioni. So per esempio che da sola, nonostante le circostanze dell’anno scorso, ho passato un’estate incredibile: un giorno al mare e uno al parco, con letture importanti, e amici costretti dalla pandemia a scoprire com’è Barcellona, quando la abita solo chi le vuole bene per davvero.

Ormai so che la conoscenza è l’anticamera della soluzione, e il resto è esperienza: il modo migliore per assimilare ciò che crediamo di conoscere, è arrivare a “sentirlo”.

Io sento una noia infinita al pensiero di dover lavare tutti quei piatti di là.

Ma vabbè, si tratta solo di cambiare la spugnetta, rimpiangere Mastro Lindo, e darci dentro.

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Vi capita mai, in questo fiorire imperterrito di fronde che non sanno niente di pandemie, di pensare ad altri rami? Mi riferisco a certe appendici che una volta spuntavano qua e là nella nostra vita, ma che adesso non sembrano affatto fiorire, anzi: sulla loro “fecondità” nutriamo più di un dubbio.

Quando la vita segue un corso preciso, che a volte ci tracciamo noi e altre subiamo, finiamo a contatto con persone che, ben presto, si rivelano dei perfetti intrusi. Non sappiamo più che ci facciano nella nostra rubrica, o nei contatti Instagram, o dall’altra parte di un tavolino, quando addirittura capitiamo a berci insieme un caffè.

A volte sono “presenti giustificati”, nel senso che in un altro momento della nostra vita avevano tutte le ragioni per essere lì: compagne di scuola, vicini di vecchia data, gente conosciuta in periodi di transizione, o nei numerosi imprevisti che ci può riservare la nostra giornata. Altre volte boh, sono incidenti di percorso: il collega insegnante che durante il nostro tirocinio era simpatico e disponibile, e poi, se lo invitiamo al take-away in pausa pranzo, se ne esce con una battuta mica tanto scherzosa su quanto odi i cinesi.

La pandemia, dicevo altrove, mi ha insegnato le mie priorità. Una di queste è fare ciò che voglio del mio tempo, nei limiti del possibile. Il mio nuovo mondo forse è qui per restare, o magari si raggiusterà ancora alla fine di tutto. Le persone, invece, non devono restare per forza. Intendiamoci, non sto parlando di interrompere amicizie che durano da trent’anni, oppure di fare una brutta faccia alla segretaria d’ufficio che adesso vediamo solo al di là di uno schermo. Dico solo che possiamo desiderare il meglio a certa gente che non c’entra niente con la nostra vita di adesso, e allo stesso tempo desiderare di non doverci avere più tanto a che fare, che spesso sarà un sollievo per entrambi.

È opportunismo, pensarla così? A me sembra opportunista il contrario: abituarci a qualcuno è più facile che tagliarci i ponti, è un lavoro a bassa manutenzione che, però, sfianca sul lungo termine.

E poi, non si se vi capita, ma i motivi urgenti che ci spingevano a “mantenere il contatto”, i presunti benefici reciproci, non hanno quasi mai resistito alla prova della pandemia: quell’attività di volontariato faceva più bene ai senzatetto, o ai nordici annoiati che si sentivano eroi per un fine settimana? L’associazione culturale che diventa la succursale di un partito, quanto merita i nostri sforzi? La pagina goliardica sui social vale tanto sforzo di moderazione, se poi prova a lucrare sugli utenti?

Naaah.

Dai che è quasi primavera: armatevi come me di cesoie, accette virtuali, quello che ve pare. Già sapete.

Se c’è una cosa che abbiamo imparato dall’ultimo anno, o almeno credo, è l’arte di scoprire sotto quali rami conviene ripararci.

L'immagine può contenere: 6 persone, testo Buon 1820! Siccome i diritti del lavoro e le sobrie reazioni all’uguaglianza vanno in quella direzione, direi di cominciare con… Jane Austen! Vediamo cosa dice – almeno sullo schermo – il suo Edmund, ennesimo bonazzo che sta per sposarsi con una pereta, invece di filarsi la brillante protagonista. Per fortuna l’amata gli mostra un lato superficiale che lui non aveva notato prima, e allora le dice papale papale:

“Siete un’estranea per me. Non vi conosco e, mi spiace dirlo, non ho nessun desiderio di conoscervi”.

Sì, l’avete individuato, l’attore era Sick Boy di Trainspotting, ma il punto non è questo: come nel meme di Gerry Scotti, quell’uomo parla di me! Tra tutti i bilanci di fine anno che mi sono piombati addosso, mi sono resa conto che una grande cosa che ho imparato l’anno scorso è: essere selettiva col mio tempo e le mie energie. Ma esserlo sul serio.

Le volte che ho fatto qualcosa che in realtà non desideravo, le conseguenze sono state inutilmente spiacevoli: vedi la lezioncina di buone maniere che mi forniva questo individuo. Dalla scarsa solidarietà che ne è seguita in circoli a me più vicini, mi sono resa conto che un collettivo a cui debba spiegare cosa ci sia di sbagliato, in tutto ciò, non m’interessa né m’incuriosisce: ce ne sono altri che sul GENDER!1!! sono già ferrati. Dunque, per fortuna, ho di meglio da fare.

E gli esempi sono tanti.

Poche ore dopo il brindisi di Capodanno, una pagina Facebook piuttosto divertente cancellava anche il mio secondo post: era uno spazio di riassunti “pecorecci” di figure di merda. Mi ero sforzata di mantenere un linguaggio semplice, anche se purtroppo, quanto a sonorità e durata, non sono brava a esprimermi a rutti, e non mi sembrava fosse richiesto dalla netiquette. Così questa è stata la prima cosa di cui mi sono sbarazzata nel 2020. Avrei potuto indagare, o ascoltare il paraculissimo invito dei moderatori a “scrivere meglio” (o peggio?) se i post venivano cancellati. Ma, per fortuna, ho di meglio da fare.

Dopo la visione del simpaticissimo trailer di Zalone, mi sto rendendo conto che la gente che vede il film segue due correnti opposte: o si crede furbissima a trovarci della satira politica, o si scopre indignata, specie a destra, per questo “ritratto della società italiana” (azz!). A me tutto ciò fa sospettare la paraculata che strizza l’occhio a tutti i tipi di pubblico, ma il problema non è quello. È che non ho nessuna curiosità di scoprire se ho ragione. Mi chiedo se chi si sbatte su ‘sta roba non sappia ancora lavorare d’immaginazione, per scoprire che c’è quasi sempre un’alternativa positiva a un argomento di discussione così modesto. Se no, per fortuna, avrebbero di meglio da fare.

Mentre scrivo questo post, ho ricevuto un messaggio di un tipo del Bangladesh, che con curioso tempismo mi scrive dopo il mio intervento sotto questa denuncia delle condizioni di alcune lavoratrici: se leggete nei commenti, un gruppo di uomini s’era messo a insinuare che un motivo per il licenziamento ci fosse (qualcuno ha detto victim blaming?). Ora, un hashtag comune ai vari commentatori (a cui ho chiesto “KITTIPAKA?11!”) riconduceva a un’associazione che Google mi dà per chiusa in via definitiva (boh), e che voleva che l’imprenditoria del paese “filasse nel più liscio dei modi”. Già. Da queste personcine non m’interessa ascoltare lezioni, quindi ho eliminato il messaggio: per fortuna, come ormai intuirete, ho di meglio da fare.

Con questa risoluzione, a volte, posso perdermi delle cose belle: è un rischio da considerare. Il ritardo di una potenziale collega, in un pomeriggio davvero complicato, mi stava persuadendo a mandare a monte tutto il progetto di cui avevamo discusso sui social. Accettare comunque la collaborazione ha portato a risultati ambivalenti: il mio “istinto” non si sbagliava sui problemi che avrei affrontato con una persona poco organizzata, ma devo dire che i vantaggi sono di fatto superiori ai grattacapi.

Così come sono stata fiera di me quando ho individuato subito il momento difficile vissuto da qualcuno che avrei voluto conoscere meglio, ma che ero pronta a mettere da parte per la mia consolidata avversione alla sindrome di Wendy: come nel caso della collega, però, altre cose che ho visto – tipo la dignità con cui venivano affrontati i problemi immaginati – mi hanno spinto ad andare avanti, con senno e prudenza, e non sono rimasta delusa dalla decisione.

Il fatto è che “Ho di meglio da fare” non deve diventare una canzoncina da opporre a qualsiasi circostanza che si presenti problematica. Io la porrei sempre come domanda: quest’attività, questo film, questa persona, mi può interessare nonostante le premesse poco incoraggianti?

Se la risposta è sì, avanti tutta. Se no, lavoriamo d’immaginazione e pensiamo a tutte le cose migliori da fare che abbiamo. E allora, per chiudere con un’altra immagine iconica, si fa come il buon Jep Gambardella: si arriva in paranza alla conclusione che “non posso più perdere tempo a fare cose che non mi va di fare”.

 

 

 

11-Spirale-di-ExnerIl problema di quando ci intestardiamo con le cose è che perdiamo di vista il punto principale.

Quando facciamo yoga (e io in genere desisto alla seconda lezione) l’istruttrice ci avverte: “Non devi per forza soffiarti il naso con l’alluce sinistro, o ballare su un dito come i compagni esperti. Il punto è concentrarti sulla respirazione, le posizioni sono finalizzate a quella”.

Così come in teoria facciamo l’università per trovare un impiego nel campo che ci piace, anche se noi umanisti più che altro la facciamo per amore (perché per soldi…), e ultimamente il nesso non è affatto chiaro (ricordo il mio sbalordimento, quando la tizia inglese che mi fissò il tocco alla cerimonia di master mi chiese se avessi un lavoro).

Decidiamo all’ultimo momento di prenderci una birra con degli amici per rallegrarci la serata, e goderci la compagnia. Se il bar designato è chiuso o troppo pieno, non stiamo lì a fustigarci, andiamo altrove.

Magari potessimo fare questo per tutto il resto. Perché a volte perdiamo di vista il vero obiettivo, che in genere va su un doppio binario: egocentricamente, si tratterebbe di star bene con noi stessi, di essere contenti; posto in maniera più globale, si tratterebbe di fare ciò a cui siamo destinati, ciò che ci viene meglio. E no, non è egocentrismo, a ben vedere, perché solo in queste condizioni sappiamo davvero interagire con gli altri senza chieder loro niente in cambio e senza usarli per sentirci appagati. Quando ci sappiamo “riempire” la vita da noi, non c’è mezzo che tenga.

Allora, quando ci ossessioniamo in una sola storia, che non funziona, perdiamo di vista il punto principale, condividere il miracolo dell’amore che ci era capitato. Se quella storia diventa fine a se stessa anche ad amore esaurito, si tratta di un ricatto del nostro ego: se non la porti avanti non sei nessuno, hai sprecato tempo, hai perso altre occasioni. E lui, l’ego, ha perso un’altra occasione per stare zitto. E ricordarsi delle priorità della vita.

Forse l’unica cosa che non dobbiamo davvero perdere di vista è quella che ci riempie sul serio, quella che ci piace fare più di ogni altra e che è onestamente un fine in sé: coltivarci. Una volta fatto questo, possiamo declinarlo in mille modi. Prenderci cura di un bambino, di un lavoro appagante, di un’associazione di volontariato… Ok, perfino del fantacalcio.

Insomma, non perdiamo il bandolo della matassa, il punto centrale della questione: ciò che facciamo, lo facciamo per noi, e per star bene con gli altri. Se non assolve più a questa funzione, e non è facile ammettere che succeda, non ci serve più. È meglio cambiare che trascinarcelo dietro perché troppo orgogliosi per ammettere che non funziona.

Lo so che non è così meccanico, che ci sono degli strascichi, e poi le persone non smetti di amarle perché non ti “servono”. Ma se non perdiamo di vista il punto principale, allora sapremo amarle meglio, senza usarle: perché, paradossalmente, è più facile servirci degli altri quando perdiamo di vista ciò che serve a noi.

In quel caso giriamo in tondo come quando cerchiamo parcheggio e finiamo per sconfinare nel quartiere vicino, o quello dopo ancora. Intanto, magari, si è liberato un posto proprio sotto casa.