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Per spiegarvi il nuovo romanzo, ve ne racconto uno che ancora devo scrivere.

Parla di una tizia che si è fatta un punto d’onore di trasformare tutte le sue sfighe in capolavori. È un po’ ossessionata con quella storia, sapete? La questione dei cocci giapponesi che si rimettono insieme con l’oro fuso. Un metodo di riparazione senz’altro spettacolare, che però, come suggeriscono in BoJack Horseman, non sembrerebbe particolarmente efficace. Ma la nostra eroina che non c’è (o non c’è ancora) è proprio ossessionata: non riesce ad accettare che, oh, le cose a volte vanno storte e basta. Accettarlo e passare oltre è la migliore delle riparazioni possibili.

Eppure. Questo libro mi prova che la mia protagonista inesistente un po’ ha ragione: quasi tre anni dopo aver scritto la prima bozza, mi rendo conto che da tutta quella faccenda complicata e a tratti angosciante ho ricavato “almeno” Una via dritta, che da ieri potete prenotare o, addirittura, trovare in libreria.

E la storia, mi sa, la conoscete: anzi, grazie ancora a chi mi contattava sui social per assicurarsi che fossi tutta intera! Il romanzo inizia quando Mariano Rajoy prende bene i preparativi per il nuovo referendum indipendentista (il terzo da quando sono a Barcellona, e all’inizio, mi dicevano, neanche il più votato al successo). Ai tempi nel porto barcellonese, decorata da una surreale effigie di Titti, era arrivata una nave carica carica di… polizia!

Sarebbero scesi, gli agenti? Avrebbero risposto con le manganellate a quell’insolita occupazione fuori stagione? Ero rimasta col dubbio fino al 30 settembre 2017, mentre osservavo le famiglie che riempivano di cartelli e tapitas da spizzicare le scuole e i centri culturali al cui interno, intanto, si preparavano le urne. Adesso, dalle parti della mia nuova casa fin troppo centrale, c’è un negozio che pretende di vendere ai turisti alcune di quelle scatole di plastica bianca, con sopra una bandiera catalana stilizzata: mi dicono che le originali, però, sono patrimonio dei centri che le hanno custodite, nascoste e, all’occorrenza, difese con la propria pelle.

Perché di questo si trattava: della pelle. Quel primo ottobre in cui io cominciavo la carriera di spettatrice perplessa di fatti che mi avrebbero sempre vista un po’ in disparte, gli agenti avevano abbandonato fin dalle prime ore notturne la “nave di Titti”. Anche a casa mia, qualcuno sarebbe sgusciato fuori qualche ora prima che uscisse il sole, con indosso il gilet fosforescente degli osservatori dei diritti umani.

L’unica scena che non inserisco nel libro, perché è solo mia, è proprio quella dell’abbraccio tra me e il… gilet di cui sopra, avvenuto a mezzogiorno fuori all’associazione in cui quel piccolo esercito pacifico e un po’ fluo faceva un rapporto pieno di speranza, ma anche di brutte notizie: un manifestante aveva perso un occhio (ancora proiettili ad aria compressa!). Inoltre, tra le immagini di feriti che circolavano in quelle ore c’era una signora anziana con la testa spaccata, parente lontana della Pepita del libro. E intanto, alcune testate internazionali più realiste del re provavano a dimostrare che quelle dei pestaggi erano immagini di repertorio, che meno persone di quelle dichiarate s’erano presentate in ospedale… Una blogger italiana, che aveva vissuto a Barcellona decenni fa, formulava giudizi molto seguiti su una città un po’ da cartolina, in cui non riconoscevo quella che abitavo io nel presente. A me tutto questo sembrava confuso e alienante.

Ma nei giorni successivi avevo assecondato un mio antico difetto: sorridevo a tutti, provavo a mediare. All’improvviso tanta gente, presa dall‘incertezza politica, dal clima di violenza e dall’esodo delle banche verso altri lidi, sembrava avere una gran voglia di litigare.

Quando m’ero ricordata che non si può sempre sorridere, avevo mandato un po’ tutti aff…, m’ero messa al computer e avevo inventato Irene, Marco e Tati. O meglio, li avevo assemblati come una sorta di Dottor Frankenstein interrotto a ogni piè sospinto da una telefonata in lacrime (“Esco dal gruppo!”, manco parlassero di una rock band), o da una rabbiosa incursione dal vivo (“Di’ ai tuoi amici italiani che sparano cazzate su Facebook…”).

Insomma, come già col primo romanzo, avevo preso delle angosce vere e le avevo fuse come oro “riparatore” per affidarle a tre corpi inventati, ma in movimento: quelli di Irene, Marco e Tati. Dove vanno i nostri eroi, il giorno del referendum? A salvare una vecchietta, solo che non lo sanno. In un romanzo più serio si direbbe che vanno incontro al loro destino. E in questo incrocio di destini, nella conciliazione impossibile e imperfetta che provoca, si è giocato quello che restava della mia sanità mentale. Troppo drammatico? Ok, facciamo “della mia lucidità“, allora. O anche solo “della voglia di fare”.

Per credere che ci potesse essere una pace non apparente, tra me e una Barcellona gentrificata e contraddittoria, ho dovuto cercare questa tregua tra le righe, tra le parole che il buon Andrea mi ha estorto di revisione in revisione, quando il papocchio iniziale era diventato una cosa seria, e toccava dare movimento a prime bozze troppo statiche, o drammatizzare situazioni di coppia che, chissà perché, non volevo esplorare fino in fondo.

Era paura, la mia? Forse. La paura del cambiamento, che tanto avviene lo stesso e, che ci piaccia o no, si lascia dietro un sacco di cocci rotti. Possiamo “ripararli” con tutto l’oro fuso del mondo, ma non funziona tutte le volte.

Raccogliere i cocci, però, è un buon esercizio.

Sono contenta che questo romanzo, che ora affido a voi in tutte le sue crepe nude, mi abbia aiutato nell’operazione.

Continua.

 

(Una canzone che all’epoca mi agghiacciava.)

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Presto nelle nostre case, se facciamo domanda all’Ajuntament :p

Lo so, lo so, la strada più breve tra due punti è una retta. Se tanti italiani a Barcellona protestano per la cacerolada delle 22.00, è perché non ne sopportano il rumore.

Così come non imparano il catalano perché si scocciano, e perché per farsi capire basta lo spagnolo. Legittimo, specie quando non adducono motivazioni più creative.

Però niente da fare, provo sempre a guardare a monte, a individuare le predisposizioni mentali dietro proteste all’apparenza innocue come quella per gli “schiamazzi notturni”. Mi resta il sospetto che in tanti abbiano lo stesso problema che avevo io, da bambina, a trovare il Nord: pensavo che tutto quello che fosse davanti a me fosse Nord. Giuro!

Insomma, ero la bussola del mondo.

Poi sono cresciuta, o almeno spero, perché è un processo complicato che non sempre riesce.

Infatti ricordo gli italiani all’estero intervistati da Claudia Cucchiarato, che affermavano spesso: “Quando sono andato a vivere a Londra/Barcellona/Berlino volevo proprio vedere come mi avrebbe accolto la città”.

Peccato che le città non “accolgano”. Possono rendere molto complicato trovare un alloggio, procurarsi i documenti per lavorare, ma non possono aspettarci con un cartello di benvenuto e un contratto di lavoro in mano.

Certo, possiamo sempre ergerci a bussole del mondo, esigere dalla città che ci tratti bene. Così, se mezzo vicinato si mette a sbattere pentole siamo indignatissimi, perché ci rovinano la visione della TV. Ovviamente è la punta dell’iceberg, di tutta una roba che non ci piace. Perché? Perché crediamo nell’unità di Spagna? Uhm. Perché fuori dall’Italia siamo diventati all’improvviso i difensori dell’ordine e della legalità? Magari! Ripenso alla storia della retta e azzardo: perché a noi non ce ne viene niente in tasca. Anzi, abbiamo paura di perdere tempo e soldi.

Si sa che Barcellona esiste solo per soddisfare i nostri desideri frustrati dall’Italia ormai “invivibile”. Quanto accadesse prima del nostro arrivo, Sagrada Familia a parte, non è importante perché non ci riguarda.

È vero, non siamo i “giovani che non vogliono lavorare” che si sono inventati i giornali. Ma di questa “ricerca della felicità” non ne facciamo un progetto sociale: la felicità spetta a noi perché siamo noi.

E gli altri? Gli altri dovrebbero essere a nostra disposizione.

Ci accorgiamo solo dopo che non è vero: mai troppo tardi, si capisce, ma già in ritardo per non poter più fare almeno un po’ di cose.

Forse però era quello che almeno alcuni di noi volevano: una vita da “eterni illusi” (o eterni sognatori, se preferiamo), in cui ogni cosa non riuscita è sempre per colpa di qualcos’altro, qualcun altro.

Qualcuno che non si è messo a disposizione.

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Da Nació Digital*

Ieri, mentre mezza Catalogna si mobilitava per l’arresto dei consiglieri, io lavoravo e muovevo i primi passi burocratici per vendere casa.

Risultato: l’alunna della prima lezione credeva che il plurale di “ragazzo” fosse “ragazzis”; un amico di Madrid trapiantato a Siviglia mi mandava un articolo che diceva “comprate casa, ma non vendete”, in sintonia con le bestemmie del mio agente immobiliare.

Dopo ho raggiunto i miei, venuti in visita per la castanyada, al Corte Inglés di Portal de l’Àngel: scimunivano un povero commesso, intento a spiegare a mio padre che  i suoi pantaloni XL erano stati presi nel reparto infantile.

Risultato: l’indepe e io abbiamo trascinato i miei in un vietnamita hipster (di solito andiamo ai cinesi sozzi), dove mio padre si è messo a sindacare sulla passione di certi asiatici per le zuppe. Gli ho ricordato che lui è l’uomo che mette il gazpacho in microonde.

All’uscita abbiamo colto gli ultimi cinque minuti della cacerolada (cassolada in català), e i miei si sono impressionati. L’indepe è andato via per un impegno, mio padre ha proposto di tornare a casa a piedi.

Risultato: in prossimità del Paral·lel, abbiamo sentito in stereofonia a un volume proibitivo l’inno spagnolo, salutato da fischi, bis di cassolada e urla tipo: “Feixistes!”, “Visca Catalunya!” (“Visca!”).

“Cambiamo strada” ha proposto papà.

“Proseguiamo” ho imposto io.

“Che succede?” ha chiesto mamma.

Sulle nostre teste, affacciata a un balcone che batteva ben due bandiere spagnole, c’era la coppia che aveva trasmesso l’inno, intenta a ribattere con veemenza agli insulti di vicini e passanti.

“Mi limiterei a denunciare per schiamazzi notturni, verrebbero pure agenti catalani” ho osservato io.

“Smettila di esporti” ha replicato papà, e si è girato a sollecitare mamma.

Lei intanto avanzava placida in quel profluvio di parolacce.

Quel suo incedere sereno, da dea olimpica, mi ha ricordato l’atteggiamento che mi piacerebbe assumere in questi giorni in cui, nello spettro dei sentimenti possibili, la malinconia è un lusso.

Poi ha confessato che non ci aveva capito niente, che credeva che l’inno provenisse da un bar e che tutta quella gente fosse unita nel criticarlo.

Anche lì vorrei prendere esempio e NON capirci più un’acca.

Per fortuna manca poco, mi sa.

 

*http://www.naciodigital.cat/noticia/77263/catalunya/tornara/ressonar/aquesta/nit/amb/altra/cassolada/contra/tc

Risultati immagini per cuppinoFamiliare in due sensi: mi riferisco, infatti, a quelle parole ormai di uso quotidiano nella nostra minifamiglia di due cuori e una caldaia (quella nuovissima guai-a-chi-la-tocca della padrona di casa). Ma ultimamente abbiamo avuto allarmi più urgenti del micidiale código A08: falta de presión.

E se chiamassi il tecnico, gli farei lo stesso elenco che propongo qui sotto a voi.

Prima, però, me la tiro un po’ con Tucidide:

L’ordinario rapporto tra i nomi e gli atti rispettivamente espressi dal loro significato, cioè l’accezione consueta, fu stravolto e interpretato in chiave assolutamente arbitraria. La temerità irriflessiva acquistò il valore d’impeto eroico al sacrificio per la propria parte; la cautela accorta di maschera dolorosa, per panneggiare uno spirito vile. La prudenza fu ritenuta un ripiego per celare la paura, spregevole in un uomo; l’intelligenza sollecita a scrutare ogni piega di un problema fu spacciata per totale inettitudine all’azione.

Da Storie, III, 82

Dalle ‘n faccia, Tuci’! Ehm, scusate il mio (magno)greco. Possiamo cominciare:

  1. Unionista: prima non era così diffuso, mi azzardo a dire che non era neanche una parola. Ora lo siamo diventati tutti i non indepe, che saremmo di default per l’unità di Spagna. Logicamente ci sta, ma stento a sentirmi patriottica nei confronti di un paese in cui non ho mai sentito di abitare. Se non altro perché Barcellona, come tante metropoli, fa un po’ patria a sé. Per questo ci vivo.
  2. Eppaña: la Spagna secondo i detrattori. Lo trovo razzista perché sfotte l’accento andaluso. Trovo fuorviante anche pensare, come un amico dell’indepe di casa, che “los andaluces somos los únicos que tenemos derecho”. Però è vero che l’ultima frase va letta senza le s.
  3. La nonna del Quimet: molto citata dal commosso indepe di casa (d’ora in avanti idc). Poco dopo la votazione per l’indipendenza, il suo amico Quimet (nome prestatomi dalla senyora Rodoreda) ha telefonato la nonna lì fuori al Parlament e le ha gridato: “Iaia, ja som república!”. Devo dire che commuove perfino me il legame tra i giovani e i loro vecchi che, come la Pepita del mio racconto, ogni giorno della loro vita dovevano cantare Cara al Sol, come questi sobri difensori della democrazia contro il referendum. A una manifestazione indipendentista in cui mi ero intrufolata c’era un bel giovanotto barbuto col cartello “Va per tu, avi”. È per te, nonno. Non che consideri sano capitalizzare politicamente i rancori di quarant’anni di dittatura, quarant’anni fa. Lo prendo come un monito del fatto che, chiunque abbia provato a portare la democrazia, purtroppo ha lasciato le cose a metà.
  4. Socialdemocratica: io, secondo l’idc.
  5. Riformista: sempre io. Però credo lo dica a chiunque non conceda alla lotta armata, anche quella nostrana, “le sue buone ragioni”.
  6. “Por España yo mato”: cantata dal finto Rajoy de Los Morancos, che El Jueves in esclusiva indica come prossimi anchormen di TV3. Questa frasetta rassicurante mi viene in mente ogni volta che l’idc esce per fare l’osservatore dei diritti umani. Credo che lui mi venderebbe ai servizi segreti russi, notoriamente dietro tutto il suo movimento, pur di non ascoltare più il tormentone. Allora, per farlo contento, intono direttamente la canzone originale. In fondo parla di poliamore tamarro.
  7. Bootyfler: quando booty incontra botifler, più o meno “unionista di merda” secondo gli indepe, ricambiati con catalufos. Simpatico scherzo che mi fa ogni tanto l’idc per nominare il mio botifler preferito. Considerato tale, suppongo, perché non sta fuori a una piazza con tre bandiere estelades intorno al collo a mo’ di mantello di Superman. Sta di fatto che è sempre più bello.
  8. Frangettanera: la donna per cui l’idc non dico che mi tradirà, perché “monogàmia és capitalisme” (sic), ma baratterà le nostre quattro mura con una simpatica cameretta piena di poster di Anna Gabriel. In realtà a lui piacerebbe che fosse proprio Anna Gabriel, ma, anche nella repubblica catalana, non proprio tot és possible. A volte gliela canto proprio: “Frangetta nera, bella cuppina…”. Il che ci rimanda al prossimo termine.
  9. Cuppino: l’idc in persona. Mia traduzione di cupaire, persona che sostiene la CUP. In napoletano, come avrete capito dall’immagine, significa mestolo. Lo so, mi diverto con poco. D’altronde sono una socialdemocratica democristiana riformista, tutto insieme.
  10. Fozza Napoli! : (sempre!) la mia risposta a qualsiasi slogan si reciti in casa mentre cucino. Sarò anche qualunquista? Nel dubbio, in questi casi, aggiungo al piatto quel chilo di sale in più che, secondo l’idc, avrei messo lo stesso. Volgari insinuazioni.

Ho già dichiarato che “Francesco! Francesco!” gridato in mezzo alla strada lo lascio a Nannarella, e a circostanze ben più tragiche. Al massimo mi affaccio alla finestra e urlo: “Sta ccà, purtatevillo!”.

Mancherebbe anche Io speriamo che me la cavo, ma quello è a prescindere.

 

Risultati immagini per ossigeno Ho mandato a monte la riunione di condominio.

Si vedevano solo per parlare di un soffitto crollato. Il mio. Ho già detto che sono venuti due furgoncini di pompieri a puntellare le travi?

Eppure è saltata la riunione, perché non sapevo si tenesse. Mi era arrivata la mail, in uno di questi giorni in cui non so se, tra l’indipendenza mancata e un pestaggio della Policía Nacional, mi torna a casa il “coinquilino”: l’avevo presa per una comunicazione di routine, l’ennesimo preventivo del tecnico, e cestinata. Assente io, i miei vicini non avevano niente di cui discutere.

Ma non posso lamentarmi, sapete perché?

Perché intanto mi ha contattato Tina. Che vive a Pavia in una casa non sua, fa lavoretti da niente per mantenere due figli e, se le muoiono i padroni di casa, finisce in mezzo a una via. Perché mi ha scritto? Per la solita richiesta: “Mi puoi aiutare a trovare lavoro a Barcellona? Non ne posso più di questa vita”.

Essere scambiata per San Gennaro (o meglio, per la Madonna di Montserrat) è divertente quando mi succede col ventenne indeciso tra Barcellona e Berlino: quello vuole vitto e alloggio e un lavoro ben remunerato, magari senza sapere un’acca di spagnolo. Qualcuno particolarmente attraente mi ha dato a intendere che sarebbe stato disposto a immolarsi, chiedendomi un appuntamento “per parlare”. È un mondo difficile.

Il discorso cambia se a contattarmi è Marika, che deve trasferirsi con due bimbe mentre il marito non le potrà raggiungere subito. O Angela, napoletana “emigrante” che si è vista il negozio devastato dal terremoto, uno degli ultimi che hanno martoriato il centro Italia: “è stanca di essere un peso per i figli”, e a cinquant’anni passati cerca col marito un posto da cameriera, senza parlare nient’altro che l’italiano. O il siciliano di cinquantasei anni, “ma come vedete sono giovanile”, che in un post sulla pagina che modero si dichiara disposto a fare qualsiasi cosa pur di trasferirsi, e dalle foto capisci che è per mantenere una moglie un po’ più giovane e un bimbo avuto sulla quarantina inoltrata.

Solo che adesso non posso aiutare nessuno, neanche con quel poco di consigli e contatti che possiedo, se sto così rincoglionita da scambiare la convocazione di una riunione per un preventivo di lavori. Se dimentico per la prima volta in cinque anni di pubblicare sul blog nei giorni previsti, cosa che non ho omesso di fare neanche prima di un funerale. Se mi scervello sul soffitto crollato e il coinquilino spericolato e il Primer Ministro idiota e il re inqualificabile, e il President che lasciamo sta’, come se fossero questioni che io possa controllare.

E invece tutto ciò che sono in grado di gestire è la mia calma, e quelle due cose che posso fare per Tina, Marika, Angela, il signore giovanile.

Ma è come le istruzioni di sicurezza in aereo: mai mettere la mascherina dell’ossigeno agli altri prima di averla infilata noi.

Se no, oltre a finire male, non possiamo aiutare nessuno.

 

Un’espressione spagnola che adoro è “tiene la cabeza bien amueblada”, detto di persone particolarmente intelligenti. In questa metafora, la testa diventa una casa intera, i cui mobili sono messi lì con gusto dalla buona volontà dell’inquilino, e da un destino generoso. Oh, l’intelligenza in questo non è dissimile dalla bellezza: è vero che si può coltivare, ma forse un po’ di culo ci vuole.

Associo questo modo di dire al latino di mio nonno, che detto tra noi raccontava sempre gli stessi aneddoti, ma erano storielle divertenti. Mi è arrivato da lui il famoso episodio del saggio che, interrogato in nave sul suo bagaglio, si indicò la testa e rispose: “Omnia mea mecum porto”. Tutto ciò che è mio, lo porto con me.

In questi giorni di concitazione ho unito giocoforza le due espressioni, perché anch’io penso che casa mia sia ovunque. Non so se sia bien amueblada, ma sicuramente è facile da portare: si erge, per modo di dire, sul mio metro e sessantadue più o meno duttile, abituato a traslochi veloci in condizioni impossibili. “Non è la tua lotta” mi dice un’amica indipendentista, e non sono di quelle che abbracciano una causa perché l’ha fatto il loro compagno. Questo privilegio lo lascio a Lady Oscar.

Ma la vita è imprevedibile e lo sappiamo, anche se cerchiamo di tappare questa verità con i “te l’avevo detto”. E per quanto fosse probabile che prima o poi si arrivasse a questo punto, nella città che abito da nove anni, nessuno al mondo poteva dirmi con sicurezza che improvvisamente tutto lo sforzo fatto per lavorare qui, per avere una casa dignitosa eccetera, corresse il rischio, seppur remoto, di finire alle ortiche.

Mi resta l’unica cosa che veramente conti: una testa da portare dove posso.

In questi giorni in cui tutti parlano di rivoluzione, mi chiedo spesso se la loro piccola rivoluzione domestica, quella in testa, l’abbiano già fatta.

Continuo a pensare che sia la più difficile di tutte.

Dopo giorni passati a parlarne in chat, via mail, sui social e perfino dal vivo, con amici che reputo intelligenti, provo a mettere nero su bianco la pelosa questione del “chi è più discriminato”.

Perché io mi lamento delle fratture che sta creando la situazione catalana nelle relazioni di ogni tipo, e il messaggio sottinteso di alcuni è: in Catalogna sono ricchi e si permettono pure di ribellarsi.

Che dovrebbero dire gli andalusi, o i napoletani. I miei compaesani sostengono molto quest’argomento, da difensori dei Sud del mondo. Alcuni post che ho letto definivano il popolo catalano come “antipatico”, o “attaccato ai soldi”, con generalizzazioni che in altri frangenti non ci permetteremmo.

In qualche caso di emigranti italiani a Barcellona sospetto che la ragione sia semplice: difficile perdonare a uno di essere nato nel posto in cui noi proviamo a farci strada a fatica, senza il supporto familiare, e i contatti, e la liquidità di cui potrebbero disporre i più fortunati di noi, se fossero rimasti a casa. Ci sono cascata anch’io all’inizio, e mi rimproverava spesso il mio ragazzo di allora, artista catalano di origini meridionali che al primo referendum avrebbe votato No, ma votato, anche perché la Falange voleva marciare sul suo paesello, dove c’erano le urne (ricordo ancora i fischi dei votanti davanti alla chiesa, e l’urlo quasi napoletano “Fora! Fora!”, mentre spiegavo a Carlos quanto la scena mi ricordasse un episodio di Per chi suona la campana).

Ora so che aveva ragione lui: inutile discutere su chi abbia il diritto o meno di ribellarsi.

E lo dico dalla posizione scomoda di chi non ha nessun ideale meraviglioso da difendere (non ci credo, io, in una repubblica catalana). Siamo un po’ alla deriva, noi che non manifestiamo per l’indipendenza e se andiamo alle manifestazioni “contro la repressione” veniamo presi per indipendentisti, a meno che non ci mettiamo la bandiera spagnola addosso, ma perché dovremmo farlo.

Il fatto però di non accorrere ad appelli tipo “irruzione della polizia alla CUP!”, “i fasci stanno ammazzando di botte i compagni a Gràcia!”, non significa che diventiamo improvvisamente ciechi e sordi e non vediamo cosa stia succedendo.

Una terra come la Catalogna è ricca nel contesto spagnolo, quindi relativizziamo: non c’è lo spettacolare tasso di disoccupazione andaluso (il 48,7% per i più giovani di 25 anni), ma butta via il 30% catalano, e (tra parentesi) prova a campare con lo stipendio medio catalano a Barcellona. Scrivo tutto questo dando per buono che i non ricchi di una terra ricca debbano comunque chiedere scusa a qualcuno, equivoco molto presente tra chi politicamente la pensa più o meno come me. Una terra ricca porta in sé grandi squilibri sociali, e ne sanno qualcosa i leader della sinistra indipendentista. In questa intervista, Anna Gabriel della CUP racconta la giovinezza nel suo paese di minatori, passata a caccia di borse di studio perché se no niente università. Curioso poi che la critica alla ricchezza venga dal nostro, di Sud, eterno bacino di voti dati al miglior offerente, di collusioni col governo centrale per assicurarsi un minimo di posto al sole.

Non vi riconoscete, in questa descrizione? Vi offende, vero? E allora perché infliggere lo stesso riduttivismo ad altri? Perché “sono del Nord”? Consulterò poi un vero brexiter su quanto siano “nordici” i catalani.

Insomma, gli indipendentisti catalani sono e resteranno, secondo la mia impressione, una minoranza. Ma una minoranza consistente e incredibilmente variegata al suo interno. Non c’è solo la signora col canillo che viene in pullman dal paesello l’11 settembre, e che invade i tre baretti squallor rimasti ad Arc de Triomf: quella mi lasciasse sempre liberi i ristoranti cinesi autentici, per mangiarsi la sua coca ai peperoni, e ci eviteremo felicemente ogni anno.

La questione è che ci sono anche questi qua che si riuniscono dai collettivi e dai movimenti ogni settimana nel mio quartiere e in tanti altri, questi che scendono in strada da anarchici a difendere un referendum, perché ritengono che a fronte di questo re e di questo primo ministro di cui il primo fa le veci (no, non ho sbagliato a scrivere), sia proprio il caso di separarsi e votare.

Hanno ragione? Proprio non si può sperare che dallo stato spagnolo sorga un movimento compatto di gente che mandi a cagare Corona e PP? Chi lo sa, io ci spero ancora.

E penso che in una Catalogna indipendente comanderebbero comunque i figli maschi delle signore col canillo che vengono a Barcellona l’11 settembre, anche se il plebiscito, devo ammetterlo, non l’hanno mai ottenuto.

Resta il fatto che non è così semplice come ci piace pensare.

Ma lo so, la semplicità è troppo affascinante per contrastarla con dati, ne sappiamo qualcosa quando proviamo a fare due conti su quanto costerebbe l’indipendenza e scopriamo che non sono i conti a far scendere la gente in strada, con buona pace degli ideali illuministici che difendiamo a singhiozzo.

Intanto, per farvi capire la situazione, quando ho visto questo brutto spot mi sono commossa lo stesso, o meglio, mi sono ritrovata a piangere per il nervoso, e per la paura.

Qualsiasi cosa ci succederà, nei prossimi giorni, al contrario di altri non ho nessun motivo nobile per correre il rischio di scoprirlo in prima persona.

Ho la voglia meno nobile di provare a complicare le cose. Qualcuno dovrà pur farlo.

Voi, per esempio. D’ora in poi. Vero?

 

 

PRIMA

Nella serie The Crown c’è un’immagine della regina Elisabetta, ragazzina, che si arrampica sugli alberi in giardino, mentre in casa suo zio e suo padre decidono che lei un giorno sarà regina.

Io, che al massimo sono stata reginetta di Forcella 2006 per i cappottini hipster, mentre cadeva il muro di Berlino guardavo i cartoni. O così mi accusò la maestra il giorno dopo, visto che non mi ero accorta di niente. Peccato, devo riconoscere a distanza di decenni: quell’evento ha deciso buona parte del mio futuro.

Scrivo queste idee confuse pochi minuti prima che si pubblichi la lettera di Puigdemont che può determinare indirettamente una parte del mio destino. La scelta del coinquilino, per esempio, visto che qualcuno in casa potrebbe mettersi in testa di scendere “a difendere il Parlament” (e scatta subito Stanis travestito da Fini). Per fortuna l’Austin Powers catalano è troppo democristiano per questo, ma ormai non mi sorprendo più di niente.

Riflettevo solo sulla scarsa influenza che hanno gli esseri umani nelle vicende che li riguardano, e come sempre mi chiedevo esattamente a quanto ammontasse il nostro potere decisionale. A nulla, dicono i pessimisti. Fatto sta che il mio migliore amico, che ne sa a pacchi, mi dice che i cuochi americani a Pearl Harbor si risparmiarono qualche anno di terapia lanciando patate agli aerei giapponesi che li bombardavano.

E comunque ho visto gli Indignados diventare la Pah, la Colau diventare sindaca, gli amici del mio ragazzo decidere che io sono di Podemos: anche le entità che detestano questi attori politici, quelle che lasceranno il Parlamento se Puigdemont non dichiara definitivamente l’indipendenza, si autogestiscono con metodi simili a quelli che adottavamo nelle piazze di Barcellona, ormai sei anni fa.

Quindi do per buona l’ipotesi che people have the power (almeno un pochetto) e lancio le mie patate.

Ma per noi, come individui, cosa rimane da fare? Mentre andavo all’università, il fallimento di una specie di Monopoli per soli miliardari ha prodotto una crisi economica che mi ha tolto quasi ogni sbocco accademico, e ha rovinato l’esistenza di quegli amici che credevano di poter guadagnare abbastanza da fare le stesse scelte dei genitori, se avessero voluto.

E invece eccoci qua a chiederci, coi quaranta che si avvicinano, come soddisfare o eludere standard sociali che cambiano molto più lentamente dell’economia che li ha generati.

È qui che scatta la seconda parte. Per dirla con i libri di self-help: come reagire a quello che sta succedendo?

Alcune strategie sono vecchie quanto il mondo: bustarelle, nepotismi, raccomandazioni di ogni genere. Altre, pure antichissime, vengono reinventate: investire nel mattone può diventare ospitare turisti in nero. Va anche detto che gli unici amici miei che sono riusciti a comprare un appartamento a Barcellona senza “l’aiuto da casa” sono un ingegnere, un medico, e una russa che ha fatto un mutuo trentennale per pagarsi un immobile da cinquantamila euro a Badalona.

Insomma, questa seconda parte “strategica” e “individuale” è più creativa dell’altra: cosa facciamo della nostra vita in tempi avversi? Io quando ho visto che all’università non c’era verso, e nel settore turistico licenziavano dipartimenti interi, ho preso il diploma per insegnare italiano. Adesso scopro che col mio certificato IELTS, se pago bene il corso previsto dall’Università di Cambridge, potrei insegnare inglese.

Soprattutto, devo constatare che i miei fallimenti più rovinosi hanno riguardato le “pezze a colori”, cioè le alternative e scorciatoie rispetto a quello che desideravo fare davvero della mia vita. Tanto vale, ho deciso, aspirare proprio a quello che voglio.

Ma sto delirando e ormai è stata pubblicata la lettera. Visto che mi riguarda, la voglio proprio leggere.

DOPO

La lettera non dice un cazzo, cvd.

Io sono fiduciosa da quando ho visto che i carri armati non arrivavano subito. Però è avvilente, sul serio, che la mia esistenza possa essere decisa da funamboli verbali a cui è sfuggito il gioco di mano.

 

 

El cant cada vegada era més alt, més segur, Asturias, patria querida, cantaven tots i també la Natàlia, Asturias, patria querida, la Rambla s’omplí del seu cant, cada vegada més alt, cada vegada més fort, era un cant alegre […]. La Natàlia no cridava contra aquella massa burella que els havia colpejats, ni contra els jeeps, ni contra els tancs d’aigua, no cridava contra els gossos deixats anar que tustaven sense saber per què, la Natàlia cridava contra el seu passat, contra les ires del seu pare, contra el que ella havia estat. I no tenia por.

Montserrat Roig, El temps de les cireres

Ore 8.00

Irene

Una goccia.

Dove sei?

Due gocce.

Mi stai pensando?

Tre gocce.

Sei al sicuro?

Quattro gocce.

Stanno arrivando.

Irene scaglia a terra il suo caffè. Il rubinetto che perde in cucina la esaspera, e Pau non si decide a chiamare l’idraulico. D’altronde si rifiuta anche di comprare le tazzine da espresso italiano, così i frantumi della grande scodella presa dai cinesi si spargono per tutto il salón.

Irene non sarebbe arrivata a tanto se non avesse avuto gli occhi stanchi, se non si fosse svegliata alle quattro del mattino per salutare Pau che andava al seggio, mentre la sveglia digitale che lui aveva spento subito segnava la data che entrambi, per motivi diversi, aspettavano da giorni.

1 d’Octubre.

1-O.

Il Giorno dell’Indipendenza.

Almeno per Pau, che cercando le pantofole nel buio si lamentava di essere già in ritardo.

Per Irene, invece, cominciava il Giorno dell’Attesa.

“Lo so che lì alla scuola occupata avete da mangiare, ma ti ho fatto dei panini. Li trovi in frigo” era riuscita a farfugliargli prima di tornarsene a letto, troppo stanca anche per supplicarlo ancora di restare a casa.

“Con la capresse?” aveva chiesto lui, speranzoso.

Lei aveva scosso la testa:

“Butifarra d’ou e insalata mezclum. Se vuoi la Catalogna, mangia catalano”.

E aveva sbattuto la porta.

D’altronde, prima di coricarsi gli aveva detto con dispetto:

“Stanno scendendo”.

Lui non riusciva a dormire e le aveva pure chiesto:

“Chi?”.

“Loro” aveva risposto perfida. “Dalla nave di Titti”.

Arrivavano gli agenti della polizia nazionale mandati dal Gobierno. Alloggiavano da giorni in una nave italiana con sopra un’immagine di Piolín. Titti. Sui social era partito l’hashtag #FreePiolín.

Pau dopo la notizia aveva ripreso a dormire, o aveva fatto finta. Lei era rimasta con il cuscino sollevato sulla parete: non avevano neanche la spalliera per il letto, in quella topaia con angolo cottura in soggiorno, un bagnetto grande quanto una cabina telefonica e la doccia sospesa sul balconcino, dietro una vetrata che i due tortolitos si erano dovuti montare da soli al loro arrivo.

Non era quello che Irene si aspettava, quando aveva lasciato tutto per seguire quell’Erasmus catalano conosciuto a Roma. Si era abbandonata alle spalle l’Italia per la Barcellona degli affitti che aumentavano di giorno in giorno.

“Ringrazia il cielo di avere un fidanzato catalano” le diceva Marco, un compaesano arrivato da poco, che lei aveva piazzato nel bar di un amico olandese. Secondo lui, se Pau non avesse avuto amici di famiglia che affittassero pateras come quella, avrebbero pagato ben più dei settecento euro di adesso. Anche così ci buttavano quasi metà stipendio.

E quello lì pensava all’indipendenza.

“Nella repubblica catalana” le prometteva spesso in un italiano zoppicante, imparato nei loro mesi insieme a Roma, “gli speculatori stranieri che comprano i nostri palazzi avranno il fatto loro”.

Il salone puzza di caffè anche dopo che Irene ci ha passato lo straccio con la candeggina. I cocci della scodella bucano la busta di plastica che per il momento lei ha appeso alla porta del balcone.

Adesso, almeno, ha una scusa per uscire, quando prenderà coraggio.

Deve andare a buttare l’immondizia, sí senyora.

Adesso sa anche in quale bidone.

Quello a due passi dalla scuola occupata in cui Pau difende con altri il suo “diritto a decidere”.

Pepita

Il pane è caldo di forno e il caffè appena fatto. Mi basteranno due termos? Doncs no passa res, se non portano caffè le altre del Circolo della Sardana torno a casa apposta. Ma ora voglio dare il cambio a mia figlia, è rimasta lì dentro tutta la notte mentre il marito era a casa con la bambina. Meglio che torna a casa a riposare. Sono fiera di lei.

Ho cantato ogni giorno della mia vita di bimba Cara al Sol. Ho aspettato questa mattina per quarant’anni. Mamá era andalusa, ma io sono catalana. Non scrivo bene nella mia lingua, Franco non voleva che la imparassi, ma la parlerò fino alla morte solo per fargli un dispetto, al Cara Garbanzo.

A tomar por culillo (e Visca la terra)!

 

Ore 10.00

Marco

Guardi, la cacerolada mi ha svegliato alle 22.15, dodici ore fa.

Quelli finiscono di battere sulle pentole, e io mi sveglio troppo rincoglionito per spignattare qui al bar. Anche se per aprire sono andato a letto con le galline. Tipico, mi creda.

Ieri sera mi hanno pure scritto Fernando e gli argentini, amici conosciuti in ostello quando sono arrivato. Alla fine ci sono andati, al Moog, a sentire un DJ latino.

Mi hano mandato una foto col culo di una: aveva i pantaloncini così corti che all’inizio li ho presi per mutande. Questo però non lo metta nell’articolo, per favore, che sembrerò un pervertito. Per quale giornale ha detto che lavora, in Italia? Ah, ok. Non lo conosco, scusi, ma tanto i giornali non li leggo. Scrivete solo stronzate, permetta che glielo dica.

Ieri volevano intervistarmi per Rete 4, ma che gli dicevo? E poi il sabato sera il bar è pieno. Quelli insistevano, erano una giornalista e un cameraman: stai vicino a uno dei seggi principali del quartiere, dicevano, non puoi non aver visto niente.

Io non so perché perdete tempo con me, davvero. Qua a Barcellona ci sono venuto per lavorare. Se no me ne restavo a casa mia, che oggi è domenica e mia nonna… Lo so che è un cliché, ma fa il miglior ragù del mondo. Mi manca mia nonna, lo sa? È quella che mi manca di più.

Come, che lavoro voglio fare? Qualsiasi, no? Va bene anche questo bar. Sto qua da tre mesi, sto imparando lo spagnolo, estoy apprendiendo castigliano. O ci vuole “el”, davanti a castellano? Non ci faccia caso, alla fine col tipo di clienti che mi ritrovo parlo giusto quelle due parole d’inglese, sempre le stesse.

Se arriva l’ispezione, via il grembiule: è che non ho il Nie, che è come il codice fiscale, ma più difficile da ottenere. Sono il cugino del proprietario. Considerando che il proprietario è olandese, non so proprio quanto mi crederanno.

Ok, torniamo a noi. Cosa ne penso di quello che sta succedendo in queste ore, mi chiedeva.

E che vuole che ne pensi? Sono pazzi. Tutti! Sono come la Lega Nord, ha presente? Certo che ha presente, lei vive in Italia, quindi adesso se li sciroppa lei. E io che pensavo di essermeli lasciati alle spalle!

Dico io, venite a Napoli, prima di lamentarvi! Venite a fare la fame come me laureato a ventiquattro anni con 105, e in sei anni non ho trovato uno straccio di lavoro. Che cavolo! E non posso fare chissà cosa neanche qua, finché non imparo lo spagnolo. Il catalano no, mi scoccio, francamente. C’è chi dice che non lo impara per una questione politica, “per rispetto alla Spagna che ci ospita”. Io no, mi scoccio e basta.

Come? Cosa penso della Catalogna? Che potrebbe anche continuare come ha fatto per tre mesi a darmi una casa e un lavoro, invece di mettersi a fare la stronza come l’Italia!

Prendiamo il mio contatto qui, quella che mi ha aiutato a trovare lavoro: Irene Morelli, la sorella di un mio amico.

Lei ha conosciuto a Roma il fidanzato, un fanatico indipendentista di quelli “visca” di qua e “visca” di là. Lui era in Erasmus e lei alla Sapienza a studiare giornalismo.

Ha lasciato tutto per seguirlo, capisce? Vabbe’, diceva che l’Italia non le dava sbocchi, e avrà anche ragione. Ma adesso lavora come una pazza da matrimoni.com, che la sede sta pure a Sant Cugat, deve prendere il treno. Ha lasciato tutto per mettersi in questo casino, cazzo! Era veramente brava, capito? Già scriveva ogni tanto in giornali buoni: se glieli nomino, che lei è del mestiere…

Scusi un attimo, c’è una cliente.

Ciao, Tati! Il macchiato di sempre, vero? Ah, siete in tre, oggi… È vero, fai l’osservatrice per i diritti umani, per il referendum. Me l’hai detto pure, che capa fresca che tieni. Tranquilla, a te lo faccio corto de café, mica ci beviamo il piscio di questi qua…

Ehi, adesso non ti arrabbiare, che questo signore è della stampa italiana! La guardi bene, signore, questa sì che è un’indepe convinta. Da dove viene, secondo lei, con questo gilet fosforescente e la frangetta a metà fronte?

Da Como, viene! Dal ramo del lago eccetera. Ci crede, lei?

Neanche io. È conciata così perché fa l’osservatrice dei diritti umani, va a difendere il seggio di chi può votare: lei da italiana non potrebbe nemmeno!

Sei una bella ragazza, Tati, e sei ancora in tempo. Salvati da questi pazzi!

Ok, ok, sto zitto.

Fanno tre euro e cinquanta in tutto, i tre caffè.

E pure a lei, signore, sono tre euro il caffè e los bollos… volevo dire, le paste. Le faccio uno sconto ma non è che la stampa consumi gratis, qua.

Con tutte le stronzate che scrivete.

Adesso parlate pure tra voi mentre mi assento un attimo. Mi sono finiti i ceci e i clienti fighetti vogliono l’hummus a colazione. Il magazzino sta pure vicino al seggio, speriamo che non mi succede niente. Appena viene il proprietario a sostituirmi esco un attimo. Ah, eccolo.

Tati

E poi vai un attimo a prendere il caffè per tutti e succede questo. Il giornalista italiano che ti vede il gilet di osservatrice dei diritti umani e vuole il sangue.

Nel senso che ti chiede: hai visto la polizia caricare? E la gente che faceva?

Ma tu ancora non hai visto nulla, e speri di continuare così fino a stasera. Sono due giorni che non dormi per la paura e vorresti credere che stai solo sognando: adesso apri gli occhi e sei a casa tua, in una Catalogna libera, accanto a Virginia.

Pobreta, le sbagliano tutti il nome. Padre andaluso e madre dell’Estremadura, ma è nata qui, è la Virginia, con l’articolo davanti come si fa in Catalogna, e anche dalle tue parti. Se non pronunci dolce la “g”, alla catalana, non si gira. Non che le faccia schifo la pronuncia spagnola, che è quella di sua mamma. È che non ci si riconosce.

Ti ha fatto capire lei cosa significhi volere una nazione nuova senza essere razzisti, capitalisti, o stronzi.

Virginia un po’ ti ha salvato la vita e lo sai: ci hai lavorato tanto tu, un po’ da sola e un po’ al collettivo, ma è stata lei a scrollarti di dosso una volta per tutte l’Italia del “Perché non ci provi, almeno, con gli uomini?”, “Magari non hai ancora incontrato quello giusto”, “Ai bambini servono una mamma e un papà. I ruoli!”.

Quando tutto questo sarà finito chiederai a Virginia di sposarti, lo farete nella chiesa sconsacrata che avete visto in quell’escursione col gruppo di Senderisme, e avrete un bambino. Se i tuoi non vogliono venire, gli manderai la bomboniera. La farai apposta per mandarla a loro, coi colori della bandiera catalana e in più la stella anarchica.

Adesso, però, ti tocca prendere i tre caffè e tornare ai seggi, che la giornata è lunga e ve ne mancano tanti da ispezionare.

Inutile parlare con questo giornalista, che crede di aver già capito tutto, di sapere che quelli a votare lì fuori sono leghisti un po’ più civilizzati che non vogliono pagare più tasse.

Vabbe’, che l’Italia si faccia l’opinione che vuole.

L’Italia è finita, da un pezzo.

Per te ormai esiste solo la Catalogna libera. E prima ancora, la Virginia.

Pepita

Quanta gente. Più di quanti me ne aspettassi. Ci sono perfino gli italianini dell’appartamento vicino, quelli che una volta si sono lamentati con me per la cassolada che facevo ogni sera. Da che pulpito, ma mi fa piacere vederli. Allora non servono solo a fare schiamazzi il sabato sera.

Il caffè è finito ma non so se andare o restare. Dai messaggi ai cellulari dicono che stanno arrivando los nacionales. Mia figlia mi ha chiamato terrorizzata. “Mando Marc a prenderti, anche la bambina chiede di te!”.

Se lei fosse qua, resterebbe dove sto io. Seduta a terra davanti a scuola ad aspettarli.

Io difatti non mi muovo neanche morta.

Per tutte le botte che ha preso Carles mentre cantavamo insieme Asturias, patria querida, sulla Rambla, nel ’62.

Per l’aborto che ho dovuto fare a Londra, con lui senza cojones per seguirmi. Si è sposato una del suo paese, una brava ragazza cattolica della Sección Femenina della Falange.

Per tutto quello che credevate di farmi, e che non mi ha impedito di stare qua, oggi, a dirvi che merde siete.

Ore 11.00

L’incontro

Arrivano quando nessuno li aspetta più, preceduti da tre falsi allarmi. “Vanno verso Laietana”. “No, verso il seggio dell’Institut del Teatre”. “Macché, non sono stati neanche avvistati”.

E invece arrivano.

Arrivano all’improvviso e tutti insieme, prima lenti e poi, davanti ai corpi barricati sulle scale della scuola, sempre più decisi. Gli anfibi neri pestano ginocchia che si ritirano per il dolore, calciano mani che anche tra le grida crocchiano di un rumore sinistro. Finché non calano i manganelli su chi ha ancora il sangue freddo per non spostarsi, o semplicemente non può più muoversi.

È la fine di tutto, è l’inizio.

Se ne accorge perfino Irene, che ci ha messo ore a vincere la paura di uscire, ma prima dell’irruzione della Policía Nacional ha buttato la busta coi resti della sua colazione, e non sapeva se farsi largo o no tra la fila di ombrelli in attesa del voto e chiedere di Pau, sempre che fosse ancora là.

Quando vede l’assalto si precipita verso il seggio mentre chiama al cellulare. Nessuna risposta. Si accascia in un angolo della piazza, non vede più niente e non è per la pioggia, che ormai le inzuppa i capelli e la felpa.

La scorge Marco, incamminato verso il magazzino.

“Irene!”.

La trascina via gridando, prima ancora che lei lo veda.

Si divincola, chiede solo dov’è Pau, dov’è Pau.

“Forse l’ha visto Tati, dev’essere qui in giro, chiama lei” le soffia nell’orecchio quando finalmente la porta al riparo, dietro l’angolo.

Non risponde neanche Tati.

Irene si accascia sul suolo bagnato per la seconda volta in quel giorno.

La sua vita diventa il grigio della pioggia in un angolo di strada che sa di umido e bidoni troppo pieni.

Il primo a individuare il gilet è Marco: lo vede tra la folla disordinata che accorre all’ingresso ormai sfondato. Ma è addosso a una ragazza troppo alta per essere la loro amica.

Tati però è lì accanto, nel cordone che gli assediati hanno formato per impedire almeno l’accesso ai rinforzi.

Non ha resistito, nonostante le regole d’ingaggio da osservatrice. Anche lei vuole mettersi tra i manganelli e il seggio, come gli altri appena accorsi.

E come gli altri sparisce subito, cancellata dai corpi estranei in casco nero, ingoiata dalla massa di bandiere e maglie di tutti i tipi che ondeggiano nel corpo a corpo dell’assedio.

Riemerge con una donna, ferita, che sanguina dalla testa. Per non perdere l’equilibrio punta dritta verso i due italiani che si sbracciano man mano che le due si avvicinano.

Quello che non è chiaro è se la donna ferita, capelli bianchi, esile, cammina sulle sue gambe, o è il braccio robusto della ragazza a sostenerla come un peso morto.

“Nonna!” grida Marco, prima ancora di accorgersi di aver aperto la bocca.

“Che cazzo dici?” Irene piange, cerca di mettere insieme il respiro per muoversi.

Marco non risponde, corre verso la donna.

La sostiene tra le braccia nude nell’aria fredda di pioggia. Sembra sorprendersi un momento, tastarla bene per controllare che non sia sua nonna, che sia stato un miraggio della foschia e della concitazione. Ma l’abbraccia lo stesso, col pudore dei ragazzi ormai adulti verso le loro parenti vecchie. Le porta un braccio sulla sua spalla e fa per muoversi, per controllare se la regge bene, se può camminare. Sì, cammina.

“C’è un’ambulanza sul Paral·lel, portala lì” grida Tati, l’occhio di nuovo alla folla che urla alle sue spalle. Arrivano ancora vicini, la polizia forse non riuscirà a requisire le urne.

“Tati, dov’è Pau?” grida Irene, quando la raggiungono.

“Al seggio dell’Institut del Teatre, l’ho visto lì alle sette, credo mancassero scrutatori” Tati abbassa gli occhi, disgustata suo malgrado dal sollievo egoista dell’amica. Irene se ne accorge, e torna buona.

“Adesso vieni con me a casa” le intima, con aria preoccupata.

Tati la guarda con commiserazione e torna indietro. Non si chiede più niente, neanche dov’è Virginia. Ovunque sia, l’unico modo per difenderla è difendere quelli lì, che stanno facendo lo stesso che fa lei.

Marco si allontana con la signora. Pepita, si chiama, così ha detto nella voce confusa e un po’ infantile dei feriti sopraffatti dal dolore. I ceci lo aspetteranno in magazzino, quando avrà finito di soccorrerla. Tanto sono scaduti.

Irene resta sola, nel suo angolo di pioggia. Tra poco tornerà a prendere il telefono, a provare a raggiungere Pau. Ma non ci riuscirà, le viene da pensare. Non ci riuscirà mai.

Prima d’immergersi nella schermata del WhatsApp, si scopre addosso un’ultima volta gli occhi di Marco e Tati.

Un solo sguardo per tutti e tre.

Poi ritornano ciascuno alle sue cose.

Pepita sussurra a Marco, ridendo nervosa sotto il sangue che le cola sul viso, che è la prima volta che gli italianini si rendono utili nella sua vita.

Ma lo dice in catalano e a bassa voce, Marco non capisce e si limita a spiegarle in un misto di lingue che già intravede l’ambulanza, che è vicina, che manca poco.

Pepita annuisce e ripete: manca poco.

 

 

Considerando l’ottima fama di cui godono gli indipendentisti catalani in Italia, ho pensato che, alla fine, dispongo di informazioni di prima mano da parte di una fonte a me molto vicina: il mio ragazzo! Così io, che non sono indipendentista, gli ho fatto quest’intervista a tradimento. Che espone, beninteso, un punto di vista che non troverete nei partiti più in vista del procès per l’indipendenza, ma che è condiviso dai movimenti per me più interessanti. Se come coppia “di fede diversa” siamo sopravvissuti alle manganellate del primo ottobre, e allo sciopero generale del tre, supereremo anche queste domande un po’ provocatorie. Vero?

Boh. Vediamo.

D: Ciao! Che ci fai a casa mia?

R: Bella domanda. In effetti dovrei andarmene…

D: Sono d’accordo! Ma volevo dire: cosa ci fai qui, a Barcellona?

R: Ho “terminato di terminare” [evidente spagnolismo, NdR] una tesi di dottorato, e sto cercando lavoro. Non che mi ci stia mettendo d’impegno, ma diciamo che sono stato un po’ sopraffatto dagli eventi.

D: Lavativo! A proposito degli, ehm, eventi… Come ti è venuto in mente di farti “indepe”? Mica sei catalano, tu!

R: Non è che mi sia “venuto in mente”! Sono marchigiano, mi sono formato in spazi collettivi come quelli dei disobbedienti. A livello personale, mi sono sempre focalizzato sull’anarchismo collettivista. Hai presente Malatesta, Kropotkin… [Mi sciorina un’altra decina di nomi, annuisco con aria intelligente]. All’inizio non ero interessato alla tematica indipendentista. Per me il concetto di nazione era borghese, chiuso, frutto di una tradizione inventata…

D: Quindi andavi per la retta via! E poi, che è successo? Scherzo, dai, ma sappiamo come va: spesso diventi indepe perché lo è la tua comitiva, il tuo collettivo, il tuo compagno o la compagna… Anche se noto che, ahimè, non funziona al contrario…

R: Volgari insinuazioni. Ho scoperto semplicemente che esiste qualcosa che va più in là di ciò che, anche in Italia, concettualizziamo come nazionalismo. Le ricerche condotte per la mia tesi di dottorato sulla comunità italiana in Croazia mi hanno aiutato nella scoperta di un tipo di identificazione inclusiva: cooperazione alla pari e senza esclusività con altri gruppi, in un territorio misto. L’indipendentismo è una scelta strategica, non è un fine ultimo. Non è l’orizzonte, ma l’obiettivo a medio termine. È una strategia per strutturare la vita politica quotidiana. [Mi cita un’altra sfilza di riferimenti bibliografici, di cui capisco solo “Öcalan”].

D: Ho capito, mi stai discutendo in diretta la tesi di dottorato. Dimmi, piuttosto: la Spagna, cos’ha che non va? Ci sarà pure una realtà politica spagnola che ti piaccia!

R: Cosa intendi per “spagnola”? Ti riferisci allo Stato spagnolo? Certo! Ti posso nominare tantissime realtà politiche interessanti, dai Paesi Baschi all’Andalusia. [Me le nomina davvero. Tutte]. Il giogo dello Stato spagnolo opprime tanti. Se invece parliamo di struttura statale di tale stato, la mia domanda è: perché dovremmo preservarla?

D: Pensa che la mia è: perché no? Cioè, i movimenti spagnoli sono così menomati che solo i catalani saprebbero fare ‘sta repubblica? 

R: I movimenti all’interno del territorio spagnolo sono tanti, e anche efficaci. Ma non puoi farmi questa domanda adesso! L’altra sera, il capo dello Stato spagnolo ha affermato che la polizia il primo ottobre ha agito nel massimo rispetto della legalità. D’accordo, cosa ci si può aspettare da uno che sta lì perché l’antico dittatore ci ha piazzato suo padre?

D: E vabbe’, sono pure passati quarant’anni, dalla morte di Franco e dal ritorno dei Borbone… [Questa era solo per provocare, mi dissocio da me stessa!]

R: E intanto, la maggior parte dei voti catalani va a partiti non monarchici, come succede anche nei Paesi Baschi. Nel resto dello Stato spagnolo, il PSOE ha dichiarato la sua fedeltà alla monarchia. Pedro Sánchez vede se stesso come una sorta di prosecuzione di Zapatero, mentre Felipe González è il signore e padrone dell’Andalusia. Non c’è alcuna prospettiva di trovare una soluzione democratica e repubblicana a tutto questo.

D: Però il centrodestra indepe catalano fa un po’ Lega Nord, hanno detto. Ha motivazioni economiche e identitarie, non si sa in che ordine…

R: La questione economica è molto minoritaria, nella trattazione del fenomeno. Comunque sia, tra gli aspetti rivendicativi è il più discutibile, perché in effetti presume una concettualizzazione razzista dello Stato spagnolo. Ma, ripeto, non stiamo parlando di quello. La questione identitaria è diversa. È stato Jordi Pujol, il fondatore di Convergència, a dire che “catalano è chi vive e lavora in Catalogna”. Scompare quindi il concetto di nazione a cui siamo abituati anche in Italia. Vengono destrutturate tutte quelle boiate ottocentesche schilleriane [sic] su cosa sia una nazione, e si crea una nuova identità, basata sull’identificazione personale.

D: Quindi ‘sta definizione l’ha data il fondatore di Convergència! Annamo bene! Allora, scusami, ma “dall’altra parte della barricata” come vi libererete di questo centrodestra, una volta creata la repubblica catalana?

R: Per tante vie. Alcune pacifiche. La sinistra indipendentista è arrivata in Catalogna a ottenere un’influenza importante. Perché pensi che Carme Forcadell, presidentessa del Parlament catalano, dichiari che la repubblica catalana sarà femminista? Perché ci crede lei? Speriamo! Ma se il femminismo è diventato una parola d’ordine nella politica catalana, si deve ad anni di lotte dei movimenti. Quindi si tratta di questo: conquistarsi degli spazi egemonici!

D: E ci credi veramente?

R [sguardo ironico]: Se c’è chi crede veramente che Pedro Sánchez farà fuori Felipe González, farà cadere il Governo Rajoy con una mano sola, vincerà le elezioni, convocherà l’Assemblea Costituente, costituirà la Repubblica Popolare di Spagna… Penso che la mia alternativa sia più che plausibile.

D: In effetti è molto più facile affrontare i carri armati sulla Diagonal, creare la Repubblica, portare il Chiapas in Catalogna come auspica la CUP, ed eventualmente imbracciare le armi (mamma d’ ‘o carmene!) contro i dissidenti capitalisti…

R: Hai detto bene: portare il Chiapas in Catalogna! Ben venga, se l’obiettivo è la creazione di istituzioni orizzontali basate sul confederalismo democratico. Il fine ultimo, se ci pensi, è il socialismo. È dare un contesto di economia collettivista basata sul motto bakuniano: “Da ognuno secondo le sue forze, a ognuno secondo i suoi bisogni”. [Ha poi ammesso che per una volta avevo ragione io: era Marx. Ma figurati se la frase non gli era arrivata la prima volta attraverso Bakunin].

D: Tutto questo nella Barcellona da bere? Quella dei mojitos a cinque euro?

R: Il mojito a cinque euro si può ostacolare in vari modi…

D: Col Tourist Go Home?

R: No, ma vedi a cosa sono arrivate le politiche liberiste nella città? Pensa all’aumento incredibile degli affitti…

D: Eh, appunto. Ma chi si è ribellato alla proposta di stabilire un tetto massimo sugli affitti? Solo il PP? Anche Junts pel Sí, amalgama di partiti che stanno insieme solo per ottenere l’indipendenza! Come li affrontate, questi qua? Sei proprio sicuro che ci mettiate meno tempo e sforzi che a fare una Spagna repubblicana?

R: In questo momento… perché la situazione cambia di giorno in giorno, eh… sì, ne sono sicuro. [Mentre parliamo sorvola le nostre teste un elicottero della Policía Nacional].

D: Ok, ma… Dopo tutto quello che mi hai detto, com’è il tuo rapporto coi non indepe?

R: Dipende dai non indepe! Con alcuni posso anche averci una relazione. [Lo fulmino con lo sguardo]. Se invece sono delle teste di cazzo che cantano Cara al Sol e dichiarano che il sangue dei manifestanti picchiati dalla polizia sia finto…

D: Ma con quelli non ce la farei neanch’io! Vabbe’, ultima domanda: se dovessi lanciare un messaggio agli italiani che associano indipendentisti e Lega Nord, e vedono i catalani come dei polentoni antipatici che vogliono pagare meno tasse…

R [si erge nel suo metro e novanta]: Che devo dire? Voi avete le vostre convinzioni, perché l’Italia è notoriamente un paese di dottori di ricerca in relazioni internazionali almeno quanto lo è di commissari tecnici… Voi sapete già tutto, ed è inutile che vi dica qualcosa in più. Tenetevi le vostre certezze date da supposizioni assurde, e da una conoscenza del contesto catalano che definire superficiale è ottimistico, e continuate così. Ciao!

D: Ciao!

Non gli ho fatto la domanda cruciale: sarà mai possibile, specie in questi giorni di paura e conflitto, la convivenza tra gente con idee così diverse?

VAIO - WIN_20150226_220542

Chissà cosa avrebbe risposto.