Ecco qui (scorrendo dal basso) le puntate precedenti.
Alcuni nomi e fatti sono stati alterati per questioni di privacy, ma le cose sono andate più o meno così.
Questi fantasmi

Della casa mi piaceva che non finisse mai.
Ho un bel dire che l’ho presa per calcolo, e perché i miei la capivano più dei bilocali moderni venduti allo stesso prezzo. In realtà mi attrae anche l’illusione di aver percorso tutto il corridoio, con la schiera di balconcini che lo costeggia, per poi scoprire che a sinistra della sala da pranzo c’è un’altra ala, più piccola e buia. Pure all’ingresso, la pesante porta di legno occulta la vista del grande salone. C’è sempre un ultimo tratto da attraversare, e mi piace l’idea di perdermi, ammesso che sia per finta.
Durante il trasloco mi sono concentrata solo sui metri da percorrere per introdurre le mie cose in quello scenario neogotico, costellato da elementi kitsch: l’atroce orologio all’ingresso, le madonne in legno dipinto, e i quadretti bucolici dai colori accesi, raffiguranti pastori con le scocche rosse e dulcinee scollate. Adesso mi turba l’apparizione di una bambola bruna, accomodata su una seggiolina di velluto che scopro tra un armadio e una parete sbiadita. Il sussiego che mostra la bambola è annullato dal particolare che sia nuda. È solo l’inizio.
Dopo l’addio di Bruno, la Casa degli spiriti mi si chiude addosso, con le sue storie che non conoscerò mai.
Per qualche giorno non vado in panico. Con Bruno ci siamo separati più volte, per settimane intere: è sempre tornato. Nelle chattate che faccio al cellulare (ci metterò un mese a farmi installare il wifi), l’amico che ha inventato il concetto di Litofaga e quello di Corte dei Miracoli mi trova una definizione anche per questo:
“Liberati una volta per tutte da ‘sti pesaturi!”.
La mia risata echeggia tra tappeti polverosi e divani damascati. Un pesaturo è una persona che ti opprime con la sola presenza: Bruno è sempre così facile da definire, agli occhi degli altri, e l’idea di liberarmi di un peso è così allettante… E così veloce a franare.
Comincio a star male quando capisco che l’assenza c’è, che è lì per rimanere. Finisce che devo mandargli un messaggio io, per una questione riguardante lo Spazio. Poche parole spigliate, scritte mentre aspetto una coppia di amici a cui regalerò qualche mobile. Alla fine riesco pure a chiedergli: “Come stai?”.
Stavolta la sua risposta arriva subito: è contento. Bruno. Quello che si accostava a chiunque fosse disposto ad ascoltarlo e sciorinava un rosario di problemi. Adesso è contento.
Gli amici hanno bussato. Sono di Napoli, appena vedono la casa citano ridendo Questi fantasmi: “Un’ora la mattina, e un’ora la sera, dovete affacciarvi a tutti i balconi”. Scherzano, ma si guardano intorno con diffidenza. Non sono gli unici.
Uno della mia antica comitiva degli ascensori afferma di aver intravisto delle ombre in salone, mentre mi chiedeva di mediare tra lui e la sua ex. Quando è stata l’ex a visitarmi, l’ho vista stringersi allo stipite come una bambina: per un momento, su una delle due sedie a dondolo le era apparsa davanti una vecchietta. Era stato uno scherzo del lampadario a goccia, ripeteva con una risata incerta.
Quando la coppia corre via trascinandosi i mobili, senza più voltarsi, io resto sola coi fantasmi. Devo orchestrare una risposta a Bruno: “Mi fa piacere che tu sia contento”, gli scrivo, e vorrei che fosse vero ma non è così, e mi sento proprio meschina, ma mi fa male constatare che in un anno non sono riuscita a suscitargli ciò che la Biondissima gli ha regalato in un mese.
Nessuno è responsabile della felicità di nessuno, mi ricordo. E del dolore? Un anno della mia vita è diventato polvere, sono stata messa da parte nello spazio di un messaggino e due pettegolezzi. E tutto perché, a quanto pare, non avevo la struttura ossea adeguata. No, non è possibile: stavamo costruendo qualcosa anche se era complicato, non può aver mandato tutto all’aria perché aveva conosciuto da cinque minuti una che trovasse più bella… O forse sì.
Mi decido a chiamare un amico omeopata, balbettando per l’incapacità di chiedere aiuto, ma quello mi dà buca all’ultimo momento: gli dispiace, devo “affrontare gli spiriti”. Solo così posso guarire.
Ma come si fa?
Mi rifugio sul tatami che ho comprato per rimpiazzare un antico letto, che il nipote del vecchio proprietario si sarà portato via insieme al materasso. L’odore di resina mi sta dando la nausea, insieme a quello delle candele alla ciliegia che ho comprato d’occasione. Sono incapace di stendermi o rialzarmi, e gli spifferi che infestano la casa diventano fiato gelido: la minaccia di una notte infinita. Quella è proprio la Casa degli spiriti, e io sono un’anima tra tante, spenta come le altre. Come faccio a vincere il dolore?
Devi perdere.
Non è proprio una voce, quella che mi attraversa la mente. Quando sarò più lucida la definirò come una forza, un’energia improvvisa: la stessa che mi aveva fatto correre verso il mare mentre farfugliavo banalità al telefono con Bruno. In mancanza d’altro interrogo questa sorta di voce: contro chi o cosa dovrei perdere?
Contro il dolore. Tanto vince lui.
L’unica via d’uscita è attraversarlo, conclude la voce, come attraverso ogni giorno il corridoio di questa casa: sembra infinito, e non lo è.
E allora, supina sul tatami, mi porto le ginocchia al mento e mi accartoccio come un feto, o una larva nel bozzolo. È a quel punto che smetto di resistere, che dico al dolore: su, vieni. Fammi vedere cosa sai fare.
Poi apro le braccia.
A lunedì per il seguito!
Se vi piace ciò che scrivo, date un’occhiata al mio Sam: non glielo ricordate, ma ha vinto un premio proprio figo.