Ero indecisa tra questo titolo e “La ragazza con la valigia”. Che poi era un omaggio a uno che mi chiamava così, quando appunto ero ragazza.
D’altronde, lo confesso, pensavo che oggi fosse giovedì. E del mancato post di lunedì scorso non me n’ero neanche accorta, intenta com’ero a fare Super Maria alla conquista dell’aeroporto, tra gli alberi crollati a Roma (uno dei quali mi aveva bloccato il binario per Fiumicino).
Il giorno dopo sarebbe cominciato il mio peggior trasloco, ma ero nell’Urbe per colpa di Tip, la mia “fatina trans” di questo concorso. Vi dico solo che mio padre, a premiazione avvenuta, si è alzato per chiedere “da uomo di scienza” perché la gente s’inventa mondi fantastici, con tutto quello che succede in questo qua.
Vabbuo’. Se c’è qualcosa che ho imparato in questi giorni, è che con la mia valigia ci sto bene. Quella da cappelliera che mi ha accompagnato per l’estate più solitaria della mia vita. Ho scoperto che contiene tutto quello che mi serve.
È anche vero che mio nonno a tavola mi faceva ripetere, quando magari volevo solo finire la cotoletta e scappare a vedere i cartoni: “Omnia mea mecum porto“.
Miii, se non è vero. Infatti, i millemila vestiti che ormai non indossavo ce li ha la santa donna che mi ha aiutato a pulire casa, che parlava solo georgiano ma capiva benissimo il paradiso Wallapop che le offrivo. Tutti i miei reggiseni (tranne due che ho conservato “per sicurezza”) finiranno addosso a donne asiatiche più minute di me, o a ragazzine poco convinte dalle marche pedofile che adesso, ahimè, infestano il mercato.
Fatto sta che ho seguito una regola d’oro: la roba che non usavo da più di un anno, via.
Ed è vero che ci si sente meglio, a liberarsene. Anche del vestito cinese che ormai non mi va più, o della parure sbriluccicante regalo di un’ex suocera del Kashmir. O dei quaderni ormai inutili che, mi spiace, ma esistono.
Casa nuova non mi concede sentimentalismi: ne abito solo una parte, per affittare il resto e poter così scrivere. Tutto il resto è spazio occupato male.
La mia non è una critica a priori alla voglia di cose inutili che ci viene ogni tanto, e che non trovo né immorale né sciocca.
Ma è vero che, tutto quello che è nostro, lo portiamo già con noi. Ed è bello aprire una credenza e scoprirci dentro solo quello che mi serve, o andare in camera ancora in accappatoio, sicura di trovarci solo abiti che mi piacerà indossare.
Il miglior modo di venderci qualcosa è farci credere che ne abbiamo proprio bisogno.
È così che le cose s’impossessano di noi.