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da amarilloverdeyazul.com

Il bello di prendersi il caffè con un vecchio vicino del Raval è che comincerà a parlarmi di sua sorella professoressa, poi di quella sposata, poi di suo fratello che sta in Turchia, e di quello che per seguire i corsi va in moto fino a Islamabad… Al che timida gli chiederò: “Quanti fratelli hai, scusa?”. E lui: “Sei”. Insomma, quando ricambio l’onnipresente domanda: “Come sta la tua famiglia?”, rischio di ricevere una luuunga risposta.

La seconda costante è la stessa che si verifica per Abdul: non ci capiremo. Posso stare un’ora a ripetergli che prendo solo un caffè, e poi devo scappare a fare la spesa dal mitico Paki del Parlament (senza offesa, così lo chiamano): terminata la soda hipster che avrà finito per offrirmi, mi porterà in un ristorante pakistano di sua fiducia in attesa di sua moglie e suo figlio “che pranzeranno con noi”. Infine, deluso dalla mia defezione, avviserà per telefono la consorte (filippina, dallo spagnolo perfetto), e scoprirà che lei non aveva nessuna intenzione di scendere di casa, e il bambino dorme ancora. Il sospetto è che non si sia capito neanche con lei, e no, stando a quanto mi accenna lui non è la garanzia di un matrimonio felice. Confesso che a volte anch’io, in Inghilterra, ho fatto solo finta di comprendere, e ripeto l’errore ancora oggi, quando i coinquilini francesi mi parlano alla velocità della luce e capisco di più il loro cane. Ma, contrariamente ai miei amici pakistani, se un equivoco prende pieghe inquietanti so quando fermarmi e affrontare la figura di me’.

Perché, e veniamo al terzo punto, siamo entrambi immigrati. Però io sarei “expat” e i miei ex vicini no. Mia madre ha preso un aereo per aiutarmi con dei lavori in casa, la madre del mio amico non può venire perché ha “problemi col visto”. Santo cielo, io a una che ha avuto sette figli spalancherei le porte di tutti i paradisi.

Nessun problema, comunque. Adesso il mio amico e io abbiamo un’altra cosa in comune: non ci vogliono! Almeno i padroni di casa. Come è già successo a una mia collega italiana, il mio amico voleva affittare uno schifo di due vani senza ascensore, in un palazzo di merda, a 700 al mese, e gli è stato detto: “Vogliamo solo gente di qua”. Da un po’ succede a molti stranieri. E a nulla vale presentare buste paga, garanzie, caparre più consistenti… L’idea è: perché rischiare? Metti che per una volta tornano finalmente al loro paese! Poi chi li acchiappa più.

Il problema è che non attacca neanche cercando di essere pratici: se proprio vuoi discriminare, fallo con chi non può fornirti garanzie di pagamento, buste paga o documenti validi che attestino per quanto possibile che la persona non se ne andrà. Se tutto questo c’è, che ti frega dell’origine di chi ti paga? Magari ti capita quel pazzo del mio ex vicino spagnolo, buttato fuori con la forza dopo averci riempito le scale ogni giorno di cacca di cane.

E non m’importa delle storie lacrimevoli che pretendono di giustificare queste ottusità: la mia vecchia padrona di casa che a momenti conta le forchette, “perché quelli prima di me le hanno distrutto l’appartamento”; la milanese che, avendo avuto problemi con due ospiti arabi, non dava una stanza al mio ex e a sua sorella, cittadini britannici nati in UK con cognomi pakistani; il catalano che non affitta al mio amico perché dei suoi compaesani se ne sono andati senza pagare.

Il fatto è che i miei incubi, quando vivevo a Forcella, li ho avuti con un’inqualificabile coinquilina francese, e sapete che c’è? Il tizio che mi ha preso una stanza ieri mi ha sfottuta: “Ma tu affitti solo ai francesi?”.

“Perché no?” stavo per rispondere. Come dice l’amico con cui ora ho un pranzo in sospeso, “Non è che, perché uno si comporta male, ci comportiamo tutti male!”.

E siccome in tanti non afferrano questo concetto banalissimo, ne approfitto per riportare il contenuto di un meme che ho visto in giro:

Pretendere che i musulmani chiedano scusa per il terrorismo è come chiedere ai musicisti di chiedere scusa per Gigi D’Alessio.

E questo è quanto.

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Non conoscete Clara Campoamor? Dovreste.

Mercoledì ho quest’incontro a Barcellona su Donne e politica, un invito ricevuto all’improvviso e senza il previsto “abboccamento” con le organizzatrici, per sopraggiunti impegni loro.

Dunque, una volta che avrò riportato le brutte notizie da Roma, non so proprio di cosa parlerò, visto che a sorpresa mi è stato assegnato l’argomento “antifasciste italiane a Barcellona”. Così ho deciso di farmi portavoce delle donne che combattono quotidianamente per la libertà, con buona pace di Jo Donatello. Già mi arrivano le testimonianze di donne che s’impegnano ogni giorno perché l’università catalana smetta di pagarle cinque euro l’ora, o perché con l’Italia ci possa essere uno scambio continuo di saperi ed esperienze.

Ovviamente racconterò l’aneddoto dell’incontro politico a cui sono stata invitata perché “servivano donne”, che l’organizzazione ci teneva, e poi le uniche partecipanti che non comparivano nelle foto finali eravamo io e l’altra italiana invitata a parlare da sola.

Credo che ci sia un equivoco sul termine “indomabili”. Fa pensare alle cosiddette bestie feroci. Il leone, il lupo… Poi arriva Piero Angela, o magari Licia Colò, a dimostrarci che il primo è un micione pigro (sarà, ma giù gli artigli!), e il secondo è il classico amico gentile e fedele che vorresti accanto tutta la vita (canini a parte).

Questi animali sono feroci “quando serve”, come chiunque debba difendere qualcosa a cui tiene. Allora c’è l’equivoco che donne educate fin da piccole a essere dolci e concilianti debbano cambiare atteggiamento per entrare nella stanza dei bottoni. E allora giù metafore come “sfoderare gli artigli”, o “mostrare i denti”, mentre ai capi basterebbe il contenuto dei loro boxer firmati. Attenzione, però, a non diventare “maschi sbagliati”: il piano B è che le donne si presentino come eterne mamme, dolci e gentili, e che questo venga chiamato “femminilizzare la politica” in un senso più scontato di quello inteso dalla Colau.

Insomma, l’idea è: adeguarsi agli immaginari. Non maschili, perché se appartenessero a una sola categoria sarebbe più facile debellarli, ma collettivi. Che gli immaginari collettivi siano spesso su misura di chi è al potere (di solito uomini eteronormativi, “occidentali”, di classe medio-alta), è un’altra storia.

Io non ho nessuna intenzione di essere feroce quando non mi tocca, anche se questo mi ha resa invisibile a vantaggio di qualche uomo che urlava di più. Ma tant’è: alzerò la voce solo quando lo riterrò opportuno.

Per esempio, l’ho alzata nell’ “incontro senza foto” quando uno degli organizzatori ha pianificato il mio intervento senza consultarmi: avrei dovuto leggere testi, riportare le parole d’altri. Allora ho usato quello spazio capitatomi per i motivi sbagliati non per “dire una poesia”, ma per parlare di noi espatriati, migranti privilegiati ma non troppo, dei diritti politici negati e della burocrazia sempre più surreale. In quel caso, l’organizzatore è stato il primo a congratularsi. Segno, spero, che delle foto non si occupasse lui.

Ma continuo a pensare che la sfida più grande sia quella contro gli immaginari che decidono cosa debba esprimere una donna col microfono, o una donna che sia in qualsiasi posizione pubblica per dire “Facciamo così”, e veder realizzate le proprie direttive. Non dev’essere né feroce né materna, se non è questo che vuole: deve scoprire piuttosto cosa significhi essere se stessa, più un microfono. Più un pubblico che l’ascolti. Più un gruppo di persone disposte a fare quello che lei dice. Il trucco per me è farsi “ubbidire” non perché sia lei, ma perché quello che lei dice va bene (e fa bene) anche a loro.

Su questo le donne hanno un piccolo vantaggio: comandare in genere non era previsto nel curriculum, quindi possono improvvisare, trovare modi di farlo che siano più umani per tutti. Un po’ come i tanti uomini che si stanno reinventando la genitorialità, e stanno sfuggendo al cliché del padre assente mentre è la mamma a somministrare il castigo.

Quindi sì, credo che il mio intervento sia già bello che scritto: dopo aver portato la voce delle compagne che ogni giorno trovano il tempo di migliorare un po’ le cose, parlerò di tutto questo.

Non so neanche se ci sarà un microfono: in caso contrario, alzerò la voce.

 

“Al destino sono grata per tre doni: essere nata donna, di classe bassa, e di nazione oppressa. E il torbido azzurro di essere tre volte ribelle” Maria-Mercè Marçal*.

* Ok, io questa la recito tipo Inquisizione spagnola dei Monty Python: “A l’atzar agraeixo tres dons: haver nascut dona, de classe ba… A l’atzar agraeixo dos dons, haver nascut dona i de nació opr… A l’atzar agraeixo un do i mig…”.

azzurritàIl bello di stare a Barcellona è che le mie vite ritornano.

Di solito lo fanno ogni estate, ma non sempre aspettano l’aumento del biglietto, o il Primavera Sound, per incrociare le mie faccende di adesso e chiedermi dov’eravamo rimasti. Più che altro, dov’ero rimasta io.

Mi avevano lasciata entusiasta nel Raval, e adesso faccio loro da guida nel “nuovo” quartiere. Mi ricordavano litofaga (cioè, “magnavo pure le pietre”) e mi sorprendono a rimpinzarmi di verdurine. Dopo aver sbalordito con questi dettagli gli amici che popolavano le mie vite passate (giacché sono loro, ovviamente, a ritornare per un po’, le vite passate mica lo fanno), li lascio ai loro treni, o ai biglietti d’aereo da stampare, e me ne torno al mio presente. Senza rimpianti.

O quasi.

Perché a volte ritornano vite che abbiamo bistrattato, trascurato, lasciato andare.

Non che la cosa conti più: anche noi, col tempo, diventiamo aneddoti nelle vite altrui. Com’è giusto che sia.

Ma quando ci prendiamo un caffè, con queste vite abbandonate insieme alla terra in cui siamo nati, o perse per strada in un momento difficile, a volte siamo presi dall’impossibile impulso di tornare indietro. Di cambiare le cose, di applicare a ritroso la placidità che intanto, magari, abbiamo strappato centimetro a centimetro alla nostra antica incapacità di vivere.

Ovviamente non possiamo. Possiamo andarci vicini. Con la compassione, col perdono reciproco e, soprattutto, con la voglia di fare bene qui e ora.

Ma questo posso dire: c’è chi merita il nostro rimorso.

E la peggior vendetta della vita, presente e passata, è trasformarlo in rimpianto.

Nessun testo alternativo automatico disponibile.

The Jackal, ovviamente

Quando ero piccola, più o meno ai tempi dell’Unità d’Italia, gli alberi di Natale coi desideri sopra non c’erano. O almeno non ne ero al corrente.

Scrivevo la solita letterina a Babbo Natale, e gli chiedevo Bebi Mia.

Non so bene perché non l’ebbi mai. Forse Babbo (in questo caso, Mamma) dubitava delle mie capacità di mantenerla “sana” e intatta per più di un’oretta. Ma tant’è.

A Barcellona, invece, l’unico alberello dei desideri che abbia mai visto si trovava nello spiazzo accanto al negozio del MACBA, costeggiando la parete su cui era coniugato il verbo “ravalejar” (dal mio ex quartiere, l’adorato Raval). Era una pianticella striminzita a cui qualcuno aveva appeso desideri sparsi. Ve lo spoilero subito: gli stessi nostri.

E quelli delle maghe dei tarocchi: amore, salute, fortuna, denaro. Non necessariamente in quest’ordine.

Al massimo come desideri erano un po’ più hipster, che quella è zona di skaters e, ovviamente, appassionati di arte moderna.

In effetti quest’albero lo dovevi o sgamare per caso, o cercare apposta.

Io, fedele alla linea, ci appesi un foglietto con una sola parola. Nome proprio di persona, maschile, onnipresente. E persistente, nel tempo, proprio.

Credo che rischiai di ricevere finalmente una missiva di Babbo Natale che mi comunicasse: “Piuttosto ti porto Bebi Mia”.

Ma, ripensandoci a distanza di qualche annetto, devo dirgli “Grazie, Babbo”.

Certi regali fanno bene se li ricevi e benissimo se non succede.

Sono come la Coca Cola a disposizione quando hai sete, ma tra un momento dovrai stringere la mano a tua suocera, con lo stomaco in preda a borborigmi allarmanti. Regali che in quel momento vuoi, si capisce. Ma a non riceverli, col senno di poi, ti chiedi se “meglio così” sia una magra consolazione o, semplicemente, la verità.

Mi spiace per Babbo, ma devo confessare l’ovvio: i migliori regali me li sono fatti da sola, arrangiando quello che avevo in casa. Ricavando mantelline da gomitoli vecchi e belle serate da litigi domestici. Rimediando a vecchi errori e commettendone di nuovi, ma un po’ diversi. Traendo insomma il miglior vantaggio possibile da momenti più o meno propizi.

È questo che vi auguro, a bocce ferme e regali consegnati.

Insieme a Buone Feste, per quello che rimane.

stanliollioIo gliel’avevo detto, col cavolo che arrivava alle 18.30.

Ma in uno slancio d’ottimismo sono andata lo stesso quasi puntuale al terminale della Grimaldi Lines (che poi, a parte anziani e famiglie con l’auto, chi arriva più in nave a Barcellona? Ah, già, io, la prima volta).

Così ho aspettato un’ora, tra allegre famiglie con bambini che mi hanno ricordato che per queste faccende, figliare e prendere la Grimaldi Lines per andarsene in vacanza (ma anche no), ci vogliono cose tipo disciplina e costanza.

Cose che a un’italiana all’estero potrebbero mancare, vuoi per il precariato, vuoi perché c’è questa asincronia con chi è rimasto in paese a crescere più o meno come si era sempre fatto, mentre tu ti devi inventare un nuovo modo di farlo, senza passare direttamente a invecchiare.

Poi, quando l’ospite finalmente sbarca, col valigione enorme per i 10 giorni che deve coprire, capisci che a un italiano all’estero, spesso, manca un altro ingrediente fondamentale: l’amore incondizionato. Così diverso dalle amicizie bilingui con gente che non sai quanto tempo ancora resterà, o se ha uno spazio per te in agenda.

L’amore incondizionato, si diceva, che nasce in un’epoca molto precoce e si sviluppa nonostante il tempo, nonostante gli esami, che diventano pochi e deludenti colloqui di lavoro, nonostante le partenze e i ritorni, nonostante le morti, nonostante la vita.

Quello che ti fa amare “per quello che sei”, come dicono le canzoni, per cui sei sempre sciupato, ma mangi?, e non sei mai brutto, al massimo buffo.

E allora dividi grata con questo ospite la pasta di Gragnano presa al volo dal pako del Parlament, insieme a tutte le schifezze d’insaccati che non mangi più (“E ja’, piglia ‘nu poco ‘e salamino, nun l’hanno acciso, è muorto ‘e solitudine”). E riscopri tutti quei rituali del pudore della tua vecchia vita, che hai voglia a infiorarli e dire che il nudo è un dono e la donna un mistero ecc. ecc., ma ti sembrano sempre più ipocriti, deiezioni di una civiltà sessuofoba e triste che ha reso il corpo sacro perché non riesce a renderlo vero.

Ma un attimo prima di maledire questa cultura che malgrado tutto vi unisce, dall’altra parte del mare, scopri ridendo che il sarcasmo che accompagna le tue piccole sconfitte private, quello che a domanda “Come passi la giornata?”, ti fa rispondere “Be’, al mattino lavoro al libro e la sera mi taglio le vene”, è lo stesso degli amici rimasti , quelli non riamati o scaricati su cui vi ritrovate a ‘nciuciare:

“Che fai stasera?”, “Me votto ‘a copp’ ‘o ponte ‘e Arzano”.

“No, nun sto male, solo che si venesse quaccheduno e m’affogasse ‘int’ ‘o suonno, buono facesse”.

E allora ridi col sollievo di sapere che la persona che t’immagini vicino quando proprio non riesci a dormire, per una volta al risveglio ci sarà davvero.

iomammapapà2 Tempo di cambiamenti che non ho scelto. Il più fesso, figurarsi gli altri, è quello della casa. È stata la mia tana per due anni e ora non la sento più sicura. Magari siamo tutti paranoici da quando è morta la gatta, ma l’altra notte ho sentito qualcuno camminarmi sul tetto. Passi precisi e regolari, con incluso trasporto di oggetto inanimato (qualcosa che rotolava). Difficile pensare a un gabbiano sovrappeso. Quando ho sentito anche una specie di tonfo, come se qualcuno si calasse su qualche balcone, sono uscita di casa (alle 3 di notte) senza saper bene cosa fare.

Poi rinunce, a cose molto belle.

Così belle che ho pensato che per provare minimamente a compensarle ci vuole qualcosa di bello assai. Così non spreco manco energie. Come ho detto a un’amica di qua: “Tanto amor sin que nadie lo aproveche…”. Mio padre mi ha insegnato a non buttare niente.

Sto consultando pagine di volontariato. E nel Raval, stereotipi a parte, ce ne sono, di cose da fare. Fortuna che la gente è solidale, tra compaesani e correligionari sono l’altruismo personificato. Però ci sono i problemi dei poveri, famiglie disagiate senza soldi per coprire la loro vergogna, bambini da tenere a bada mentre entrambi i genitori lavorano… Mal che vada organizzo un corso intensivo di napoletano, così imparano la sottile arte del chitemmuorto.

Ok, per gli altri stiamo a posto. O meglio, per me che fingo di farlo per gli altri.

E per me, proprio me stessa medesima in persona?

Pensavo a una casa. E non coi soldi dei miei, che mi rassegnavo a invocare a 32 anni suonati, quando dai 18 ho chiesto un solo intervento per bollette impreviste. Un mutuo equivalente all’affitto che sto pagando, con loro che garantiscano per me, se me lo fanno fare. Così non mi metto scuorno di chiedere troppo e non volo basso con le case. In fondo 30 anni di speranza di vita che li ho, vado pure in palestra 4 volte a settimana. A pensarci bene la crisi ne ha fatto la mia unica risorsa costante.

All’affitto ci sono sempre arrivata, non vedo perché spendere i soldi a vuoto. E se sto con l’acqua alla gola, mi rassegno a vivere con altri. A 30 anni, col residuo della borsa di dottorato e i primi soldi del lavoro d’impiegata mi regalai un appartamento senza coinquilini. Basta appartamento spagnolo, Erasmus, la Bohème. Mi sembrava un indice di maturità.

Ora ho capito che vivere al di sopra delle tue possiblità può essere piuttosto un segno d’infantilismo.

Ho capito anche un’altra cosa, forse, un’ovvietà di quelle a cui arrivo sempre tardi. La controversa questione del sorridere anche in tempi avversi. Una forzatura disumana, sottolineava un amico su facebook. Non per me, che lo facevo costantemente per due motivi altrettanto sbagliati: o perché confondevo lo “star bene” col “fare cose”, o non riuscivo mai del tutto a star male, che è grave come quelle malattie per cui perdi la sensibilità e ti pugnalano senza che te ne accorga.

Ora ho capito, forse, che la questione è star male e imparare a sorridere “nonostante”.

Ve l’avevo detto, che era una banalità.

PS: L’ho scritto qualche giorno fa. Intanto ho scoperto che l’avallo può fartelo pure Bill Gates, ma finché non porti una busta paga col tuo nome nisba (lo so, sono di un’ingenuità spaventosa, ma sono in buona compagnia). E De Gregori non aveva ancora fatto l’intervista che manco ho letto, perché di lui ormai ascolto poche canzoni, tra cui questa.

prostituteindignate Insomma, una non si può deprimere in santa pace, a Barcellona, che le ricordano subito che c’è chi sta peggio di lei. E peggio ancora, che a rigirarsi i pollici non si ottiene niente.

Tornavo dalla Biblioteca de Catalunya, mezza stordita dal caldo, da due notti insonni e da un ripasso della Prima Guerra Mondiale in Catalogna (quello che ti tocca quando hai discusso da due anni una tesi di dottorato che i tagli all’università hanno trasformato in carta igienica). Mi dirigevo verso la Rambla in missione speciale (comprare shampoo al Body Shop con la tessera clienti, vedi Matrix). La Rambla invasa nel 1917 dalle donne dei quartieri popolari, rimaste senza carbone e soldi per affrontare il caroviveri, che l’avevano percorsa tra i turisti eleganti che non potevano più passare l’estate a Baden-Baden. Avevano invaso i caffè scintillanti di luci inutili, portandosi dietro qualche ballerina solidale con la causa, tra gli stranieri danarosi attoniti che si facevano un’idea della Barcellona che non vedevano.

Non ho fatto in tempo ad attraversare che ho sentito i primi fischi. E le urla. Un signore si è messo a sbraitare “Dov’erano quelli, quando i chorizos del parlamento ce lo mettevano in quel posto?”.

Non gli ho fatto neanche un sorriso di circostanza. Ho modificato la rotta e sono scesa verso il Banco Popular, una banca che ha una filiale sulla Rambla. Ci ho trovato la Pah, Plataforma de Afectados por la Hipoteca.

Fondata da più di 4 anni, quest’associazione, che per i media ha soprattutto il volto di Ada Colau, è stata recentemente premiata dal Parlamento europeo: si occupano delle vittime di quei famosi mutui a tasso variabile che improvvisamente hanno trasformato la Spagna dal regno della bolla immobiliare a quello degli sfratti. Il PP li ha chiamati nazisti, ha sostenuto che i suoi elettori non mangerebbero, pur di pagare il mutuo, e li ha associati all’ETA… Loro continuano coi loro escrache, delle azioni collettive volte a mettere alla berlina delle personalità pubbliche considerate colpevoli di mancanze gravi verso i cittadini.

Ora toccava al Banco Popular, che non aveva concesso un dación de pago (è quando proponi di estinguere il tuo debito offrendo beni diversi dal denaro) a uno dei membri Pah.

La prima cosa che ho visto sono stati i telefonini dei turisti, increduli di portarsi il ricordo di una manifestazione, insieme a quello della paella surgelata. Poi le auto, che passando tra due file di manifestanti in maglietta verde suonavano il clacson per sostenerli. Infine loro, con fischietti e coreografie che insultavano le banche in rima baciata, mentre un poliziotto osservava discreto, in disparte.

Mi ha colpito che dalle macchine qualcuno incitasse davvero.

Come fosse andata a finire, me lo sono chiesta il giorno dopo, fuori al Parlamento catalano, di fronte allo striscione di Stop Bales de Goma.

Dentro, Nicola Tanno, fondatore di Stop Bales, e Esther Quintana, l’ultima a perdere un occhio per i proiettili ad aria compressa, rispondevano alla Comissió d’Estudi dels Models de Seguretat i Ordre Públic i de l’Ús de Material Antiavalots en Esdeveniments de Masses: raccontavano come avevano perso l’occhio e quanto è importante che siano gli ultimi a perderlo.

E noi aspettavamo fuori, parlando anche dell’azione sulla Rambla. Una signora che era presente ce lo ha detto: verso la mezzanotte, i manifestanti sono stati sgomberati, ecco il video. Due poliziotti per manifestante. Hanno invitato ad andarsene pacificamente, i manifestanti si sono rifiutati. Sono volate manganellate, sono stati chiesti a tutti i documenti. Il problema erano gli stranieri, spiegava la signora. Latini, senza i documenti in regola. Quelli avevano paura. Ma nessuno si è alzato, mi sembra di capire dal video, quando la polizia li ha invitati a uscire coi loro piedi.

Per me la giornata della Pah non era finita al ritorno dalla Rambla, ma vicino alla mia rambla preferita, quella del Raval. Con un altro rumore familiare, quello di pentole e coperchi battuti con un cucchiaio nella calle Robadors.

Ancora loro, le prostitute indignate.

A due passi dal sontuoso (e kitschissimo) Hotel Barceló, la familiare schiera di donne di tutto il mondo e tutte le età che battono a pochi metri dalla cultura istituzionale della Filmoteca de Catalunya. Anche stavolta, però, non ho osato chiedere a loro che succedesse, e mi dispiace. Ho chiesto a una delle poche che non avevano la divisa del mestiere, forse perché come me possono esprimere solidarietà senza mai capire cosa si prova, a essere considerata infetta, l’ultimo gradino della società. L’interpellata ha riposto un momento il fischietto e mi ha risposto: “Protestiamo ogni mercoledì alle 20 contro la repressione della polizia ai danni delle prostitute”. Vero, ricordo. Controlli continui, interrogatori a donne che spesso hanno la gonna più lunga della mia. Se rimorchiassi io in mezzo alla strada mi chiederebbero i documenti?

Tra tanti interrogativi, Barcellona e i suoi abitanti mi hanno insegnato qualcosa che scordo spesso, che la mia terra scorda spesso, forse perché lo riteniamo troppo scontato e banale per ritenerlo degno della nostra attenzione. Non siamo forse quelli del Rinascimento? Quelli dell’Impero Romano? E poi, quelli del Partito Comunista più grande del blocco occidentale?

Seh.

Dalla bacheca di un altro che ieri stava al Parlament:

Tra ieri e oggi ho visto che cosa è una società sana, che ha ancora voglia di lottare per la giustizia e la democrazia, e lo fa, riuscendo anche a dialogare con le istituzioni.

Vero. Nicola e Esther sono arrivati al Parlamento, le prostitute a parlare col sindaco, Ada Colau ha potuto dire alla Commissione di Economia del Congresso che i banchieri sono criminali.

Io ho visto una volta di più che se proviamo a fare qualcosa non sappiamo mai se riusciamo. Figuriamoci se non facciamo proprio niente.

(una canzone che sento spesso per strada, ma con un accento decente)

portone Domenica

Poi mi è venuto in mente chi mi ricordasse, a bussare dall’interno di un palazzo.

Il signore educato di Rodari che chiedeva “Permesso, si può uscire?”. Era tanto ben educato / che bussava con i guanti. / Morì dentro il portone / perché nessuno gli disse: avanti!

Invece lei non chiedeva permesso, voleva uscire e basta, e la gente non si fermava.

Si è fermata una a caso (sì, avete indovinato, io), senza leggere l’insegna sul portone.

– Voglio uscire, sono rimasta chiusa dentro, non sono neanche di questo quartiere!

Ho provato a bussare. Un solo citofono. Niente.

– Chiama la polizia! Mi ha portato qui una signora, credevo fosse per restare un paio di giorni, non credevo fosse tanto cattiva.

Finalmente ho letto l’insegna.

Casa di riposo per anziani.

È scesa un’altra anziana in camicia da notte.

– È pazza, non ci faccia caso.
– Lei torni in camera sua. E tu, chiama la polizia.

Quasi si picchiavano.

Sono arrivati due infermieri.

– È pazza, non ci faccia caso.

– Non è vero!

– Non mi sembra il caso di dirlo così – io all’infermiere. Sempre dall’altra parte del portone.

Le ho promesso che sarei andata a farle visita. Un’altra promessa che non so se potrò mantenere.

Lunedì

Mi becca davanti al portone di casa mia. Mi sbarra la strada, ma non mi fa paura.

Anche perché sorride e le si fanno gli occhi piccoli, come quelli della mamma. Ci manca solo il bindi al centro della fronte, che a volte si fa anche lei per imitarla, e sembrano due gocce d’acqua nello stagno del tempo.

– Dov’è casa tua? – mi chiede.

E sale sulla moto.

– Qui. È la tua moto, questa?

– No. Tu hai due case?

– Be’, sì. Una al mio paese, che è dei miei genitori, e questa qui.

– E qual è il tuo paese?

– Si chiama Italia.

Ripete il nome, incerta.

– Mio padre al suo paese ha [mi descrive una serie di cose che avrebbe suo padre nella casa in India]. E poi una moto come questa, ma verde, blu e rossa.

Dice verde e roja in spagnolo, poi blau in catalano.

– E casa tua, invece, dov’è? – le chiedo.

Mi disegna la strada con le mani.

– Ah, allora siamo quasi vicine.

– Cos’è “vicine”?

– Casa mia sta vicino casa tua. A presto, vicina.

Di questo portone almeno ho le chiavi.

huertosurbanosbarcelona.wordpress.com

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I rimpianti non sporcano i piatti. Manco i rimorsi, se è per quello.

Alla fine, quando si tratta di lavarli rimuovi le solite cose: tracce di riso cinese alle verdure, di due giorni fa, le foglie d’insalata nella zuppiera grande, che lasci da parte con qualsiasi scusa e intanto la salsa Caesar avanzata si trasforma in Goldrake. Alabarda spaziale! Meno male che almeno il piatto del cous cous ho imparato a lavarlo subito, se no appesta una casa.

È quando hai ospiti, anche se del tipo buono e indulgente che ti vorrà bene comunque, che ti rendi conto delle condizioni in cui vivi. Specie se una gatta ha ormai preso possesso della casa, senza peraltro parlare di dividere l’affitto. Mi guarda solo con l’aria indulgente di chi dice “se proprio insisti puoi restare”. Bella lei, un giorno scavalco anch’io il balcone dei miei nuovi vicini, che hanno deciso di sfidare ogni luogo comune sulle coppie gay mettendo a palla la Pantoja, e dico sapete che c’è? Il disordine mi sta invadendo casa, mi trasferisco da voi.

Credo che fino a poco fa ci fosse pure qualcosa di feticista, lo psicopatico che si tiene il cadavere della madre in casa per non ammettere che è morta (e magari l’ha pure giubilata lui). Ora no, è proprio pigrizia e indolenza di fronte all’immane lavoro che mi aspetta. Che ci posso fare, nessuno mi ha insegnato a pulire, a che servisse. Vivevo anch’io in una casa dove, come dice Marta Rojals, i letti si facevano da soli come per magia, e il piatto a tavola ti aspettava fumante quando tornavi da casa. Quando ho preso casa da sola è stato anche in barba a quei 2-3 coinquilini maniaci della pulizia e dell’ordine, che peraltro non potevano vantare molte altre qualità. Me li immaginavo seduti nel mio nuovo salotto, a soffrire atrocemente per un fazzolettino buttato a terra dal vento che avrei raccolto solo un istante prima di accompagnarli alla porta.

Ma l’ho fatto anche perché mi venisse voglia di pulire senza che me lo imponesse nessuno, e devo ammettere che sta cosa va un po’ a intermittenza.

Stavolta ad esempio batto in ritirata e, almeno di sabato sera, esco. Il festone non posso, mi spiace non vedere l’amica che lo dà ma sto pure in fase premestruale, e il giorno dopo ho una traduzione. C’è un reading di poesia e racconti all’Hort del Xino, prima di accaparrarmi dieci cm di panca per una birra e un giro di coplas kitsch a O’ Barquinho.

Grandioso, l’hort del Xino. È uno dei vari orti popolari di Barcellona, coltivato dagli abitanti del quartiere. Non ci andavo dal cineforum indignado, due anni fa, che con un proiettore scalcagnato ci aveva trasmesso l’ultimo di Roger Moore. Stavolta c’è un tendone artistico con microfono e un angolo ad alto tasso glicemico, solo birra, dolci e succo di frutta.

Arrivo in tempo per l’ultima lettura e per una piccola recita, coperta dalle grida dei bambini che si rincorrono nell’orto. La recita è carina, una passante strattona con un’asse da stiro un tizio seduto a leggere, e scopre che non sente dolore,a ben vedere non sente nulla. Suo fratello Pol gli ha fatto un elenco di cose che possono fare male, e siccome le assi da stiro non sono contemplati… Alla fine la tipa lo bacia. Niente. Solo all’ultima botta, sempre accidentale, mentre si allontana con l’asse da stiro, il tipo dice “au” (ahia lo diciamo noi).

È un inizio, gli concedo applaudendo.

Poi succede una cosa strana. La presentatrice, in occhialoni da sole e gonna hippie splendida, chiede se ci siano musicisti. Il tipo che, altezza a parte, era uguale a un amico che vive in Provenza, si alza e spiega di essere un musicista… provenzale. Prende il tamburello e una fisarmonica casereccia alla Bob Dylan e canta canzoni in occitano, con qualche variante tra il moderno e il demenziale. Poi ci raccomanda di cliccare sulla sua pagina facebook. Come hai detto che si chiama?, chiedo.

E finiamo per parlare di trovatori occitani e strane lettere trovate tra quelle dei miei soldati, firmate Madame Mistral. Sostegno alle “meirino de guerro”, e bestemmie mie al momento di tradurle.

Lui è venuto apposta a Barcellona per occuparsi di musica e lingue minoritarie, “che la Francia su queste cose è bacchettona e Parigi, in fondo, provinciale”. Che palle essere di un paese così chiuso. Eh, rispondo.

La tammorra la suona bene un tizio che conosce in un centro sociale lì vicino, mi dice il nome, ho presente? Ehm, qualche pagina alle medie.

E poi la differenza tra lingua e il dialetto, e l’occitano in via d’estinzione e il napoletano vivo e ruspante ma proibito ai bambini chiattilli. Finché il freddo polare dell’orto e le tenebre e la constatazione empirica che, per dirla in occitano, stammo sulo nuje e Pino Mauro, non sfrattano anche noi.

Sono contenta. Ogni volta che vinco ciclo, rimorsi e rimpianti e piatti sporchi (e sei piani da risalire) per andare a curiosare nel Raval fricchettone, ne vale sempre la pena. Meglio che restare a dar la caccia alla gatta.

23robadorsInfinita, la saga “tentazioni tornando a casa”.

D’altronde, se vivi nel centro di Barcellona, un po’ te lo devi aspettare. Domenica sera, di ritorno da una despedida italiana (è quando l’ennesimo italiano all’estero va a vivere nell’ennesimo paese che non sia l’Italia e saluta tutti), attraverso il carrer Robadors, strada di sante, puttane e filmoteche (le sante poche, in verità, le filmoteche una), e scopro un concertino al Robadors 23.

Neanche tanto affollato, stavolta. Il mitico cameriere pako non sta all’ingresso a spillare i 3 euro e chiederti di default “Come va? È tanto che non ti vedo, tu trabajo bien?“. Le domande giuste al momento giusto. Ma stanotte via libera.

Mi siedo al primo sgabello libero della spelonca in fondo, dove fanno i concerti (quello che suona il cajón lo conosco, si teneva una coinquilina che lo invitò a casa per un salmorejo) e penso che questo bar per me è stato come l’armadio di Cronache di Narnia: mi ha aperto le porte a un’altra dimensione. La Spagna.

A me, che ancora vivevo di baretti al Gotico per turisti occasionali e lunghe domeniche post-sbronza in un appartamento che diventava un film di zombie. Finché la prima spagnola che osò affittare una stanza da noi, esasperata, mi considerò ancora recuperabile e mi portò qui. Allora si fumava ancora, e insieme alla sensazione del fumo nei capelli conobbi il magico mondo del flamenco fatto da catalani.

E per un po’ questi musicisti boemi, figli e nipoti di andalusi oppure catalanissimi, di quelli con due cognomi tipo Puig Grau, popolarono il mio salotto italo-svedese-olandese, per scoprire che la frittata di maccheroni esisteva davvero. Ricambiarono con tortillas vegane, qualche intricato caso di gelosie incrociate e una breve convivenza sulle montagne di fronte alla Costa Brava.

Tutto quello che resta di quell’epoca di fumo e tortillas è Robadors 23.

Che nel frattempo, oltre a jam e flamenco e concertini a 3 euro, si è riempito cose nuove: comiche americane pazzoidi col loro seguito di friki, e qualche serata così, per caso, con tre napoletani che si siedono con me al bancone nel momento in cui lo stereo dà Tu vuo’ fa’ l’americano, e scatta un coro. Uno dei tre, se è ispirato e c’è qualche bella ragazza a guardare, si mette perfino al piano.

Adesso, invece, flamenco puro e duro, la jam della domenica. La mia insegnante di flamenco, quelle tre lezioni che presi al centro civico di Paral·lel, si alza un attimo dalla prima fila a baciare la cameriera stralunata del Bar Salvador, quella che parla uno spagnolo che mi sembra latino, e poi francese. Mi meraviglio sempre troppo di quanto sia piccolo il mio mondo di qua.

La tipa che canta ora pure l’ho vista, da qualche parte. Cerca di ricordarsi una canzone che non conosco, si eres vela yo soy viento, si eres cauce yo soy ríoNadie habló de enamorarnos. Pero Dios así lo quiso.

E sulle vele del vento flamenco ripenso al mio ultimo appuntamento, con uno di quelli coi cognomi catalanissimi che a un certo punto aveva dichiarato, patriottico, “Non mi piace la musica spagnola”. Gli avevo scritto scherzando che non andavamo d’accordo, anche perché a me il flamenco non piacerà tanto, ma più della sardana sicuro. La risposta furiosa e indignata mi ha fatto rimpiangere di non aver replicato con un video di Camarón.

Magari prendeva fuoco.