Archivio degli articoli con tag: ruoli di genere
Un altro maschio di casa che vuole la mia gonna!

Il mio coinquilino mi stava fregando una gonna.

Stavamo scherzando sull’idea di iscrivermi a un corso di uncinetto, e ho deciso che era giunto il momento di mostrargli il mio segreto: la mia prima gonna di filo, confezionata secoli fa! È stata pure l’ultima, con la sua caterva di punti sbagliati. Però spaccavano, quei fiorellini color turchese con un bottone a fare da pistillo. L’avevo indossata una volta o due, poi mi ero arresa al fatto che fosse scomoda, e mi ero dedicata a scrivere romanzi.

Di fronte alla rivelazione, il coinquilino ha insinuato che la gonna fosse troppo stretta per andarmi bene. Quando l’ho smentito indossandola addirittura sui pantaloni, l’ha voluta provare lui! E sì, per me gli stava benissimo. Mi piace come cadono le gonne strette su certi corpi maschili. Il bello, però, è arrivato quando mi ha spiegato che la trovava “liberatoria”, per il frescolino sulle cosce, e mi ha chiesto: “Secondo te potrei indossarla domani, per uscire?”.

Ho valutato la domanda, e in quel momento è successo. L’oggetto “gonna” ha cambiato significato.

Per esempio: per ovvi motivi, a un uomo cis la stoffa non cade del tutto liscia sul davanti. Dovevamo decidere se minimizzare la cosa o lasciarla così, e da quel momento le nostre linee di pensiero si sono separate del tutto. Anche perché la soluzione da me proposta (indossare boxer coordinati) ha scoperchiato di nuovo il vaso di Pandora.

Dovete sapere che giorni fa, incapace di dire “slip sgambato” in inglese, gli ho comunicato che lui usava mutande “tipo quelle da donna”, e lui mi ha subissato di domande! Mi mostrava perfino gli ultimi acquisti: erano da donna? Non capivo. Aveva un appuntamento galante e temeva una figuraccia? Oppure aveva paura che l’ultima spesa da Tezenis fosse avvenuta nel reparto sbagliato? La seconda che ho detto, giura ancora lui. Ignora che nella calza della Befana troverà quattro capi “non sgambati” di Intimissimi Uomo (uno mi è stato dato in omaggio): è un regalo che faccio soprattutto a me stessa, per non doverlo più stare a sentire!

E invece eccolo lì che voleva indossare una gonna, e la vera differenza tra noi riguardava le priorità. Io gli ho sventagliato tutti i trucchi per esporre “solo i centimetri necessari”, appresi in un’adolescenza costellata di pantaloncini sotto le minigonne. Lui non mi seguiva: perché avevo tutta questa urgenza di fargli coprire il corpo? Quello che gli interessava era capire come “funzionasse” una gonna, oggetto a lui familiare, ma quasi proibito: per questo chiedeva le istruzioni per l’uso.

Per un momento ho provato invidia, e non per la “sporgenza” da nascondere, con buona pace di Freud, ma per uno che non capisce perché la mia priorità, quando indosso un capo corto, sia minimizzarne l’effetto vedo non vedo. D’altronde per lui era stato impensabile indossare una gonna fino a quel momento, mentre io vado da sempre in giro coi pantaloni della tuta, quando mi scoccio di vestirmi.

Alla fine ci siamo stabilizzati sulla regola della maglia: se lui ne trovava una abbastanza lunga da coprirgli i fianchi, era fatta.

Purtroppo non aveva una maglia di quel tipo. A malincuore ha lasciato la gonna sulla sedia, e ha lasciato me con un dubbio: quella conversazione sarebbe stata possibile altrove? Ne abbiamo parlato con una nonchalance permessa, forse, solo da due circostanze. Una è che lui è quello che è: ce lo vedo a girare sperduto come quegli ebrei chassidici che lasciano la comunità (nel suo caso, i boschi…) e non sanno neanche, per dire, comprarsi un paio di mutande da Tezenis. Un’altra è che io ho lasciato da tempo la mia comunità, che non sarà chassidica, ma provate a indossare una gonna “da uomo” la domenica al corso.

O forse la società è cambiata tanto che l’unico problema vero, per il mio coinquilino che indossa la gonna, diventerà sul serio come abbinarci i boxer.

Mi sa che indosserà quelli che gli ho preso io per la Befana.

Pubblicità

Image result for bumble serena williams È tutta colpa del compagno che all’interrogazione rispondeva: “Uno!”.

Il prof. di biologia insisteva: “Quanti gameti ci vogliono per formare uno zigote?”. E quell’altro, sempre: “Uno!”. Al che il prof., per fargli intuire di cosa si parlasse, chiosava: “Caro mio, ‘o fattaccio si fa sempre in due!”.

È con questo motto che, nella speranza che prima o poi ci riproduciamo tutti per mitosi, ho scaricato di nuovo quelle app d’incontri che sul mio cellulare erano durate una settimana. Ma solo per lasciare un messaggio tipo: “Ciao, dalla vita ho avuto tutto quello che volevo tranne una famiglia. Se ti capita lo stesso sentiamoci”. Intuirete che la mia attività online sia l’equivalente della balla di fieno che rotola via nel deserto – a parte i messaggi di quelli che non sanno leggere, tantini comunque.

Ieri però mi è capitata quest’app che mi ha annunciato: “Da noi le ragazze fanno la prima mossa!”. Insomma, se mi piace uno (evenienza più unica che rara, figuratevi dall’altra parte!), ho 24 ore di tempo per contattarlo, o la balla di fieno fa gli straordinari. Capirete che non sia l’ideale, per una che voleva solo lanciare il messaggio-bomba di cui sopra: specie se consideriamo che, sulla questione bambini, i meglio femministi possono diventare maschi alfa che minacciano di prendere il primo volo per Timbuctù (reazione equivalente solo alla scoperta che guadagniate più di loro: lì al confronto Khal Drogo diventa una suffragetta).

In ogni caso, mentre già fumavo dalle narici per la rabbia, ho fatto una breve ricerca su Google e ho scoperto che le ‘mericane sarebbero così entusiaste di questa roba, so empowering, oh my God, che alcune famose ci hanno pure investito. 

Basta con il corteggiamento classico, che comunque schifavo da tempi non sospetti: che siano le donne a prendere l’iniziativa! Fantastico. Ma solo loro. Rovesciamo semplicemente le cose e andrà tutto benissimo.

Cosa c’è che non va? Be’, immaginiamoci un’app che connetta donne afroitaliane o afrospagnole con connazionali “bianche”: io non mi offenderei troppo se le prime fossero un po’ sul chivalà. Saprebbero benissimo che non sono tutte le bianche, ma in fondo si sono sentite dire tante volte: “Di dove sei? Sì, vabbe’, ma dove sei nata? Come parli bene la nostra lingua!”. Oppure hanno scoperto che, per le loro amiche bianche, le aree meno sicure della città sono quelle in cui tendono a vivere loro e la loro famiglia, fossero anche zone magari non fighette, ma comunque tranquille. Oppure si sono sentite chiedere se “nel loro paese” sono molto oppresse, da una che ha perso il lavoro quando è diventata madre, ed è stata appena fischiata davanti a un bar. Sì, sono molto oppresse nel loro paese.

Ultima: prendete un’app che debba connettere i gay a una categoria che gli ha sempre chiesto “Chi è l’uomo e chi la donna?”, spiegandogli magari che “hanno molti amici gay, ma non gli va bene quando ostentano”. Capirete che, anche senza generalizzare, ci andrebbero coi piedi di piombo.

Insomma, a parte che schifo le imposizioni di ogni tipo, invitare una qualsiasi categoria discriminata a risolvere la cosa “buttandosi” (non si sa da dove) non mi sembra la soluzione ideale.

Tornando alla nostra app “femminista cccosì”, un po’ lo diceva zio Marx nel famoso libro Non dirmi che non te l’avevo detto, che trovate qui in inglese. Nella fattispecie, questo incontro “in salsa rosa” tra tecnologia e capitale si chiama pinkwashing, termine ‘mericano che indica la commercializzazione del femminismo e dell’attivismo LGBTIQ: compra questo prodotto, è così empowering!

Facciamo così: empowera un po’ ‘sta… e vedi di non imporre codici di comportamento a nessuno, né in un senso e né in un altro.

Intanto, in attesa che mi attiri qualcosa di più ingegnoso dell’amore eteronormativo, finisce che la mia ricerca della “famiglia tradizionale” naufraga miseramente e vado nella clinica di Carmen Russo (magari i vari amici che ci lavorano mi fanno fare uno sconto…). Oppure, visto che qua i single possono adottare, scarico su Duolingo la lingua di mia figlia – che ci metterà tre minuti a imparare la mia.

Per fortuna, con buona pace dei miei 6 risicati in biologia, il fattaccio non si fa per forza in due.

Sì, ho scritto “per fortuna”.

testament-youth  Sto riguardando Generazione perduta, cattiva traduzione di Testament of Youth, basato sul libro di memorie di Vera Brittain. La fanciulla, vent’anni quando scoppia la Prima Guerra Mondiale, era stata così fortunella da innamorarsi pochi mesi prima. E di uno che, scoppiato il conflitto, non ci avrebbe visto più dalla voglia di partire, vagamente convinto peraltro di essere immortale.

Non ve lo dico neanche: alla pischella muore l’impossibile tra amici e parenti. Il fratello. I compagni di lui. E ovviamente il fidanzato, Roland, con quel nome da paladino un po’ stralunato, che finisce come un colabrodo per la seguente impresa eroica: andare a sistemare il filo spinato intorno alla trincea.

Sì, non bisogna essere esperti di guerra per intuire che se lo potesse risparmiare.

Nel film, Roland è Kit Harington, condannato ormai da tutti i copioni a fare il soldato strano (tanto ormai mi avete già spoilerato tutti Trono di Spade).

Lei è Alicia Vikander, determinata a sfuggire a ogni cliché, e infatti da svedese bruna interpreta una così inglese da chiamarsi Brittain.

Allora eccola infuriarsi, lottare per il suo sogno di andare a Oxford che nel 1914 sarebbe stato ben più irrealizzabile che fare oggi la velina. E certo, le donne nel 1914 devono solo sposarsi e avere figli. Non possono neanche andare in guerra, devono restare indietro a rammendare calzini per chi ci va.

Ok. Ma c’è una scena bellissima in cui i due ragazzi cominciano ad amoreggiare senza mai neanche baciarsi (spunta sempre all’orizzonte la matrona corpulenta che li sorveglia). Lei, allora, gli confessa un po’ timida che vuole fare la scrittrice.

Lui le risponde, sullo sfondo di un bel sentiero di campagna, che vuole fare lo stesso.

Cento anni dopo, possiamo dirlo: chi c’è riuscito?

Lei. Perché? Perché lui è morto in guerra, a vent’anni. Perché? Lui era uomo e lei no.

Gli svantaggi che ti darebbe possedere una vagina sfumano davanti ai luoghi comuni legati all’avere un pene: e allora tutti a fare a gara a chi muore prima, chi va per primo a uccidere tanti nemici cattivi, salvo finirne crivellato mentre faceva qualcosa di simile a rammendare calzini, ma col filo spinato.

E allora a chi fanno bene gli stereotipi di genere? Perché ne leggo tante, ultimamente.

È umano commuoversi davanti a delitti efferati. È facile ricorrere a luoghi comuni sugli uomini che hanno la bestia dentro, che considerano tutti le donne come oggetti, che devono frenare questa loro animalità mentre le donne vogliono la pace

Avreste dovuto sentire Vera che parlava con suo padre per mandare a morire il fratello. “Lascia che sia un uomo”. E queste qua, non ingannatevi, ci sono sempre state, spesso più numerose delle madri pietose.

E allora, prima di urlare agli uomini feroci e le donne vittime pacifiche, pensiamo a tutti i cliché che ci investono fin da piccoli e in cui ci crogioliamo.

Sono gli stessi luoghi comuni travestiti da grandi verità che hanno tenuto le donne lontane da Oxford, e mandato dei ragazzi a impigliarsi nel filo spinato di No Man’s Land.

Questo deve cambiare, è vero, ma non dobbiamo inneggiare al cambiamento ogni volta che muore una, prima di tornare a dire agli uomini di “essere maschi, perdio”, e ricordare alle donne che hanno un orologio biologico (cliché tornato in auge proprio quando le Nostre erano passate da Oxford a Wall Street).

Questo può cambiare da adesso nelle nostre pratiche quotidiane, quando rinunciamo a quelle che crediamo certezze e ci affidiamo all’unica bussola possibile: quella che ci porta a scoprire ogni giorno cosa significa essere noi.

A seguire quella, il filo spinato di No Man’s Land poteva anche rammendarsi da solo.

Come i calzini lasciati indietro senza rimpianti da quelle che a Oxford, alla fine, ci sono entrate.