Quando ero piccola, più o meno ai tempi dell’Unità d’Italia, gli alberi di Natale coi desideri sopra non c’erano. O almeno non ne ero al corrente.
Scrivevo la solita letterina a Babbo Natale, e gli chiedevo Bebi Mia.
Non so bene perché non l’ebbi mai. Forse Babbo (in questo caso, Mamma) dubitava delle mie capacità di mantenerla “sana” e intatta per più di un’oretta. Ma tant’è.
A Barcellona, invece, l’unico alberello dei desideri che abbia mai visto si trovava nello spiazzo accanto al negozio del MACBA, costeggiando la parete su cui era coniugato il verbo “ravalejar” (dal mio ex quartiere, l’adorato Raval). Era una pianticella striminzita a cui qualcuno aveva appeso desideri sparsi. Ve lo spoilero subito: gli stessi nostri.
E quelli delle maghe dei tarocchi: amore, salute, fortuna, denaro. Non necessariamente in quest’ordine.
Al massimo come desideri erano un po’ più hipster, che quella è zona di skaters e, ovviamente, appassionati di arte moderna.
In effetti quest’albero lo dovevi o sgamare per caso, o cercare apposta.
Io, fedele alla linea, ci appesi un foglietto con una sola parola. Nome proprio di persona, maschile, onnipresente. E persistente, nel tempo, proprio.
Credo che rischiai di ricevere finalmente una missiva di Babbo Natale che mi comunicasse: “Piuttosto ti porto Bebi Mia”.
Ma, ripensandoci a distanza di qualche annetto, devo dirgli “Grazie, Babbo”.
Certi regali fanno bene se li ricevi e benissimo se non succede.
Sono come la Coca Cola a disposizione quando hai sete, ma tra un momento dovrai stringere la mano a tua suocera, con lo stomaco in preda a borborigmi allarmanti. Regali che in quel momento vuoi, si capisce. Ma a non riceverli, col senno di poi, ti chiedi se “meglio così” sia una magra consolazione o, semplicemente, la verità.
Mi spiace per Babbo, ma devo confessare l’ovvio: i migliori regali me li sono fatti da sola, arrangiando quello che avevo in casa. Ricavando mantelline da gomitoli vecchi e belle serate da litigi domestici. Rimediando a vecchi errori e commettendone di nuovi, ma un po’ diversi. Traendo insomma il miglior vantaggio possibile da momenti più o meno propizi.
È questo che vi auguro, a bocce ferme e regali consegnati.
Ho visto un barbone contemplare un poster di Cara Delevigne, che sponsorizzava uno scialbo completo sportivo nella vetrina di un negozio a Portaferrissa.
Il barbone aveva una tenuta altrettanto sportiva, una tuta verde e ghiaccio molto anni ’90, e osservava la modella quasi incuriosito.
La scena era da foto, e avanzando tra i turisti in piumino che sciamavano da profumerie post-Black Friday e finti negozi di artigianato, ho pensato in inglese: “This isn’t making us any happier”.
Ora, voi sapete che di solito, al massimo, parlo da sola in napoletano. Ma quell’assaggio globalizzato di corsa ai regali di Natale mi ha fatto pensare al consumismo, e a quel bastardo di Pluto.
Non l’amico di Topolino, misteriosamente canino mentre Pippo è antropomorfo. Parlo del dio romano della ricchezza, evocato da uno junghiano venezuelano in una conferenza a Barcellona:
Gli esseri umani non si accorgono che si rivolgono al dio sbagliato, per la giustizia. Pluto distribuisce ricchezza. La giustizia l’amministrano Zeus, Atena. Le ricchezze non toccano per forza alla persona “giusta”.
Il problema è che rispondere all’infelicità accumulando cose è come rispondere alla fame ubriacandosi. Ok, stiamo bevendo, che è già qualcosa (anche se a stomaco vuoto non è il massimo), e stiamo pure esagerando. Ma se abbiamo fame, perché non mangiamo?
Cosa ci ha fatto pensare che se siamo insoddisfatti dobbiamo comprare qualcosa, e non lo saremo più? Ovviamente, anni e anni di pubblicità che, per vendere prodotti, creano nuove necessità. Dicono: “Hai bisogno di questo, fidati di me”. Non è un luogo comune che, se le donne fossero contente del proprio corpo, fallirebbe un terzo delle aziende di cosmetici e prodotti d’igiene.
Però c’è quest’incongruenza logica che non applicheremmo mai alla fame, alla sete, a bisogni primari con risposte più ovvie che la felicità, meno facile da saziare.
È come se avessimo imparato a vivere ogni aspetto della vita come una voglia da soddisfare: in quanti viviamo amori “da accumulo”, da possedere finché non ci vengono a noia e poi sostituire? Liquidiamo come una questione di soldi anche un tema delicato come i figli: spesso, invece di chiuderla lì con un sacrosanto “non ne voglio”, esponiamo questioni economiche non sempre sufficienti a fermare chi davvero desideri dei bambini.
Insomma, una marca di televisori sa che, per prosperare, non deve venderci solo un prodotto, ma uno stile di vita.
Tocca a noi capire che, se compriamo un televisore, compriamo un televisore.
E non ci spiacerebbe affatto, vero?, avere i soldi per comprarci televisori, case, gioielli, per viaggiare continuamente. Speriamo di vincere tutti alla lotteria, quest’anno. A patto che ricordiamo che nessuna di queste cose ci garantirebbe la felicità, così come una corsa al parco non ci calma la sete. Semmai ce ne fa venire altra.
Allora, se vogliamo un televisore, compriamocelo (ad averci i soldi). Se invece vogliamo la felicità, scopriamo come procurarci la nostra.
Rispondiamo bene alle nostre esigenze. Altrimenti avremo accumulato tante di quelle cose da scordarci a che ci servano.
E intanto la risposta a “cos’è che mi fa felice?”, non ce l’abbiamo.
A ordinarla al Corte Inglés, fingeranno di avere esaurito le scorte.
E niente, come dicevo nell’altro post sono sopravvissuta alla canzone di Adele, mai ascoltata che io sappia, e pure al Black Friday.
Sono passata per Portal de l’Àngel proprio mentre chiudevano i negozi, ma ho fatto in tempo a vedere la scritta che troneggiava sulle vetrine: tutto al 20%. Il ven-ti-per-cen-to? A me serve giusto un paio di calze, marroni. Secondo voi mi vado a prendere a capelli con mezzo mondo per pagare 1 euro e 60 in meno sul prezzo normale? Vabbe’ che non lo farei neanche se me le regalassero, ma a maggior ragione, chi si è fatto abbindolare da una roba del genere? Ah, molti?
Ok. Ognuno facesse quello che vuole. È che ultimamente mi sto rendendo conto della famosa differenza, che ebbene sì, mi tormenta spesso, tra volere e avere bisogno.
Le due cose andavano a braccetto per la zia novantenne che si chiedeva perché comprassimo le patatine fritte surgelate, quando bastava prendere una patata e tagliarla a sigaretta: l’olio l’avremmo scelto noi e avremmo fritto una volta sola. Ma a noi nipoti consumisti piacevano di più così.
Adesso no, mi sto rendendo conto che, se superiamo l’equivoco della comodità, tendiamo a volere solo le cose di cui abbiamo bisogno. L’insalata imbustata sarà comoda, ma quando comincia a marcire la rucola prima della lattuga a un paio di giorni dalla data di scadenza, e non riusciamo né a mangiarla né a buttarla, ci ricordiamo che il fruttivendolo ha la gentilina rossa a 10 centesimi in meno, un cespo intero. Ho cronometrato il tempo che ci metto a lavarla: cinque minuti perché sono lenta. Non ne valgono la pena?
Così per tutto il resto. Sono stata a un mercatino di beneficenza e ho preso vestiti carini e originali, roba di Nolita, Benetton, Miss Sixty. Alcuni nuovi, modelli che mi piacevano e nei negozi non trovo più, e adesso sto pensando a cosa mi servirebbe comprare e non trovo risposta (a parte le famose calze marroni). Ho tutto e mi scoccio di far posto ad altra roba che non mi serve.
Ho scoperto la passione per la cucina cinese, quella vera di zuppe e tagliatelle fatte a mano, e mi lascia perplessa chi dice che non può “permettersi di essere vegetariano”, forse pensando ai prezzi di Valsoia e prodotti bio. Dici che non vuoi, magari, non ti obietto niente, ma se mi tiri fuori l’economia ti ricordo che a fronte dei cinque euro delle tue ultime fettine io ho speso 80 cent di farina di forza e ho fatto tanto di quel seitan che pensavo di surgelarlo. Peccato che non surgeli mai niente, non ho bisogno neanche di questo. Lo spleen domenicale a che serve, se non a cucinare per mezza settimana?
Ma d’altronde, a che serve il Black Friday? A far girare l’economia. La stessa che condanna al precariato i commessi che fanno turni massacranti non retribuiti per farci comprare gli ultimi regali di Natale.
A proposito, sto facendo sciarpette per tutti, e non crediate che i gomitoli costino poco, vanno dai 5 ai 7 euro e per un lavoro decente ce ne vogliono almeno un paio. Ma volete mettere “‘a cazzata pe’ tu’ cognato”, come direbbe Osho, presa all’ultimo momento al centro commerciale, con la sciarpetta sbilenca che i miei amici fingeranno di apprezzare con un sorriso a denti stretti? Apprezzeranno il lavoro fatto pensando a loro ogni sera davanti a un film, o non sono amici miei.
Quello che voglio dire, in tutto questo, è: perché c’è la corsa ai regali, coi nuovi rituali dello sconto inventati negli ultimi anni? Perché così si usa. E perché così si usa? Perché abbiamo sempre fatto così.
Non sarà, allora, che sia questione di abitudine?
Perché, se è così, è fantastico: basta cambiarla! No, che non è difficile, basta fare un’altra cosa ogni giorno e diventa un’abitudine pure quella.
Sarà che i miei coinquilini, in questa casa, vengono e vanno a intermittenza, sarà che essere abbandonati al proprio destino genera mostri, ma io un po’ per volta ho assunto uno stile di vita basato molto sul fai da te, che mi taglia i costi perché compro quasi solo materie prime, e mi fa capire sul serio che tante cose che ci sembrano indispensabili lo sono diventate all’improvviso e quando impariamo a farne a meno non le rimpiangiamo affatto. Sì, lo so che non ho scoperto niente e siamo in tanti. Ma non sarà che siamo ancora pochi, a giudicare da come si sbattevano quelli del Black Friday?
Ok, le calze marroni mi servono ancora e non mi priverò della busta di germogli quando torno famelica dal corso delle 21.00. Non si tratta di riciclare per sempre le camicie smesse come stracci per la polvere e mangiare la stessa zuppa per una settimana, come “chi ha visto la guerra”.
Si tratta di scegliere come vogliamo vivere. Il resto, quello che dico succeda quando abbiamo cominciato, potrebbe sorprendervi sul serio.