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Ecco qui (scorrendo dal basso) le puntate precedenti.

Strategie

Alcuni nomi e fatti sono stati alterati per questioni di privacy, ma le cose sono andate più o meno così.

La soluzione è nei libri.

Me lo ripeto quando i miei sono ormai ripartiti, e posso passare il resto dell’estate in biblioteca. La gatta mi ha salvato: voglio che la sua morte assurda serva a ricordarmi che la vita è troppo breve, per passarla a frignare!

E il mio ritorno alla vita è stato sempre un ritorno ai libri. Per questo credo che “usare il cervello” risolva sempre tutto. Quando non l’ho fatto sono diventata solo un corpo, a uso e consumo di Bruno e della sua noia. La Petulante si inalbera: non funziona così! A mettermi nei guai è stata proprio l’ostinazione a non ascoltare anche il corpo… La Petulante è sempre più stronza.

E poi non mi risparmia certo i suoi tentativi di farmi ragionare, che espone in questi termini: se Bruno si innamora solo di quelle che trova strafighe, e io non sono poi ‘sto dieci, con chi me la voglio prendere? Sc-scusa? Ma sì, insiste lei, è che esco fuori dai suoi schemi! Lui si immaginava a mangiare torte nuziali a tre piani, e a un certo punto si è ritrovato davanti un bel dolcetto che non si aspettava di gradire… Insomma, concludo, sono una crostatina del Mulino Bianco. Mi chiede qué es eso.

A me “crostatina” non l’aveva detto ancora nessuno.

Meno male che Paul Watzlawick, di cui divoro la bibliografia, mi spiega che la realtà è solo una storia che ci raccontiamo. Se a un certo punto ci crea problemi, basta cambiare narrazione.

Manco a dirlo, in biblioteca sequestro tutti i testi sulla Terapia Breve Strategica (TBS), fondata da Watzlawick con un allievo italiano, e scopro subito che a Barcellona esiste un “centro di TBS”, il cui sito web è dotato di indirizzo mail: lasciate il numero e vi chiameremo.

La terapeuta mi telefona proprio mentre sto in biblioteca, e nella mia corsa indiavolata verso il bagno (per poterle parlare ad alta voce), mi faccio ripetere tre volte il suo nome. Il mio stato confusionale deve allarmarla: non viene spesso a Barcellona, si affretta ad avvertirmi, ma niente paura! La sua non è mica una terapia convenzionale, una seduta o due al mese basteranno, se lavoro bene…

Solo questo, mi doveva dire. All’appuntamento mi presento armata di fogli A4, con stralci del mio diario e un’antologia di conversazioni selezionate tra me e Bruno. Mi aspetto di ritrovarmi in una clinica o un centro medico, e invece finisco in uno studio legale riadattato per le sedute, davanti a un donnone di mezz’età che tra me e me già chiamo “la Strategica”. La vedo incenerire con gli occhi le mie scartoffie, prima di iniziare la tortura per cui la pagherò: cosa credo di ottenere, esordisce, con quella relazione sballata? Dovrei sapere che i maschi sono fatti per reagire a certi stimoli, ed è inutile provare a instillarglieli noi…

Oddio, fa sul serio? Se a qualche uomo fa comodo sentirsi l’appendice del suo pene, non sarò certo io a reggergli il gioco! La Strategica è colta alla sprovvista dalla mia conoscenza del metodo, e allora mi allarmo un po’: non ti arrendere, la imploro con gli occhi, prova ancora a farmi fessa e contenta.

Allora lei mi assesta una domanda trabocchetto: sei intelligente o sei stupida?

Sono stupida, ovvio! Se no, mi chiedo, cosa ci farei in uno studio legale riciclato, a farmi prendere per il culo da una che mi vuole riprogrammare la mente in dieci sedute? E neanche ci riesce, a quanto vedo…

Ma ormai sono lì, tanto vale spiegare che con Bruno le ho tentate tutte. Ho provato a “rispettare i suoi tempi”, e dopo sei mesi ero ancora un passatempo da concedersi dopo il bucato. Allora ho imposto i tempi miei, e sono stata mollata dopo neanche sette giorni di montagne russe. Quando ho provato io a chiudere, è tornato. Quando ci ha provato lui, è tornato. E io, dopo un po’, non sono stata più in grado di mandarlo via.

La Strategica ascolta tutta la tiritera, poi si gioca l’ultima carta. Prima di stare con lui ero single, vero? Non sono mai stata con lui, borbotto a mezza voce: quell’unica settimana “ufficiale” è stata una farsa… Diciamo che ero single, insiste la poveraccia. Come stavo, prima?

Benone, mento. Dovrei spiegare che avevo fame, e non sapevo neanche io di cosa.

“Allora” prescrive lei “pensa ogni giorno a cinque azioni che potresti fare da single, quindi esegui la più semplice. Dopo una settimana eseguirai le due più semplici. Ci vediamo tra tre settimane”.

Finalmente! Esco da lì con ottanta euro in meno (sul web mica c’era scritto il prezzo…), e una formula magica a cui aggrapparmi: non chiedevo altro che dei compiti da fare, delle azioni che dipendessero solo da me. Voglio solo riprendermi un po’ di controllo. Non capisco neanche come funzionerebbe, questa roba, e a dirla tutta dubito che funzioni.

E invece mi accorgo subito che è un trionfo.

A venerdì per il seguito!

Se vi piace ciò che scrivo, date un’occhiata al mio Sam: non glielo ricordate, ma ha vinto un premio proprio figo.

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Sentite, magari il mio migliore amico se l’è inventato, ma una volta se ne uscì che, a Pearl Harbor, i cuochi che meno soffrirono di stress post-traumatico furono quelli che lanciarono patate agli aerei giapponesi.

Fedeli a questa leggenda, in casa mia stiamo “lanciando patate”, cioè stiamo facendo cose che non contano granché nell’economia del cosmo, ma ci aiutano a sentirci utili. Per esempio, ci stiamo occupando delle visite al veterinario di questa gattina. Lascia che, quando discutiamo i dettagli col suo umano preferito, ci sentiamo rispondere che non ci sta con la testa, facessimo noi: al contrario di lui, noi non abbiamo mai avuto “i russi in città”, non in quel senso lì.

Sì, nel mio paese d’origine ci sono tante di quelle migranti che la Pasqua ortodossa si festeggia nella piazza principale, e la prole di queste signore mi fa sentire una nanerottola fin da quando va al ginnasio!

Nella mia città d’adozione, invece, stanno cancellando le prenotazioni in un ristorante che offre sottaceti fantastici: ma niente, prenotazioni cancellate anche se il tipo che serve ai tavoli (sospetto sia il co-proprietario) parla catalano e ha un figlioletto che si chiama Oriol. Ok.

Noi, intanto, lanciamo patate. Portiamo la gattina al veterinario, mangiamo i fantastici sottaceti. Per chi potesse fare di più, le iniziative si moltiplicano: portare generi di prima necessità, o anche ospitare mamme ucraine con prole al seguito (e nel vostro caso verranno proprio loro, non un senzatetto un po’ despota di nome Cri).

Poi, adesso che Sam arriva in libreria, scoprirete quanto quel rompipalle ami Dostoevskij.

(Make pasta e patane, not war!)

The End Handwritten On Old Vintage Paper Stock Photo - Download Image Now -  iStock

Bella, eh, la Pasqua di Ricomincio da capo? L’anno scorso aveva quasi una sua nobiltà, il restare chiusi in casa ma “vicini col cuore”, cantando dai balconi che ci saremmo abbracciati presto (quando non si cantava l’inno italiano anche a Napoli!). Adesso, come suggerisce il buon Zerocalcare, è la ripetizione che fa strano.

Cioè, le storie sono strane per conto loro, spesso e volentieri, specie quando sono tristi o angoscianti come quelle dell’ultimo anno. Però, mentre guardo il plotoncino di conterrOnei che hanno sfidato la zona rossa per farsi Pasqua proprio sotto casa mia, ripenso a un ragionamento che faccio da tempo.

Dove finisce una storia? E mi riferisco a una storia di qualsiasi tipo. C’è l’evento principale, che so: io che prendo una multa. Quello di solito è fatto e finito, e lo subiamo, nel bene e nel male, anche quando siamo noi a provocarlo: non controlliamo che una piccola parte della situazione. La storia della multa può finire con me che la straccio, e dieci anni dopo ne sto ancora a pagare le conseguenze. Oppure con me che vado dall’amico avvocato, che per evitarmela si fa invitare a cena per il resto dei suoi giorni, e a quel punto era meglio pagarla. Oppure con me che vado alla posta a pagare la multa, e incontro un’amica d’infanzia che adesso insegna presso un carcere minorile, così tra noi inizia una collaborazione fantastica… Quand’è che do la storia per finita, e su quale dei finali mi voglio concentrare?

È per questo che non arrivo mai a terminare un manoscritto, e l’anno scorso proponevo correzioni anche quando il libro era in stampa!

Non so mai quando finisce una storia, quando è il caso di dare per concluso l’evento in sé (e di solito è facile) insieme a tutte le sue conseguenze (e quest’ultima è un’operazione difficilissima, se consideriamo quanto tutto sia collegato e quanto durino certe conseguenze nel tempo). Allora, con le storie che finiscono male o promettono di farlo ho questo mio metodo, che a volte diventa un po’ una mania, ma di solito funziona: non la faccio finire lì. Ciò non significa ripudiare il “lasciala andare come va” di una Irene Grandi d’annata, ma comporta piuttosto la determinazione a tirarci su qualcosa di buono.

Questa crisi per me devastante, che mi fece entrare per qualche mese in un paio di jeans taglia 38 (miracolo!), poteva finire col tizio che mi mollava senza dirmelo per una che, sapevo già, sarebbe durata tre mesi (e no, la cosa non mi consolava affatto). Ma è stata per me l’occasione per dare una svolta alla mia vita, che mi cambiasse sul serio in meglio. Ancora oggi, più di sette anni dopo, sto pensando di usare in qualche modo le conoscenze che ho acquisito in quel periodo di crescita, magari sistemando un’antica bozza di manuale di self-help per impedite come me, o diventando la figura professionale che manca al mondo: la counsellor cinica. Eh, lo so, già vi vedo a dire: “Non ci serve niente, grazie!”, oppure “Stavamo scarsi!”. Però io sarei quella che non ti vende la stronzata che volere è potere, ma ti cita Camus e ti ricorda che la vita probabilmente non ha senso, tanto vale che gliene trovi uno tu. Lo so, avrò clienti a frotte! E le amiche psicologhe, spesso private dal counselling di pazienti che avrebbero bisogno solo di “uno bravo”, dormiranno sonni tranquilli. Scherzi a parte, visto che sono finita a parlare come sempre di storie d’ammmore, dove potrei far finire le mie? Al preciso momento in cui voglio ridurre il mio ex a polvere di stelle, e spedirlo su Marte a cercare acqua? Oppure a quando risolvo i nostri conflitti interni e torno a sentirlo ogni tanto? O a quando, finalmente più tranquilli, riusciamo a diventare anche amici sul serio? Con alcuni mi sono fermata al primo stadio, con altri al secondo. Il terzo è complicato e richiede molte energie, spesso non ne vale la pena: quando succede, però, è fantastico. Oh, il nostro tempo è solo nostro, possiamo lavorare a un numero limitato di cose alla volta. Che siano quelle buone!

Quindi, vi chiedo: dove finiscono le vostre storie? Familiari, lavorative… di ogni tipo. Se terminano con l’evento in sé, amen, gente, a volte bisogna solo mettere il punto, e magari a voi riesce meglio che a me. Ma provate il mio gioco: far finire una storia quando ne avrete ricavato qualcosa di veramente buono.

Ricordo ancora la madre che, al mio paese, perse il figlio in un modo assurdo e terribile, e anche se aveva tutto il diritto di starsene in casa a maledire il mondo fino alla fine dei suoi giorni, intitolò al ragazzo un premio culturale. Una volta, una ragazza ormai prossima alla trentina si beneficiò di questo premio, e tornò ad avere un po’ di speranza nell’umanità.

E la storia continua.

Broccoli lessi
Da casaecucina.it. Come si dice a Napoli: n’aggio scaurate ruoccole, ma tu jesce fore ‘a pignata.

Ssst, ho capito tutto.

L’ho capito alla fine di un pomeriggio in cui mi era sopraggiunto un problema burocratico frequente in tempi di covid, ma avevo dato la mia parola a un’amica, per aiutarla con un suo progetto letterario. A ben vedere, l’amica aveva ricevuto altre informazioni sul suo progetto e non aveva più bisogno di me, o non con urgenza. Allora mi ero trovata a questo bivio: tradire l’amica o tradire me? Lo so, sono un po’ melodrammatica quando mi rimangio gli impegni presi. Ma sul serio, a un certo punto era parso che l’aiuto che avevo promesso fosse ormai superfluo o posticipabile, per quanto l’amica insicura affermasse il contrario, mentre il mio problema, se non era proprio urgentissimo, mi preoccupava comunque un bel po’.

Poi avevo capito che la questione burocratica non si sarebbe risolta in un giorno, ed ero accorsa troppo tardi ad aiutare l’amica: ma quella intanto, come previsto, aveva fatto benissimo anche senza di me e in quel momento non poteva ricevermi. Visto che ero in strada, avevo avuto voglia di chiamare qualcuno per sfogarmi sul pomeriggio buttato, ma tutti i miei amici, man mano che facevo mente locale, si rivelavano troppo impegnati con problemi loro, o irraggiungibili, o inaccessibili in altri modi più creativi. Così alla fine m’ero ritrovata a peregrinare da sola, e con la ffp2 che mi costringe a tenere la bocca sempre aperta (sì, ho ancora l’allergia!).

Mi chiedevo: perché, a sette anni dalla mia crisi globbale totale, mi ritrovo ancora un parco amicizie sul disfunzionale andante? E dire che detesto lo sdoganamento della parola “disfunzionale”! Però insomma, tante persone che conosco e amo sono brillanti, intelligenti e buone come il pane, ma stanno più fuori di un balcone e mi succhiano un sacco di energie, in rapporti in cui mi trovo quasi sempre a dare di più di quanto ricevo. E non dev’essere il do ut des ultra-simmetrico che pretenderebbe qualche conoscenza locale, abituata a dividere fino all’ultimo centesimo anche il conto del caffè. Però, certo, non disdegnerei la possibilità di chiamare qualcuno per parlare un po’, dopo una giornata di merda, senza che l’altra persona sia troppo presa dai suoi problemi (o da sé e basta) per starmi a sentire.

Alla fine mi ha salvata un’allegra famigliola trapiantata a Torino, che in diretta WhatsApp è riuscita a intrattenere mezz’ora la bimba neonata che lottava con la dentizione, e a fare anche da babysitter a me! Poi dice che la tecnologia allontana le persone.

Resta in piedi la domanda: “Perché le persone che frequento si rivelano ancora più esaurite e impegnative del resto dell’umanità, che già di per sé è piuttosto folle?”.

E qui, vi dicevo, ho trovato la risposta.

Vado per punti. Innanzitutto c’è un equivoco di fondo: l’idea che “attiriamo”, soltanto noi nell’universo mondo, le cosiddette persone tossiche. Non è vero, quelle si attaccano a chiunque come cozze allo scoglio, ma alcune persone le scaricano subito e altre le lasciano entrare.

A questo punto, sorge la domanda: il problema è lasciarle entrare, o lasciare che restino? Adesso, io sono passata dai pesaturi manifesti a quelli in incognito: o meglio, a gente che a occhio e croce avrà pure dei problemi (“E chi non li ha!”), ma ha anche tanti pregi che, almeno all’inizio, sembrano compensare. Che so, l’amico più giovane che ti assume a modello di vita (e già questo la dice lunga…) è effettivamente un po’ confuso, ma parlarci è piacevolissimo. Oppure, il tipo sensibile e simpatico che per un po’ è stato “allo sbando”, come dice il TG, avrà pure diritto a una seconda possibilità!

Mi sento dire spesso che “effetto sorpresa” un par de ciufoli: ho fin dall’inizio tutti gli elementi per valutare se un qualsiasi vincolo che stabilisco sia potenzialmente nocivo o spompante. Sono io che mi ostino a ignorare i segnali. Ma io non credo sia così.

Perché, nel mio passaggio epocale dai disagiati manifesti a quelli in incognito, acquisisco solo in un secondo momento un sacco di informazioni a cui non potevo arrivare: magari il tipo della seconda opportunità ha le allucinazioni, o la nuova amica che vedo ogni tanto soffre di stress post-traumatico in seguito a uno stupro, e non la prende bene se mi fermo a litigare con un coglione che ci fischia dietro in strada… Sono fattori che potevo prevedere? Francamente, la mia più nera immaginazione non arriva a tanto, e informazioni del genere, specie con gli amici anglosassoni, possono giungermi dopo un bel po’ di tempo dall’inizio della frequentazione.

Ed ecco la mia conclusione:

  • il problema non sorge quando lascio entrare nella mia vita questa gente, che magari è bizzarra ma è all’apparenza innocua: se riduco tutto a quello, mi ritrovo anche a sminuire l’alacre lavoro con cui, a costo di peccare di allarmismo, ho lasciato fuori tantissime persone alla prima battuta non gradita;
  • il problema non sorge neanche quando, una volta venuti fuori gli elementi problematici e distruttivi per me, decido che i pregi e l’intesa creata prevalgono, e queste persone possono restare nella mia vita;
  • il problema vero è che, anche quando possiedo elementi che cambiano le carte in tavola, decido che il rapporto deve continuare come prima: come io mi aspettavo che sarebbe stato.

Ed è da quest’ultimo punto che mi è venuta la soluzione: non si tratta né di continuare come prima, né di recidere il vincolo se non voglio. Si tratta di cambiare la relazione: adattarla alle nuove premesse, visto che sono diverse dalle condizioni in cui era iniziato il legame.

Tutto qua. Erano mesi che mi chiedevo come trovare un equilibrio tra il pensare al proprio benessere emotivo (anche liberandosi di presenze inopportune) e l’odiosa tendenza, che mi dicono essere molto attuale, a buttare via un’amicizia o un amore appena si presentino delle difficoltà. E invece ho capito che mi aspetta un lavoro molto meno drastico, e perciò più faticoso: accettare il cambiamento. Quel fenomeno per cui un amore può diventare un’amicizia, un’amicizia un amore, e tutti e due possono diventare, se proprio la cosa è irrecuperabile, un numero bloccato sul cellulare.

Così, col senno di poi mi dico (ma a quanto pare ci voleva una pandemia per farmelo capire) che è meglio sostenere senza nessuna aspettativa, e perfino un po’ a distanza se possibile, il tipo che vuole una seconda opportunità dalla vita, ma non è in grado di rapportarsi ad altre persone: almeno finché non riuscirà a rialzarsi sul serio. Oppure l’amica nuova che vaga stralunata per il mondo va vista ogni tanto e con tutte le precauzioni del caso (mai affidarle l’organizzazione di una cena per dieci!).

Tutto questo dobbiamo adottarlo, va da sé, se per noi vale la pena continuare. Se no vale sempre il consiglio del mio migliore amico: fuje sempe tu.

Come ve lo traduco, per chi legge da fuori Napoli e non mastica l’idioma? Diciamo che è tipo l’urlo lacerante (“Run!”) che ascolterete nel video qui sotto:

IMG_20200710_140905_382Cascate male: oggi sono più scema del solito.

Ho un manoscritto da rivedere, a cui tengo: è la storia di un certo signore che conosco, che a un certo punto ha deciso che, se la società prescrive una vita tutta casa e lavoro, lui preferisce la strada.

Ce l’ha fatta almeno in questo, e va avanti e indietro nella società e fuori, con un’irresolutezza che Foucault aveva in qualche modo previsto: non possiamo semplicemente uscire da un sistema che ci prescrive gli stessi termini in cui pensiamo. Perfino la nostra lingua, con i suoi costrutti, ci fa vedere le cose in un certo modo e non in un altro.

È che in questi giorni mi sono interrogata a lungo su cosa determini le nostre decisioni: lo so, domanda oziosa e irrisolvibile. Cosa ci fa volere ciò che vogliamo? Se siete entrati come me nel… tunnel di Dark (ah ah ah) ricorderete la frase di Schopenhauer che prova a dare un senso a quella roba che comprenderò forse giusto nel 2052 (ok, la pianto).

È certo che un uomo può fare ciò che vuole, ma non può volere ciò che vuole.

Questo dove ci lascia? Forse, nel bel mezzo di una pandemia in cui non sappiamo cosa ci toccherà a ottobre? Forse.

Tanto le nostre speranze, quelle che finora ci avevano presentato come la nostra massima aspirazione, erano già state spazzate da una prima crisi economica, insieme a carriere promettenti e cattedre umanistiche. Allora avevamo aggiustato le nostre pretese, avevamo deciso che non fossero indispensabili tutte le cose che i nostri genitori avevano ottenuto più facilmente di noi. In fondo, un posto fisso “era noioso” (sentita davvero da un alunno irlandese), e una famiglia che du’ palle: noi vogliamo essere liberi di girare il mondo, no? Thailandia in sacco a pelo, evviva! C’eravamo fatti andare bene quello che c’era: le tariffe aeree economiche e la manodopera a basso costo, che poi eravamo noi.

Quelli di noi che avevano privilegi economici, o sociali, o di qualsiasi tipo, se ne sono serviti per salvarsi da soli almeno per un po’: entrare nel circolo chiuso grazie alle “conoscenze”; beneficiarsi dei suoceri in loco per figliare anche all’estero, mentre le altre espatriate incinte ripartivano in massa; procurarsi (esempio a caso…) una rendita che consenta di accantonare le ore d’insegnamento a 15 euro lordi per i propri manoscritti da correggere (e onore a chi scrive così bene, svolgendo anche un altro lavoro fondamentale in società).

Insomma, sembravamo avviati a un mondo in cui c’era pure la moratoria sull’età: i quaranta sono i nuovi trenta (occhiolino). E poi?

Poi la pandemia e il nuovo capitombolo.

Un mondo fragile si accartoccia su se stesso, con conseguenze imprevedibili. Perché questo è l’aggettivo giusto: imprevedibile. Non sappiamo cosa succederà. Non so voi ma, con la mia ansia certificata, non sapere è più angosciante che prepararsi al peggio.

Così aspetto con voi, contenta e triste insieme: qualsiasi cosa accada, il mio mondo non ne verrà troppo scosso. I libri restano lì. Quelli letti, quelli scritti, quelli da scrivere.

Ma lo dico sempre: ci salviamo solo insieme.

E allora capiamo una cosa: che questo nostro mondo è interconnesso sul serio. Che se cado io cadi tu, cantava una ai tempi miei.

E allora vediamo di trovare soluzioni, di cambiare stile di vita, di trovare una risposta a ciò che dovremmo sul serio cominciare a chiederci: come ci conviene vivere? Chiediamocelo al di là di ciò che vogliamo, o al di là di ciò che ci è stato insegnato a volere.

Chiediamocelo e a quel punto sì, che cadremo insieme.

Solo che, per fortuna, cadremo in piedi.

 

Ok, succede anche a me.

La mia versione preferita del nuovo scherzo che circola è questa del Falzo Vegano:

L'immagine può contenere: cibo

Ma ne ho viste di simpaticissime, tipo il meme con un Jack Nicholson prima neoassunto come guardiano di un certo hotel (my plans), e poi letteralmente congelato (2020). Oppure quello con una Margaery Tyrrell prima radiosa e poi, mettiamola così, esplosiva… Insomma, si scherza sul fatto che quest’anno dalla numerazione curiosa (i due venti accostati) sia stato dapprima celebrato dai media e da Paolo Fox, e poi sia andato appena appena un po’ in malora: chi per fortuna sta scampando alla pandemia si ritrova già fino al collo in una crisi economica che, come da sottotitoli di Netflix, può solo intensificarsi.

E sì, a volte lo sconforto prende perfino me che ho la fortuna di non dover fare la fila fuori alla chiesa di Sant’Anna, per mettere il piatto a tavola: dunque, è con lo stomaco fin troppo pieno che in questi due mesi ho finito di leggere dodici romanzi, e ne ho iniziato a scrivere uno. Però ho anch’io la mia bella serie di progetti a cui ho dovuto dire, una volta per tutte, arrivederci a mai più. D’altronde, in tempi non sospetti (e con buona pace di Fox) avevo appurato che questo era l’anno d’ ‘a merma, come la definiva la mia versione spagnola dell’I Ching. E se non masticate lo spagnolo aulico o il mandarino antico, cambiate una sola consonante a “merma” e vi farete un’idea.

Però, sapete che c’è? L’altro ieri stavo passeggiando per strada nell’orario serale consentito, e mi sono resa conto di una cosa, che farà anche un po’ uovo di Colombo, ma appunto, a volte si fatica ad arrivarci: non ci posso fare proprio niente, tanto vale pensare ad altro. Cioè, sul serio: posso mai mendicare un volo di stato tramite il Consolato, per tornare a Napoli e presentare il nuovo romanzo a un massimo di quindici persone per volta, tutte in mascherina? E magari restare bloccata in paese per chissà quanto. Posso mai tornare indietro nel tempo e acquisire per miracolo le informazioni che ho adesso su un paio di progetti che avevo cominciato, a scatola chiusa, alla fine dell’anno scorso? In questo momento mi è perfino difficile arrivare a vedere il mare, visto che la Barceloneta è a due chilometri da casa (uno in più di quelli percorribili in fase 1). Inoltre, a giudicare dai viandanti, il quartiere marittimo sembra avere in questi giorni la stessa densità di New York, quindi finisce che arriva Sánchez e dice: “Tutti a casa!”. Ma in un senso meno speranzoso rispetto al titolo di Comencini (perché sto pure recuperando i film italiani storici che mi mancavano).

Però ci posso fare qualcosa? No. Voi ci potete fare qualcosa? No. E allora di che ci preoccupiamo? Pensiamo piuttosto a come evitare che questa impasse diventi ancora peggio.

Il primo passo è: smettere di preoccuparsi di quello che non possiamo cambiare. Tipo: il modo in cui le persone a noi vicine reagiscono alla quarantena; la “data da destinarsi” del concorso pubblico in cui speravamo; le restrizioni alla circolazione. Una volta ingoiato questo boccone amaro, arriva una specie di sollievo, ed è lì che succede un miracolo, sempre che non ci aspettiamo proprio… il miracolo! (Chi trovasse oscura la mia frase, chiedesse a Lello Arena.) Succede che mettiamo fine al logorio mentale che causano certi tarli senza rimedio, e a quel punto facciamo spazio a soluzioni inedite. Che nove su dieci non sono quelle che volevamo, ma spesso la volontà è abitudine, e quando cambiano le abitudini cambiano anche certe volontà.

Quanti di quei progetti che abbiamo perso erano davvero desiderati? Io ne conto un paio, ma devo ammettere che nella maggior parte dei casi mi ci ero trovata in mezzo per forza di cose o spirito di adattamento, più che volerli con tutte le mie forze. A voi non succede lo stesso?

Vediamo allora, in questo cambiamento sventurato di circostanze, quali nuovi progetti potremo inseguire e quali, in fin dei conti, erano il nostro modo di accontentarci delle circostanze in cui versavamo.

È difficile, lo so, parlare adesso di sogni e speranze.

Ma vi assicuro che sono lì e, se glielo permettete, venderanno cara la pelle.

(Una serie che ho finito ieri, e mi mancherà.)

KEEP CALM AND MAGICABULA CHITESENCULA Poster | NICK J | Keep Calm ...

Intendiamoci: ci siamo dentro, insieme.

Anche se c’è un abisso tra me che scrivo tranquilla e una colf straniera, che magari abbia figli a carico e datori di lavoro che si pongono queste domande qui.

Ma io intendo dire che da tutta questa faccenda, per citare il bel titolo di un romanzo che non ho letto, “nessuno si salva da solo”. Pensiamoci un attimo: dalla pandemia e conseguente crisi economica ci potremmo salvare noi ma, se non lo fa anche il resto del mondo, sempre in una società di merda ci ritroveremo a vivere, quiiindiii…

Esprimo l’ovvio perché a volte pare che qualsiasi cosa succeda sia un affronto diretto a noi, proprio a noi: la pandemia è arrivata perché avevamo deciso di svoltare proprio quest’anno! Per una volta che volevamo avviare un’attività, fare quel viaggio a lungo posticipato, conoscere proprio una persona speciale… E finché ci ridiamo su in videochat va benissimo, ma, potenza del mainagioia-pensiero, sta’ a vedere che un pochetto ci crediamo davvero.

Inoltre, sondaggio: quanta gente conoscete che è strasicura di essersi presa il virus, magari mesi prima che si diffondesse? Io, modestamente, ho una vicina che mi ha onorato della miglior giustificazione di sempre per non essersi presentata al mio compleanno: aveva il covid già il 12 febbraio! Ce l’aveva da una settimana, peraltro: la prima malata della penisola iberica? Avrebbe perfino contagiato il suo povero gatto, che è morto per quello. Una conoscente, invece, pensa che la malattia sia venuta prima a suo nonno, che come conseguenza ha avuto un infarto (noto effetto del virus, ma per fortuna il signore adesso sta bene), e poi ha infettato lei, che si sente “una schifezza” da settimane. La ammiro sul serio, perché è coscienziosa: si sveglia ogni giorno alle 6 del mattino per poter girare un po’ da sola e non contagiare nessuno. Tanto, pure nel suo caso, è roba di mesi fa.

Con tutto il rispetto per i degenti veri, e i fenomeni più che comprensibili di autosuggestione, quando sento tanti potenziali malati che non hanno potuto fare mai un tampone (purtroppo), mi viene da pensare a chi crede nella regressione, cioè nella possibilità di riscoprire le sue vite passate: fateci caso, le signore sono state tutte Maria Antonietta e Cleopatra, non so in che ordine (ah ah ah). Mai nessuno che fosse l’incarnazione di Tre Palline, mitico personaggio del paesello vicino al mio! (L’origine del soprannome non mi è del tutto chiara, e forse è meglio che resti avvolta nel mistero.) Mi sa che, nella mia scalcinata metafora, la cosa più vicina a Tre Palline sarebbe la mia curiosa allergia che mi rendeva sensibile agli odori, e che, faccio sommessamente notare, è piuttosto diffusa con una gran varietà di sintomi, alcuni simili a quelli provocati dal covid.

Precisiamo: è importantissimo pensare a noi, alle conseguenze che un qualsiasi fenomeno abbia sulla nostra vita. Uno dei problemi che abbiamo riscontrato durante la fase di reclusione totale è una visione distorta dello spirito di sacrificio, che fatichiamo a scrollarci di dosso: usciamo a fare una passeggiata nelle ore previste, rispettando le distanze? “Zoccola (o coglione), è per colpa tua che sono chiuso in casa!” E no, non fingiamo: il semplice messaggio “rispettiamo le norme di sicurezza” è sconfinato spesso nella paranoia totale. Insomma, l’abnegazione che ci hanno inculcato fin dalle elementari col crocifisso in aula, e che seguiamo fedeli alla linea specie se siamo donne, diventa una scusa per misurare le azioni altrui. Una rivalsa, se vogliamo. Perché, “come sempre”, la gente onesta fa il suo dovere e subisce solo torti, signora mia. E chi si permette di cercare un minimo di conforto in questi tempi difficili sta facendo un torto proprio a me, persona perbene.

Ecco, forse è di questi tempi difficili che possiamo fare un uso ponderato dell’espressione romana del titolo, che per la verità in lande partenopee ho sempre sentito sotto la forma più gender neutral: “Ma chi ti caca!”. O “Chi ti calcola”, se proprio non siamo per il turpiloquio. Fatto sta che, come ho detto altrove, uno degli insegnamenti più importanti che mi abbia trasmesso mio padre riguardava un’occasione in cui, da ragazzina, temevo di fare una figuraccia*. Al che il mio genitore 2 mi rassicurò con questo pensiero di grande conforto per un’adolescente: “Il mondo ti caca meno di quanto immagini”. Oddio, magari “l’autore dei miei giorni” (come si definisce lui, prima che lo mandi a quel paese) usò espressioni più forbite: ma questa versione, francamente, ci piace.

E infatti secondo me dobbiamo cercare la quadratura del cerchio, l’apostrofo rosa tra le parole chi te se ‘ncula (che poi è aferesi, ma vabbe’): dobbiamo, cioè, essere consapevoli degli effetti del mondo su di noi, senza pensare in ogni momento che il mondo giri intorno a noi. Ce la si fa? Diciamo che ce la si può fare.

Ma oggi sono riconoscente a mio padre (che per qualcuno, invece, avrei ammazzato nel primo capitolo del mio romanzo), e voglio raccontare un altro suo insegnamento. Me lo trasmise davanti allo scivolo acquatico che, alla veneranda età di quindici anni, avevo paura di affrontare: “Se una cosa la possono fare tutti a prescindere da caratteristiche personali e preparazione previa, puoi farla anche tu”.

Quindi posso anche scrollarmi il mondo dalle spalle, come fanno altri più illuminati, e salvarmi dall’illusione di reggerlo io sola! E, già che ci sono, posso anche smettere di prendere tutto sul personale e considerare che il mio problema è in realtà collettivo. Come ne usciamo, insieme?

Mai come in questo momento, dunque, bisogna pensare alla salut… No, scusate, l’italiano non restituisce tutto il senso polemico, ma distaccato, che vorrei trasmettere alla frase.

Insomma, allora: da Trieste in giù, penzate ‘a salute!

 

(Per restare in tema)

 

 

 

*in realtà ero una figuraccia ambulante, ma mi pareva di capire che diventare “una persona normale”, come mi consigliavano certe sollecite compagne di classe, passasse per avere un sacro terrore delle figure di m…

 

The art of storytelling — and why I agree with Tyrion Lannister Quasi sette anni fa, io stavo male e il mondo stava bene.

O così mi pareva allora. Adesso il mondo sta male, e io… io ci sto male, al massimo, e voglio fare quel poco che sta in me perché non sia tanto così. Partendo, però, dalla pace che ho imparato a trovare in quella crisi di sette anni fa.

Pensavo a tutto questo perché, come spesso mi accade nella vita, una specie di anacronismo mi permette ogni tanto di fingere che in questi mesi difficili non stia succedendo proprio niente di nuovo. In questo caso, mi sta aiutando il bar etiope, quello aperto un annetto fa nel Born. Per la verità, non sono mai arrivata a entrarci e a sentire un concerto, per com’era affollata la sala. Per non parlare delle volte che ho trovato tutto chiuso senza preavviso: ma cavoli, almeno da un punto di vista virtuale, come pianificavano le cose loro…! Almeno su Facebook: avevano organizzato un evento per ogni concertino di musica africana (con artisti di diversi paesi del continente) che si teneva ogni sabato sera. Anche con la quarantena, le notifiche non hanno mai smesso di arrivarmi, così il sabato pomeriggio alle 17, quando mi si accende la spia sul cellulare, mi dico: adesso metto addosso qualcosa di carino e vado lì, sperando che oggi non ci sia troppa gente nel locale, o folla per strada.

Sì, mi prendo per il culo da sola. Come facevo a vent’anni, con mio nonno sottoterra da almeno un annetto: da una casa vicina sentivo ancora tossire qualcuno che in precedenza avevo sempre scambiato per nonno (che soffriva come me di rinite allergica), e anche allora che non avevo più speranza che fosse lui, me lo figuravo al piano di sotto, intento a maledire insieme a me la gramigna del campo di fronte casa nostra.

Ieri per prendermi per il culo ho visto, con un anno di ritardo, la reunion di chiusura di Trono di Spade: mi era rimasta così tanta rabbia per com’era finito male, che potevo ancora fingere fosse, beata me, il peggior dispiacere che ricevessi da molto tempo! (Magari subito dopo i risultati del mio test antimulleriano, ma quelli almeno li sto superando.) Allora ieri ho smesso di chiedermi per un’oretta che fine abbiano fatto i lavori di amici e non, i loro soldi per pagarsi l’affitto e il senno di chi divide con me una casa che può abbandonare solo un’ora al giorno. Invece di tutto questo, come ai “bei vecchi tempi” mi sono chiesta in napoletano chi ha cecato i due David, cioè come gli sia venuta l’idea di trasformarmi la khaleesi in una psicopatica a rota d’incesto (e sì, espatriare è complicato per tutti, Dany, anch’io a volte ho sputato fuoco!). Così, mentre vedevo tutti i membri del cast abbracciarsi sul palco di Conan O’Brien, mi sono ricordata del motivo per cui la storia che avevano incarnato era così importante per me.

Come vi ho già raccontato (e comunque si capiva), durante questa mia crisi orrenda di sette anni orsono non riuscivo a leggere libri di attualità: solo fantasy o giù di lì. Tipo, che so, le teorie junghiane! Ok, ok, scherzo: in questo caso mi riferisco a The Hunger Games e, appunto, a Trono di Spade. Quando mi sentivo sull’orlo del collasso aprivo quei mattoni stampati in carta economica, e pensati per un pubblico giovanile o amante dei draghi. Quindi vivevo le familiari inquietudini di John Snow, che si sentiva fuori posto ovunque andasse, o le lotte per la libertà dei popoli della prima Daenerys Targaryen (*scatta l’emoticon a forma di cuore*). I miei capitoli preferiti erano quelli sulle peripezie di Arya Stark, girovaga in questo medioevo fantastico, ma zeppo come quello vero di malattie ed eserciti in lotta.

Quando ho visto tutto questo rappresentato più che discretamente su uno schermo, e per almeno due o tre stagioni buone, mi è parso una bella storia paradossale: intanto che io stavo accucciata su un letto a pugnalare un panettone per pranzo (mangiavo solo le parti al cioccolato, e in realtà quello che divoravo erano queste pagine in edizione economica), tutta quella gente della troupe che adesso, nel video che osservavo, applaudiva i volti noti sul palco, aveva lavorato, guadagnato e vissuto otto anni in funzione della stessa storia.

Almeno su questo, il Tyrion Lannister dell’ultimissima puntata ha ragione: la gente segue le storie. La mia è quella di una crisi che ha superato le crisi: tutte quelle che vi hanno fatto seguito, compresa questa qui. Che è stata sconfitta dall’incredibile privilegio (il cui desiderio è sorto allora) di poter fare il mestiere che amo: raccontare. E vi ho raccontato a lungo di quando, sette anni fa, avevo perso il filo di qualsiasi spiegazione che avesse senso per me.

Grazie a quel momento, e ai personaggi a cui mi sono appigliata nelle mie ore di insonnia e inappetenza, posso aspettare che questa crisi di tutto il mondo finisca. Stavo per scrivere “aspettare serena”. Poi mi è sembrato ingiusto nei confronti di chi questo privilegio non ce l’ha.

È con serenità, che aspetto? Non lo so. Però aspetto, pronta.

 

Sarò breve perché ieri il compagno di quarantena si è deciso a voler guardare Casa Howard dopo il telelavoro: ma lui finiva alle undici di sera, e il film durava due ore e venti.

Prima, però, avevo rovesciato il .

E meglio così! Con le mie pantofole di pelo rosa (eh, lo so) avevo assestato un calcio felpato alla tazza che, per forza di cose, avevo poggiato sul parquet davanti a quello che è diventato il mio studio privato: il mini-balconcino per stendere i panni, su cui getto un pareo da mare e due cuscini e mi metto a leggere Elizabeth Strout. Ero stata così assorta nella lettura di Olive, again che s’erano fatte le otto passate, e già mentre scorrevo le pagine sul Kobo avevo osservato il livello ancora inquietante di quel tè non Brit-approved, perché era con cannella e anice e soprattutto tanto zucchero (l’Impero colpisce ancora!). Sarei riuscita a dormire, io che vado in tilt con un Pocket Coffee? È che la giornata s’era svolta in ritardo, come ogni Pasqua che si rispetti, anche se nelle circostanze che sappiamo. In effetti, lo svolgimento faceva invidia a qualsiasi Filini tour:

  • 10.15: esercizio in guruvisione, con Zoom che s’era accaparrato il microfono anche dopo la videoconferenza;
  • 11.15 preparazione pranzo pasquale (spavette cu’ ‘e pellecchie) + manfrina WhatsApp “io-vi-sento-voi-mi-sentite” con genitori e fratello (ma il microfono, dicevamo, era ancora in ostaggio di Zoom);
  • 11.30 diretta Skype col gruppo di scrittura della libreria italiana, che non si arrende (e per poter parlare, con la sobrietà e il senso della misura che mi contraddistingue, ho disinstallato la chiavica di Zoom e riavviato il cellulare).

Quest’ultima attività è stata un trip esagerato, in senso letterale perché eravamo in tenuta da “vacanza alle Canarie“, votate come meta virtuale per l’ultima lezione: come se non bastasse, eravamo muniti di regali da condividere, nel mio caso un cestino da picnic con crema solare e dell’apprezzatissimo rum, lasciato in casa, credo, da mio padre. Abbiamo finito tardissimo, alle 15, quando il compagno di quarantena aveva già digerito del riso duro come una pietra che s’era preparato da solo, e dunque, mezz’ora dopo, osservava con diffidenza i miei spaghetti al pomodorino (ricetta che ai non italiani, di solito, sembra “troppo semplice” rispetto a quella ventina d’ingredienti che schiaffano loro nella pasta).

Insomma, ‘sta tazza di tè me l’ero riuscita a preparare verso le sette di sera!

Quando ho rovesciato la metà che pure ne rimaneva, dunque, non ho bestemmiato in mondovisione proprio la domenica di Pasqua: ho pensato sul serio “meno male”. E mi sono tornati in mente quei proverbi della nonna, che aveva passato la sua ultima Pasqua in diretta con me su Skype, facendomi pentire, poi, di non essere partita a salutarla. Adesso che per cause di forza maggiore m’ero risparmiata l’atrocità dell’agnello e il casino delle visite, mi dicevo al posto di nonna che “Non tutto il male viene per nuocere”, e “Se chiude ‘na porta, s’arape ‘nu purtone”.

A volte ce la raccontiamo per consolarci, che sia per una banale tazza di tè rovesciato o per cose serie come un lavoro perso, una storia finita: non ci rendiamo conto che, più spesso di quanto non crediamo, è davvero meglio così! Che quel lavoro l’avevamo accettato per inerzia, e per inerzia andava avanti la relazione, e comunque la voglia di tè alle sette di sera anche no, se come me non dormite bene dal 1986. E sì, avremmo dovuto trovare la forza o la lungimiranza di non metterci noi in quella situazione, o di sottrarcene prima possibile: ma oh, per una volta che ci viene la manna dal cielo sotto forma di inconveniente inaspettato, cavoli, ma ben venga!

La solita raccomandazione di ricavare il buono da tutte le situazioni è meno scontata quando c’è davvero qualcosa da ricavare.

Per esempio, vedete quanto è imprevedibile, questa nostra esistenza? Ho passato una delle Pasque più strane della mia vita (manco la più strana, che credete?) a fare considerazioni filosofiche su una tazza di tè.

E non l’avevo neanche corretto con il rum che avevo portato quel pomeriggio stesso, in spiaggia, alle Canarie.

(La colonna sonora del picnic in spiaggia.)

Nessuna descrizione della foto disponibile. Ho ereditato dal mio vecchio inquilino una lavatrice che fa schifo. Roba che risparmio di più a comprarne una nuova che a buttare tutte le calze che o distrugge, con il programma lavaggio breve, o non lava proprio, con il programma delicati.

Al che mi sono venuti in mente due ricordi legati a Napoli: uno è il detto popolare ‘o sparagno nun è maje guadagno, che ora dichiaro col privilegio di chi l’affitto lo riscuoteva, piuttosto che metterlo insieme (ma ero a pigione anche io, e sono sicura che all’inquilino, per recuperare i soldi, bastasse occupare solo due delle cinque stanze della casa, che subaffittava a mia insaputa).

Un altro ricordo viene direttamente da Forcella, Anno Domini 2006: la lavatrice napoletana che mi è costata più dell’intero affitto! Prima i due tecnici, che certo non facevano miracoli, poi la mia resa e l’acquisto di una nuova, infine l’abbandono quando ho traslocato, e quando ormai era chiaro che nessuno mi avrebbe aiutato a portarla via. Il primo tecnico, però, era un personaggio fantastico. Sulla sessantina, abituato ad avere come clienti ‘e signore che s’evene vede’ ‘a puntata (ovvero, le casalinghe in attesa della telenovela preferita), chiacchierava molto più di quanto in effetti lavorasse, ma a un certo punto mi fece una proposta che per lui era di routine: “Adesso che scosto la lavatrice dal muro, vi lascio un po’ di tempo per pulire?”. Ci misi qualche istante a capire che intendesse “pulire il rettangolo di pavimento occupato di solito dalla diabolica macchina”.

Allora si squarciò un abisso tra noi, che credo ruppe pure il piatto della contrabbandiera del primo piano. Chi mi conosce sa che sto alle faccende domestiche come uno yeti alla tintarella. Dunque: che me ne fregava di pulire uno spazio che si sarebbe sporcato subito di nuovo? Il tizio sosteneva che ‘e signore ne approfittavano tutte, e dovetti chiedermi se fossi io la degenerata sozzosa di sempre, oppure facessero finta loro di essere interessatissime a quell’operazione. No, non guardatemi così, non sono un mostro.

Adesso, invece, capisco il significato di quel gesto. A livello metaforico, eh, che per dirla come il tecnico, si fusse cazze che monto su una lavatrice, armata di mocho Vileda. Sta di fatto che sono orgogliosa di cosa abbia fatto della mia vita, dopo la crisi con cui vi ho ammorbato sette anni fa. Ma a un certo punto, tra rapporti umani un po’ asettici e tè del pomeriggio, stava diventando un immenso rifugio dall’incertezza, dall’ambiguità (che continuo a odiare, sempre che non rifletta la complessità della vita) e dalla paura di sbagliare (che esorcizzavo avendo sempre chiaro cosa volessi fare di me, pure quando non era vero!).

Adesso sto avendo questa piccola crisi ratificata addirittura dall’I Ching, una cosa che al confronto con la luuuna neeera (voce di Cloris Brosca mode on) di sette anni fa è tipo una brutta grandinata, rispetto alla cometa che sterminò i dinosauri. Una cosa minore, insomma, ma. A quanto pare ho bisogno di pulire. A quanto pare non basta una ricca catabasi, in senso classico o junghiano, a mettermi a riparo per sempre i desideri e i nervi: a quanto pare, bisogna sempre stare in guardia, o quella vecchia lavatrice che è diventata la mia vita, che già sbiancava passioni insidiose e centrifugava opportunità impreviste, adesso comincia pure a farmi sparire i calzini pucciosi che m’ero comprata quando avevo deciso di tapparmi in casa, al riparo dalle bufere là fuori, e di condurre una comoda vita tutta manoscritti e progetti di famiglia, poi accantonati. È quindi il caso di dire: cambio di programma! E le speranze frustrate non vanno nei delicati.

Allora di buono c’è questo: per un capriccio del dio delle lavatrici – che userà un programma tutto suo con le luuuneee neeereee – la macchina si è un po’ inceppata. Fa le bizze, poraccia, in fondo tra un po’ mi raggiunge i trentanove anni di servizio, e allora, visto che la devo riparare, do anche questa pulitina addizionale, magari col detergente agli enzimi.

E si sa, gli enzimi non finiscono mai.

 

(Vabbuo’, è una lavastoviglie. Ma la scena va bene per qualsiasi problema, e poi combattere la tecnologia a suon di bestemmie è la storia della mia vita. Ho i testimoni.)